La bozza Martinotti NEL PROCESSO DI RISTRUTTURAZIONE UNIVERSITARIA

Nel progetto globale di ristrutturazione dell' università, avviato ormai da anni, la "bozza Martinotti" rappresenta un' ulteriore modernizzazione dei meccanismi di subordinazione dei saperi e della formazione ai vigenti interessi di mercato.
Pur non essendo un dato giuridico codificato ( e forse proprio per questo ! ) , questa bozza esprime in maniera chiara e sintetica la logica di base di tale processo di ristrutturazione.
In un sistema che si differenzia, si complica e si trasforma in maniera spedita, la scuola e l' università della DC e del consociativismo sono ormai inadeguate a rappresentare gli stessi interessi padronali.
Per capirne il perchè occorre rapidamente inquadrare alcuni cambiamenti : il mercato dei consumi non può più considerarsi illimitato rispetto alla crescita straordinaria della potenza produttiva della economia informatizzata e globale ( anche per l' inesistenza-impossibilità, stante gli attuali equilibri politico-sociali, di una politica dei redditi che sostenga la domanda).
I cicli economici sono molto velocizzati e nella competizione diventa fondamentale la capacità di adeguarsi "dal basso" alle fluttuazioni del mercato, di destabilizzare la concorrenza con la propria capacità di innovazione o semplicemente grazie ad una maggiore elasticità nella gestione delle risorse tecniche e "umane".
All' economia di scala, che puntava tutto sull' incremento della produttività, si sostituisce una produzione snella e reattiva che richiede flessibilità e mobilità della forza lavoro. Concretamente in un mercato del lavoro sempre più deregolamentato e frammentato, tutto questo significa precarizzazione, imbarbarimento delle condizioni lavorative e decurtamento salariale.
Il riadeguamento delle strutture formative è sintetizzato, nella bozza, dalle espressione "bottom-up" intendendo con questa un sistema che a sua volta non si sviluppa secondo una programmazione centralizzata, ma reagisce agli "impulsi" del territorio.
Astrattamente sembra una prospettiva gratificante: nella realtà gli unici interessi forti che si rappresentano oggi nel territorio sono quelli aziendali legati al profitto privato. Infatti l' accresciuta "sensibilità" viene realizzata tramite l' autonomia finanziaria, cavallo di Troia per una penetrazione diretta (non più mediata istituzionalmente) dei privati.
Il principio di "autonomia finanziaria" và direttamente connesso all' autonomia didattica per essere compreso nella sua portata : nel momento in cui l' ateneo deve cercare nel privato i fondi per il suo sostentamento, dovrà rispondere alle esigenze privatistiche, concedendo ai privati la possibilità di gestire i percorsi formativi e la produzione dei saperi.
Solo con tali concessioni, possibili con l' autonomia didattica, il privato sarà attratto dall' università come possibile luogo d' azione perchè libero di poter essere gestito secondo le esigenze proprie dell' azienda.
A regolare i percorsi di ricerca e di formazione non saranno più i vincoli istituzionali, rappresentati dall' attuale classe baronale universitaria, ma un gruppo di poteri economici. Svelando questo tipo di successione di poteri, è possibile capire quelle resistenze corporative che si oppongono alla ristrutturazione (sono un chiaro esempio, a Napoli, le prese di posizione del rettore Tessitore).
In questo quadro, ogni forma di controllo sulla funzione dei saperi (siano esse volte ad ottimizzare frigoriferi, armi nucleari, o le tecniche del controllo sociale) è delegata alle scelte del capitale privato.
Nonostante ciò, è forse più corretto parlare di gestione privatistica piuttosto che di privatizzazione, stante il carattere non particolarmente avanzato del capitalismo italiano e la sua storica predilizione a far viaggiare le sue logiche usando i soldi statali.
In quest' ottica le conseguenze più rilevanti sono da ricercare nel campo della formazione e probabilmente in un mutamento del concetto stesso di formazione. Si chiede alle strutture formative di adeguarsi ad un mercato del lavoro egemonizzato dalle politiche liberiste, con la costruzione di "valvole regolatrici", rappresentate dal numero programmato e altri meccanismi selettivi.
Un esempio concreto è rappresentato dalle Scuole di Specializzazione previsto da tutte le facoltà, obbligatorie e a numero programmato. Se si pensa ad esempio che nelle facoltà umanistiche circa il 70% dei laureati negli ultimi anni ha lavorato nel campo della formazione e che oggi si prevede l' istituzione di S.I.S. che limitano a circa il 10% questa possibilità, si capiscono i costi umani di tale operazione.
Nel complesso assistiamo ad una parcellizzazione dei percorsi formativi che in modo quasi naturale favorisce chi, per collocazione sociale, è privilegiato nella gestionee nell' accesso alle opportunità. Non è un caso linguistico la ricorrenza della parola "flessibilità curriculare" nella bozza Martinotti nè l' aperta previsione di una perdita di valore legale della laurea: la persistenza di un uso legale e formalmente parificato del titolo di studio nel mercato del lavoro, è considerato in contraddizione con la differenzazione dei livelli formativi che viene perseguita.
Per capire appieno la portata di queste affermazioni bisogna contestualizzare la trasformazione dell' università nel più ampio e organico progetto di riforma delle strutture formative che parte dalla ridefinizione dei cicli della scuola primaria e secondaria, dalla destrutturazione della scuola media unica (del suo significato politico-sociale), dall' ingerenza diretta dei privati fin dal primo ciclo della scuola secondaria inferiore.
Il quadro complessivo è quello di un sistema fortemente ramificato, dove si sovrappongono formazione didattica di base e formazione professionale in un succedersi di "scelte obbligate" in cui il singolo è separato dal suo corpo sociale e vive fin da giovanissimo un rapporto con l' azienda assuefatto dal ricatto occupazionale. La debolezza di questa figura sociale è evidente, ma va rimarcata la totale subalternità culturale agli interessi aziendali che deriva da questo specifico tipo di esperienza formativa. Un "effetto fedeltà" sul modello giapponese fondamentale per una struttura produttiva che sempre più investe ed appalta le capacità relazionali, comunicative, critiche dell' individuo finalizzandole alla funzione alienante della produzione di merci, materiali o immateriali che siano. Già negli accordi sul lavoro e formazione promossi dalla Confindustria nel 1993 si fà esplicito riferimento a soggetti "produttori di apprendimento" pervasi dalla cultura del self, capaci di spendere le proprie capacità intellettive e psichiche per promuovere gli interessi padronali. La stessa distinzione tra esperienza formativa e produttiva si fà inesistente, basti pensare ai contratti di formazione lavoro da un lato e dall' altro alle recenti collaborazioni tra imprese e scuola dove gli studenti producono a costo zero all' interno dei "tempi scolastici".
In un mercato del lavoro sempre più flessibile, dominato da figure contrattuali come quelle del contratto a termine, del lavoratore in affitto, della formazione-lavoro si esplicita l' interesse strategico per il capitale privato di scaricare i costi della formazione professionale sulle strutture "pubbliche".
Il modello di riferimento è infine quello di un precariato costantemente in "tensione", capace di elettrizzare il mercato e le forme produttive con la sua continua ricerca di inserimento occupazione, con la sua disponibilità a un perenne aggiornamento formativo ("formazione long-life", per dirla come Martinotti).
I tempi di vita vengono sempre più sussunti, anche gli uomini diventano produttivi pur senza essere remunerati, il ricatto della precarietà costringe tutte e tutti ad un aumento drastico di "lavoro" per di più nascosto e poco o niente remunerato.
Uno strumento basilare di ulteriore atomizzazione e differenziazione sociale, previsto dalla Bozza Martinotti ma fondamentalmente già programmato per la scuola, da Berlinguer & company, è il sistema dei crediti : una sorta di radiografia individualizzata e continuamente aggiornata della propria "spendibilità" sul mercato. Questo, in linea di tendenza, dovrebbe sostituire l' uso legale dei titoli di studio. E' uno dei grimaldelli coi quali scassinare la rigidità dei percorsi formativi per renderli più flessibili. La possibilità di ottenere il riconoscimento di "crediti" relativi ad altre attività formative, svolte anche all' esterno dell' Università, quindi private e a pagamento, si traduce in un criterio di selezione rigido e classista.
Altro caposaldo della svolta aziendalistica dell' Università è quello che nella Bozza è chiamato "principio di contrattualità".
In primo luogo è necessario capitre in che termini è introdotta la stessa parola "contrattualità".
sebbene Martinotti affermi di essersi ispirato alla filosofia contrattualistica, è piuttosto evidente invece la assoluta non legittimità d' uso del termine in tali prospettive. Affinchè sia possibile un contratto , è necessario che le parti contraenti abbiano un potere sulle altre per sostenere le proprie posizioni ed introdurle nel contratto. Tale tipo di rapporto è completamente assente tra lo studente e l' ateneo. Lo studente ha solo la possibilità di accettare o no, con l'iscrizione, il rapporto formativo, il sistema universitario e la sua funzione in esso, che gli vengono proposti.
Se si può pensare a forme di rappresentanza che manifestino le esigenze dei soggetti universitari, risulta chiaro che esse hanno poco conto inserite nei meccanismi di autonomia finanziaria, in cui i singoli atenei e i singoli dipartimenti devono procacciarsi fondi tra i privati. Si teme piuttosto il trasformarsi delle stesse ipotetiche rappresentanze in lobbies di potere, portatrici di specifici interessi.
Importante è poi capire l' impatto di questo progetto di riforma in una zona di sottosviluppo come il mezzogiorno dove la "differenzazione competitiva" tra gli atenei esplicitamente auspicata da Martinotti, prefigura forse l ' adeguamento ( anche in termini di sfruttamento...) a una composizione tecnica del lavoro dequalificato e sottopagato, impegata in settori produttivi a "bassa intensità di capitale". Insomma strutture formative integrate in un sistema sociale che prevede la legalizzazione del lavoro nero e delle gabbie salariali coi "patti d' area" e l' uso intensivo delle agenzie di lavoro interinale.
Nell' opporci a queste prospettive, non ci interessa porci a difesa di un sapere astratto, general-generico, ma vogliamo sottolineare la funzione strategica dei saperi, di ogni sapere prodotto, in relazione agli interessi socialmente egemoni. Ci interessa contribuire a costruire gambe sociali solide ad interessi diversi, antagonisti a quelli aziendali del produci-consuma(se puoi)-crepa.
L' accesso di massa agli studi superiori negli anni '70 ha materialmente portato all' interno delle strutture formative istanze diverse da quelle inerenti la formazione delle future classi dirigenti.
Opporsi alle nuove forme di relazione significa difendere questo ruolo politico, ma non basta attestarsi su una trincea in continuo smottamento. Ci interessa capire le "procedure" attraverso cui gli interessi dei potentati economici si affermano, per contrastarli, ma allo stesso tempo vogliamo individuare percorsi, alleanze sociali, strategie per la riappropriazione di quote di ricchezza sociale, garanzie di reddito diretto e indiretto, liberazione dei tempi di vita, modi e forme per una critica dell' uso sociale dei saperi, percorsi che destabilizzino il quadro dato fatto di precarietà ed emarginazione.
E' su questa traccia aperta che vogliamo confrontarci e costruire percorsi di sperimentazione e di ricerca collettiva, nella prospettiva di una ridefinizione e di un rilancio della conflittualità.