Contributo al convegno di Bologna sulla precarizzazione
(30 novembre e 1 dicembre 1996)

Contributo al Convegno di Bologna sulla precarizzazione
  • Numeri vari
  • La questione demografica
  • La diversificazione formativa universitaria
  • La "mortalità" universitaria e l'espansione del tempo di laurea
  • FORMAZIONE: da Ruberti all'accordo del 3 luglio 1993
    FORMAZIONE: Prodi ed il patto per il lavoro

    Dopo la sconfitta dell'operaio massa, maturata nel corso degli anni '70, le strategie capitalistiche di decomposizione del potere e dell'autonomia di classe operaia all'interno della fabbrica e del territorio, si sono sempre più sviluppate nella direzione di una crescente automatizzazione e informatizzazione del ciclo produttivo, che ha dato seguito ad una espulsione di forza lavoro dalla vecchia fabbrica fordista centralizzata di dimensioni senza precedenti.

    Questa enorme massa di forza lavoro è stata in parte riassorbita nei nuovi settori produttivi a tecnologia avanzata ed in parte nel settore dei servizi (sia avanzati che di tipo tradizionale), verso cui il capitale in questi anni ha diretto una quota crescente dei suoi investimenti. Il settore dei servizi, di conseguenza, ha subito negli ultimi decenni una notevolissima espansione, che ha interessato in particolare i cosiddetti servizi alle imprese. Per lo più si è trattato, in quest'ulimo caso, del risultato di quei processi di decentramento produttivo che hanno costituito una delle principali strategie antioperaie messe in campo dal capitale. Si tratta, in altri termini, di quelle strategie aziendali di esternalizzazione di funzioni produttive dalla grande fabbrica verso la piccola e media impresa e verso il cosiddetto lavoro autonomo, aventi come scopo quello di destrutturare le grandi concentrazioni di forza lavoro e togliere forza d'impatto alle lotte operaie.

    L'espulsione di forza lavoro dalla grande fabbrica fordista, è andata inoltre ad alimentare un'area della disoccupazione che va assumendo sempre più caratteri strutturali e che ricopre, all'interno delle strategie capitalistiche, un ruolo fondamentale in quanto strumento di ricatto che viene utilizzato dai padroni per comprimere i salari e modificare, in senso peggiorativo, le condizioni di lavoro (tempi, ritmi, sicurezza ecc.).

    A rafforzare il ricatto occupazionale - che si basa evidentemente sul presupposto di un reddito rigorosamente agganciato alla prestazione lavorativa - vi sono poi le strategie capitalistiche di globalizzazione produttiva, e cioè la tendenza di molte aziende a delocalizzare i segmenti produttivi maggiormente massificati ed a minore intensità tecnologica - che non necessita quindi di una forza lavoro qualificata e di servizi ed infrastrutture avanzati - verso aree in cui il costo del lavoro o, in altri termini, la capacità operaia di esprimere organizzazione e conflitto, è minore. Si tratta, in alcuni casi, di aree interne agli stessi paesi a capitalismo avanzato (ad esempio il Mezzogiorno), ma anche di paesi un tempo sottosviluppati ed ora definiti "di nuova industrializzazione" (Messico, Brasile, Corea del sud ecc.). Qui, data la presenza di un enorme "esercito di riserva" di disoccupati e sottooccupati, la ricattabilità dei lavoratori è elevatissima e le condizioni lavorative e salariali al limite della sopravvivenza.

    La globalizzazione della competizione tra proletari sul mercato del lavoro modifica radicalmente i rapporti di forza a favore dei padroni e la loro capacità di intensificare lo sfruttamento, ovvero di espropriare ricchezza e tempo di vita.

    E' attraverso queste strategie che, negli stessi paesi a capitalismo avanzato, il capitale è riuscito ad imporre, a partire dagli anni '80, una crescente precarizzazione del rapporto di lavoro ed una sempre maggiore flessibilità dei salari (ovviamente verso il basso).

    Ciò comporta ovviamente una crescente gerarchizzazione della forza lavoro in termini di salario e di condizioni lavorative anche se questo non deve far dimenticare come il processo di precarizzazione coinvolga l'intero corpo della classe, determinando all'interno di quest'ultimo una frammentazione ed atomizzazione che spostano ulteriormente i rapporti di forza a favore del capitale. La frammentazione, unita alla ricattabilità che un rapporto di lavoro sempre più precarizzato comporta, rende molto più difficile - anche se non impossibile, come qualcuno ha cercato di sostenere - l'organizzazione delle lotte all'interno dei luoghi di lavoro.

    Precarizzazione, atomizzazione e decurtazione salariale sono inoltre accompagnati da un forte incremento dei carichi di lavoro, sia in termini di estensione, sia in termini di intensità.

    In definitiva per quanto possa apparire paradossale, attraverso il ricatto della disoccupazione (che padroni, sindacalisti e uomini politici di ogni bandiera definiscono, in modo interessato, "mancanza di lavoro"), il capitale si pone l'obiettivo di imporre lavoro in misura crescente. Questo incremento dell'imposizione di lavoro riguarda non solo il lavoro nella sua accezione comune (quella di lavoro retribuito), ma anche il lavoro non pagato che viene svolto nella sfera della riproduzione della forza lavoro (ad esempio il tempo dedicato al lavoro domestico e di cura all'interno delle famiglie, che viene svolto prevalentemente dalle donne ha subito una drastica espansione come conseguenza dei tagli alla componente sociale della spesa pubblica).

    All'interno della sfera della riproduzione includiamo naturalmente anche la formazione, ovvero quel lavoro di apprendimento e di acquisizione di capacità professionali a vario livello, che la forza lavoro, presente e futura, deve svolgere per adeguarsi alle esigenze capitalistiche, pena l'impossibilità di vendersi sul mercato del lavoro.

    In questo campo le politiche capitalistiche sono perfettamente coerenti con il contesto generale che abbiamo qui sommariamente cercato di delinerae. I loro obiettivi si possono così riassumere:

    1) Imposizione di un maggior carico di lavoro nell'ambito della formazione, che cessa di essere confinata entro i limiti dell'istruzione scolastica ed universitaria e diventa formazione permanente, formazione che si prolunga per tutto l'arco della vita. La forza lavoro deve adeguarsi costantemente alle sempre più rapide trasformazioni tecnologiche ed organizzative che caratterizzano il sistema produttivo. Si pensi anche al prolungamento dell'obbligo scolastico fino a sedici o diciotto anni.

    2) Modernizzazione e flessibilizzazione dei contenuti dei percorsi formativi, allo scopo di adeguare qualitativamente la forza lavoro all'esigenza delle imprese e di chiudere ogni spazio all'elaborazione di un sapere alternativo, critico ed antagonista.

    3) Contenimento della disoccupazione entro i limiti di compatibilità del funzionamento del mercato del lavoro (limiti oltre i quali la disoccupazione cessa di essere strumento di ricatto e di compressione delle condizioni salariali e lavorative e diviene fonte di conflittualità sociale). Si pensi ancora al prolungamento dell'obbligo scolastico.

    4) Riduzione dei costi della formazione a carico delle imprese:

    a) attraverso il trasferimento dei costi delle istituzioni pubbliche preposte all'istruzione dallo stato ai redditi delle famiglie;

    b) attraverso il trasferimento dei costi dei processi formativi direttamente gestiti dalle imprese, da queste ultime alle casse dello stato (in questo modo vengono socializzati pesando così sui redditi proletari);

    c) promozione di centri di formazione professionale e di agenzie formative private.

    Numeri vari

    Il dibattito sul numero chiuso ed il polverone da esso scatenato hanno probabilmente significato per molti compagni un ritorno alla discussione sulle variabili della ristrutturazione universitaria e la possibilità di riaprire spazi di intervento su questioni nodali sostanzialmente chiusi fin dal movimento della Pantera.

    Deficit sostanziale è stata la mancata puntualità di un'analisi che vagliasse quanto realmente fondata fosse la possibilità di legiferare su una questione tanto spinosa ed illiberale quale il numero chiuso o se ci si trovasse di fronte ad un momento completamente pilotato dall'alto nei tempi, nelle forme e nella composizione.

    La nostra ipotesi è che il passaggio da un'università di massa ad una dimensione formativa più duttile e flessibile, immediatamente sussumibile nel processo produttivo, non sia sicuramente compiuto, ma abbia comunque fondamenta da non necessitare di scossoni troppo violenti.

    La questione demografica

    Per la prima volta dall'unità nazionale, gli universitari sono in rapido declino. L'inversione di tendenza di una crescita ininterrotta si manifesta timidamente nel corso degli anni '80, ma nel decennio successivo assume una portata strutturale, tale da causare una contrazione della popolazione pari ad un terzo del 1981.

    Ponendo come termine iniziale di paragone il 1981, la flessione è del 3,4% nel 1994, con il passaggio da 892.098 unità a 861.728. La tendenza diviene più palese se proiettata nel futuro. Le stime (poco confutabili in quanto basate su una fetta di popolazione immediatamente individuabile in quanto frequentante le medie inferiori e superiori) indicano un calo del 32% nel 2003 e del 36% nel 2008 con un numero di 606.492 e 570.582 studenti rispettivamente.

    Questi dati hanno come referente i diciannovenni, cioè chi si iscrive all'università, quindi risultano estremamente rappresentativi. Analizzando la fascia di studenti che va dai 20 ai 24 anni il calo dal 1994 è del 27,5% nel 2003 e del 35,3% nel 2008, che in termini di popolazione universitaria significa il passaggio da 4.885.451 unità a 2.901.979 nel 2008.

    Tutto ciò evidenzia come in un periodo estremamente breve l'università quale era stata considerata finora sia destinata a scomparire di morte naturale, in modo assolutamente indolore.

    Naturalmente queste sono considerazioni squisitamente demografiche e quantitative, a cui devono essere necessariamente aggiunti elementi sulla composizione sociale dell'università.

    La diversificazione formativa universitaria

    La peculiarità italiana è quella di una scolarizzazione post-secondaria esclusivamente universitaria. Analizzando a livello internazionale gli indici di scolarizzazione superiore si può individuare in modo netto la tendenza ad una diversificazione formativa a doppio binario post-secondario.

    Nel 1991 il tasso di scolarizzazione post-secondario complessivo è in Giappone del 55%, in Francia del 48%, in Germania del 47,8% ed in Italia del 41,7%. Ma se in Italia questo tasso si esaurisce nella scolarizzazione universitaria (41,3% - la differenza dello 0,4% è imputabile all'Accademia delle Belle Arti -) in Giappone la scolarizzazione universitaria è solo del 25,2%, in Francia del 30,6% ed in Germania del 35,3%.

    L'attuale modello formativo post-secondario italiano è di evidente impaccio ad un capitale che necessita di ben maggiore flessibilità formativa. La differenziazione già avviata con l'introduzione del diploma universitario, del diploma post-laurea e delle scuole a fini speciali, rappresenta il primo passo verso una veloce ristrutturazione formativa simile al doppio binario europeo, infrangendo completamente la tradizionale università pubblica.

    Alla classica diversificazione formativa, già ben delineata dalla Pantera tra Atenei di serie A e B, bisogna sommare una sempre più corposa differenziazione interna. Ciò introduce nel sistema universitario pubblico una competitività finora inedita: Atenei di massa, poco o per nulla integrati nel mercato, parcheggio a lungo termine di disoccupati, ed Atenei di serie A elitari, con strutture didattiche e finanziamenti ben più corposi, integrati nel sistema produttivo e gestiti con criteri manageriali.

    E' dalle università di serie A, dai corsi post-diploma e post-laurea, (organizzati in prima persona dai privati, con generosi e compiacenti aiuti delle casse statali) che usciranno i futuri quadri dirigenti. Si opera una differenziazione sociale su basi censitarie, meritocratiche e culturali. A chi non fa parte della ristretta élite del futuro, il sistema formativo deve favorire la preparazione all'entrata nel mercato del lavoro, deve quindi formare a flessibilità, precariato, assenza di garanzie sociali.

    Inoltre la differenziazione non si limita alla scolarizzazione post-diploma, deve avvenire già al termine delle medie inferiori, si cerca di indirizzare verso specifiche competenze di formazione professionale e conseguentemente verso quello che sarà il proprio ruolo nella società.

    La "mortalità" universitaria e l'espansione del tempo di laurea

    Nei primi anni '60, più della metà degli studenti abbandonavano gli studi. Nel 1991-92 sono riusciti a conseguire la laurea solo un terzo degli immatricolati dei 5 anni prima. Il tasso di laurea si attesta in Italia al 30,3% mentre nei paesi avanzati raggiunge il 50-60%.

    Inoltre, per oltre l'80% dei laureati nel 1996 la permanenza nelle aule universitarie risulta superiore (e spesso molto superiore) a quella prevista dagli ordinamenti didattici.

    Ritardi ed abbandoni sono le due facce della stessa medaglia, nel panorama universitario la figura del lavoratore-studente si intreccia con la condizione di fuori corso per poi dissolversi senza traccia di laurea. Per chi abbandona gli studi, la mancata reiscrizione colpisce i lavoratori-studenti nel 54,4% dei casi, contro il 22,9% degli studenti a tempo pieno ed il 22,7% degli studenti-lavoratori. I motivi dell'interruzione ruotano principalmente attorno alla dimensione reddito-lavoro.

    Sono le rigide caratteristiche del mercato del lavoro che spingono ad un'utilizzazione massiccia dell'università, nel doppio significato di investimento e di consumo.

    L'aumento verticale del costo-laurea degli ultimi anni (privatizzazione dei servizi e costo reale degli stessi, fine dell'assistenza pubblica con il D.P.C.M. Ciampi del 1994, aumento delle tasse universitarie, costo dell'alloggio, dei trasporti, ecc) è sia causa diretta di abbandono degli studi, di mobilità verso le università meno costose del sud per i fuorisede meridionali, che dell'allargarsi della figura dello studente-lavoratore.

    Ciò implica l'espandersi del tempo di laurea ma soprattutto la diffusione di una figura di studente-lavoratore-precario-flessibile, quasi sempre assunto in nero, abituato a non avere alcun tipo di garanzia e a non reclamare nessun diritto.

    L'università forma anche fuori dai consueti canali didattici, forma alla precarietà, alla flessibilità, allo svendersi incondizionatamente come forza lavoro.

    Analoga situazione di discriminazione economica è quella della scuola media superiore. Nel 1990-91 su 100 diciottenni solo 52 risultavano diplomati, mentre nei paesi OCSE la media è dell'80%. Nella scelta della secondaria superiore il ceto di appartenenza dello studente è chiaro nella scelta del tipo di studi (ceti d'élite=classico, ceti medi=liceo scientifico e via a scendere fino al professionale). Gli abbandoni dopo il primo anno nei licei sono il 7-8%, negli istituti tecnici più del doppio e nei professionali quasi il triplo.

    Sotto la pressione del calo demografico, della diversificazione formativa, dell'abbandono dovuto a problemi di reddito e lavoro, l'università italiana diviene sempre meno di massa e più censitaria. La contrazione della popolazione studentesca tradizionale e l'uscita dall'università per raggiunti limiti di età di una quota rilevante del baronato attualmente in servizio, geneticamente ostile a processi di modernizzazione, procederanno in parallelo nel prossimo decennio ponendo le basi per una radicale risrtutturazione dell'università di cui l'autonomia finanziaria, l'espulsione di larghissimi segmenti di classe, sono la premessa essenziale.

    FORMAZIONE: da Ruberti all'accordo del 3 luglio 1993

    Nel 1989 viene approvata la legge 168 che riguarda l'università ed in paticolare l'articolo 16 di questa chiamato dal movimento 90 "la bomba a tempo" poneva un termine all'intervento dello stato negli ordinamenti universitari.

    Questo articolo diceva che qualora lo stato non avesse potuto promulgare una legge sull'autonomia amministrativa entro il maggio 1990 tale potere sarebbe stato conferito ai singoli Atenei. Nell'estate 1989 viene presentato il progetto di legge quadro che va sotto il nome di legge Ruberti che regolamenta l'autonomia delle università secondo la legge 168: autonomia finanziaria, autonomia amministrativa, autonomia didattica e ricerca da attuarsi mediante la compilazione di uno statuto.

    Con la legge Ruberti lo stato riduceva il finanziamento pubblico delle università. Alle università veniva delegato il compito di finanziarsi mediante le imprese italiane e non che avrebbero investito capitali sugli atenei al fine di sviluppare la ricerca ed indirettamente la didattica. La legge quadro non conteneva soltanto indirizzamenti economico-amministrativi ma tutte quelle tematiche ora presenti nell'Ateneo bolognese: il numero chiuso sia per censo che per merito, la frantumazione della grande sede con la creazione di poli distaccati sia in aree extraurbane sia in regione, ecc.

    Questo processo si blocca almeno in parte con il movimento studentesco del 1990 e la successiva caduta del governo Andreotti. Per effetto dell'articolo 16 del D.P.R. 168 del 1989 alcuni Atenei si trovano a gestire la propria autonomia (vedi Bologna, Padova, Milano, Torino, Pisa). Il primo ministro Antonio Ruberti ha sempre negato di voler privatizzare l'università e lo stesso diceva il ministro della pubblica istruzione Rosa Russo Jervolino agli studenti della scuola media superiore e come i loro successivi ministri dell'università e dell'istruzione non sembrano aver preso in considerazione l'idea di privatizzare il sistema scolastico.

    Probabilmente ha influito non poco la decisione degli imprenditori italiani di non supportare gli oneri economici del sistema formativo, ma di limitarsi ad indicare quali indirizzi deve seguire per rispondere alle esigenze del mercato e della ricerca, organizzando i corsi post-diploma e post-laurea da cui usciranno i futuri quadri dirigenti.

    Tutto ciò trova conferma negli accordi del 3 luglio 1993 tra CONFINDUSTRIA e CGIL, CISL e UIL.

    In questo testo è presente una parte intitolata "Il sostegno al sistema produttivo" i cui primi paragrafi sono chiamati "Ricerca ed innovazione tecnologica" e "Istruzione e formazione professionale" indica con chiarezza la necessità di una trasformazione dell'istruzione e della ricerca affinchè divengano maggiormente funzionali al capitale.

    Nel primo dei due paragrafi si legge: "negli anni '90 scienza e tecnologia dovranno assumere più che nel passato un ruolo primario. L'attuale sistema di ricerca e dell'innovazione è inadeguato a questi fini. Interventi miranti a dare al paese un'adeguata infrastruttura di ricerca scientifica e tecnologica industriale si dovranno ispirare al consolidamento, adeguamento ed armonizzazione delle strutture esistenti nonché ad una maggiore interconnessione tra pubblico e privato".

    Questo accordo vuole promuovere un accordo sistematico tra il mondo dell'istruzione ed il mondo del lavoro nell'ottica della "costruzione di un sistema per il 2000 integrato e flessibile tra sistema scolastico nazionale e formazione professionale". L'ex ministro Ruberti sostenne alla fine del 1991 che l'aumento delle risorse si sarebbe dovuto realizzare in parte con un aumento delle risorse pubbliche ed in parte con un maggiore coinvolgimento degli studenti.

    Nella Finanziaria del 1993 a fronte di una forte decurtazione delle risorse pubbliche a favore delle università si trovano forti aumenti delle tasse e dei contributi a carico degli studenti.

    Cosa intende CONFINDUSTRIA per finanziamento privato dell'istruzione pubblica lo si legge nell'accordo: "Il governo e le parti sociali ritengono che occorra valorizzare l'autonomia degli istituti scolastici, pagare di più e i privati facciano pure ingresso nelle scuole".

    In Italia c'è stata un'istruzione formalmente per tutti ma nei fatti selettiva. Il basso costo delle tasse rispetto ai paesi sviluppati consentiva un ampio ingresso che era vanificato dall'alta "mortalità" scolastica e universitaria.

    I fondi pubblici destinati al finanziamento della ricerca delle imprese private sono cresciuti dal 3,5% nel 1970 al 35% nel 1992. A questo si deve aggiungere che un importante ente di ricerca pubblico come il CNR si sta trasformando sempre più in un coordinatore di ricerche commissionate dall'industria e per l'industria.

    E' sempre più improbabile che il capitale italiano abbia intenzione e disponibilità finanziaria sufficienti per privatizzare la ricerca. Risulta più conveniente ricercare una stretta collaborazione tra strutture pubbliche e private tramite:

    a) la concentrazione delle risorse disponibili nei settori prioritari del sistema produttivo italiano;

    b) l'allestimento di parchi scientifici e tecnologici;

    c) la convergenza dell'università sui progetti promossi dalle imprese;

    d) la definizione di programmi di diffusione e trasferimento delle tecnologie a beneficio delle piccole e medie imprese per cui sono già previsti appositi stanziamenti.

    Quindi la ricerca di base rimane affidata allo stato.

    Le risorse private saranno invece destinate a progetti specifici di immediata rilevanza economica da realizzarsi col concorso pubblico. I finanziamenti delle imprese saranno invece scelti dalle imprese stesse e mirati su specifici settori della formazione vicini alla fase di utilizzazione del semilavoratore-studente e su specifici settori della ricerca con possibilità di utilizzo industriale in tempo ravvicinato.

    Per le necessità italiane occorre un sistema formativo e di ricerca più ridotto ma maggiormente flessibile e qualificato, quindi il problema non è un numero troppo piccolo di laureati ma quello della loro distribuzione nei vari rami.

    FORMAZIONE: Prodi e il patto per il lavoro

    Perfettamente in linea con le direttive espresse dagli accorsi tra CONFINDUSTRIA e sindacati del 3 luglio 1993, primo capitolo della ristrutturazione degli ambiti formativi, il patto sul lavoro del 1996, con la firma di centrosinistra, sindacati e CONFINDUSTRIA ne rappresenta la continuazione e lo sviluppo ideale.

    Il capitale non si limita alla precarizzazione della forza lavoro esistente sul mercato, ma inserisce nel processo "l'obiettivo prioritario di assicurare continuità di accesso alla formazione per tutto l'arco della vita, anche in relazione alle trasformazioni del contesto competitivo, del mercato del lavoro, caratterizzate da mobilità, da lavori che richiedono adattabilità e continua capacità di apprendere".

    Un'impostazione del genere implica, oltre all'esplicita sottomissione alle leggi del mercato, il che non sarebbe una novità, la certezza conseguente di restare precario a vita, acquisendo di volta in volta le conoscenze necessarie per la specifica prestazione richiesta.

    Il "diritto" a questo tipo di istruzione verrà riaffermato (cfr capitolo 4) "attraverso l'uso di congedi di formazione e periodi sabbatici, attraverso uno specifico provvedimento legislativo di sostegno alla contrattazione"; anche i contratti di apprendistato e di formazione lavoro, così centrali nel processo di precarizzazione, vengono giustificati con la necessità di garantire accesso continuo alla formazione. L'impresa potrà così disporre di forza lavoro estremamente malleabile ed altamente ricattabile, per cui la frattura della classe operaia sarà tra una paradossale élite che ha saputo o potuto riciclarsi secondo la volontà del padronato ed un insieme parcellizzato di individui sballottati tra un corso di formazione e l'altro, col miraggio di un'occupazione ancora instabile.

    A questo si aggiunge il rilievo dato ai percorsi individuali di apprendimento, il che rende ogni lavoratore una realtà a se stante sul piano contrattuale, con la conseguente estensione dei contratti "ad personam".

    Tutto questo rientra coerentemente nella politica di smantellamento dei diritti che ha già portato al progressivo svuotamento di senso degli uffici di collocamento, con la reintroduzione della chiamata nominale e quindi la conversione di tali uffici in vere e proprie banche dati in grado di fornire all'impresa il lavoratore più adatto all'occorrenza.

    La nuova personalizzazione del rapporto di lavoro è forse il segnale più preoccupante di un ritorno al caporalato e del quasi annullamento delle potenzialità antagoniste della classe operaia.

    L'obiettivo è quello di innalzare la competitività del sistema italiano attraverso l'elevamento della qualità dell'offerta di lavoro, il che significa riqualificare i programmi scolastici in accordo col mondo del lavoro ed in particolare con la domanda che nasce nel territorio e percorsi formativi post-diploma, alternativi all'università, in stretto collegamento con le dinamiche occupazionali. Il che sembra riaffermare ed approfondire il divario tra un sapere d'élite, quello universitario, funzionale alla composizione dei quadri dirigenti, ed un sapere specialistico e tecnico, quello dei corsi di formazione, finalizzato al lavoro subordinato flessibile, per chi l'università non può permettersela.

    La riproduzione della differenza di classe è evidente anche nella volontà di prolungamento dell'obbligo scolastico a 16 anni, che nel contesto neoliberista opera solo come argine alla disoccupazione non supportato da alcuna politica di sostegno che non sia puramente meritocratica. E' infatti prevista la costituzione di "un congruo fondo nazionale per il diritto allo studio [...] finalizzato al sostegno economico individuale degli studenti meritevoli e privi di reddito, anche con un ruolo di riequilibrio del territorio [...] integrato con il concorso volontario di altri soggetti pubblici e privati (banche, imprese, istituzioni locali)". Il capitale potrà così intervenire sul percorso formativo sia attraverso il finanziamento delle borse di studio, sia attraverso l'autonomia organizzativa delle istituzioni scolastiche con la conseguente formulazione di programmi coerenti con le conoscenze e le abilità tecniche richieste sul territorio.

    Il quadro generale è allora quello di un progressivo spostamento della questione formazione da un contesto nazionale ad un contesto territoriale e, addirittura, circostanziale: si valuteranno cioè di volta in volta i programmi da attuare, avvalendosi della collaborazione degli organismi bilaterali e di tutti i soggetti interessati, sociali ed istituzionali. Come già per i contatti d'area, cioè, anche per la formazione il capitale mostra di saper volgere a proprio vantaggio la differenziazione territoriale attraverso il ricatto occupazionale e dietro la copertura di una necessaria diversificazione degli interventi, volta in realtà solo ad avvallare quelle stesse disuguaglianze.

    Centro di documentazione "F.Lorusso" - Bologna