UNIVERSITA', FORMAZIONE, ANTAGONISMO

PER UN'ANALISI DI CLASSE DELLA

RISTRUTTURAZIONE UNIVERSITARIA

Damiano Palano

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Da qualche anno ormai, in Italia il dibattito sull'università pare essersi completamente arenato, salvo beneficiare episodicamente di momenti di vigore in coincidenza di qualche importante ma purtroppo sporadico 'sussulto' studentesco. Mentre l'iniziativa politica dei collettivi risulta sempre più scarsa ed assente, il dibattito teorico langue, ed appare fossilizzato sulle posizioni da tempo espresse dai vari 'rami' della Pantera.

Questo articolo, prendendo spunto da alcune interpretazioni recenti, intende rimettere al centro dell'attenzione il tema della attuale e strisciante 'ristrutturazione universitaria', proponendone una lettura politica 'di classe' e cercando di individuare, su questa base, possibili scelte future.

Cercheremo, in particolare, di criticare l'impostazione 'metodologica' che sorregge gran parte delle analisi correnti della trasformazione dell'università (1), sottolineando prima di tutto il carattere di 'lavoro non salariato' svolto dagli studenti (2), e le caratteristiche assunte dall'istruzione pubblica nel processo di estensione del dominio capitalistico alla società (3 e 4). Partendo da questi presupposti, sosterremo, in connessione con l'analisi della dinamica permanente di 'astrazione' del lavoro (5 e 6), che le reali cause della crisi dell'università di massa, intesa come elemento dell'assetto complessivo della fabbrica sociale, devono essere individuate proprio nell'antagonismo studentesco e nel rifiuto della disciplina scolastica da esso espresso nel corso degli ultimi trent'anni (7) e cercheremo così di cogliere, ancora molto approssimativamente, le direzioni verso cui la 'ristrutturazione' sembra muoversi in questo settore (8).

1. La ristrutturazione dell'università nell'analisi del movimento

Come esempio emblematico delle posizioni espresse dal movimento sulla ristrutturazione universitaria, vengono considerati qui alcuni articoli apparsi recentemente. Nonostante alcune 'sfumature' interpretative, relative soprattutto alla concezione della 'metamorfosi del lavoro', pare che queste analisi coincidano almeno nella parte sostanziale, e perciò esse sono qui accomunate e considerate come significative della situazione generale 1.

In breve, le analisi considerate descrivono la ristrutturazione universitaria come un processo volto al perseguimento di due obiettivi sostanziali: da un lato, la riduzione della 'spesa di reddito' da parte dello stato; dall'altro la 'funzionalizzazione' del sistema formativo al capitale.

In particolare, in questa prospettiva, la spesa statale per istruzione, erogata fino ad ora in Italia, viene considerata quasi unicamente come 'spesa keynesiana', cioè semplicemente come spesa volta a rilanciare la domanda aggregata e così il processo di accumulazione. Inoltre, dato che il basso livello di sviluppo del nostro capitale comporterebbe una non elevata domanda di forza-lavoro qualificata, e, dato che il venir meno della 'protezione' del nostro mercato (garantita un tempo dalla contrapposizione USA-URSS) spingerebbe il capitale italiano in balìa della concorrenza internazionale, si renderebbe necessaria, oltre che possibile, la diminuzione della spesa statale per istruzione, al fine di aumentare le risorse disponibili all'accumulazione capitalistica.

Dal lato della 'funzionalizzazione' dell'università al capitale, la riforma viene così principalmente letta come un tentativo di modificare la "formazione" universitaria nel senso della preparazione di 'quadri specializzati nell'utilizzo delle nuove tecnologie', cioè di forza-lavoro qualificata dal punto di vista delle 'competenze tecniche'. Partendo più o meno dagli stessi presupposti, ma individuando però una crescente domanda di lavoratori 'intellettuali' da parte del mercato del lavoro italiano, altri considerano così la riduzione degli stanziamenti per l'università una manovra miope ed imprevidente2.

Spesso, in queste analisi, lo studente non viene considerato come 'classe' (o parte di una classe più ampia), ma semplicemente come 'forza-lavoro qualificata in formazione', cioè come "una situazione di passaggio contraddistinta da provvisorietà ed aleatorietà; aleatorietà derivante dall'essere egli fruitore di servizi, slegato dalla produzione"3. Oggi, inoltre, lo studente verrebbe sempre più trasformato in 'consumatore' tout court, privo così di quei diritti che precedentemente, in quanto cittadino, gli erano riconosciuti; in questa prospettiva, l'attuale disgregazione delle relazioni sociali all'interno dell'università, attuata anche con le repressioni interne, viene ad essere letta come risvolto della fine dell'epoca 'fordista-keynesiana': l'università da res pubblica, quale era in passato, diviene ora mero servizio e lo studente, semplicemente, il fruitore di tale servizio.

Sulla base di questa analisi, e tenendo conto che gli studenti "non sono una realtà sociale definita, cioè lavoratori intellettuali, ma si definiscono in base alla loro provenienza di classe ed al loro carattere di forza-lavoro in formazione"4, per alcuni l'obiettivo prioritario viene individuato nella ricostruzione delle 'relazioni sociali disgregate' all'interno dell'università, partendo dalle quali è possibile lottare per la realizzazione del 'diritto allo studio' e così collegarsi alle battaglie generali del lavoro salariato. Per altri, che considerano invece la trasformazione dell'università congiuntamente ad un processo in cui emergerebbe come figura centrale una nuova 'intellettualità di massa', la prospettiva di una ripresa delle lotte passa direttamente per la richiesta di un reddito sociale per gli studenti5, e l'università, nonostante tutto, rimane un luogo in cui, lottando per una sua ridefinizione, possono essere valorizzate le autonomie sociali.6

Questi sono in sintesi i punti cruciali delle recenti e meno scontate analisi. Ci siamo diffusi particolarmente su di esse, pur incorrendo in inevitabili semplificazioni e banalizzazioni, perché pare diano una buona rappresentazione, come detto, delle interpretazioni correnti nel movimento, soprattutto per quanto concerne l'individuazione delle due esigenze che sarebbero alla base della ristrutturazione, e cioè: 1. la riduzione della spesa per istruzione (come porzione della spesa statale) per liberare risorse per l'accumulazione; 2. la formazione di forza-lavoro 'specializzata' nelle nuove tecnologie.

Sembra così più che mai necessario criticare questi due presupposti, per poi tentare di costruire un quadro generale di riferimento all'interno del quale comprendere le dinamiche della ristrutturazione universitaria.

2. Lo studente come 'lavoratore riproduttivo non salariato'

Alla base delle analisi considerate, sembra essere un'idea piuttosto diffusa, e cioè che gli studenti non facciano parte della classe operaia, del proletariato, ma siano invece una 'sezione' di quell'informe massa, spesso intimamente 'reazionaria', che sono i cosiddetti 'ceti medi'7. Questo luogo comune molto consolidato, deriva sostanzialmente da una concezione feticistica e 'fabbrichista' del processo produttivo, che, riducendo il processo di sfruttamento alla semplice dimensione del 'lavoro salariato', non riesce a riconoscere né l'estendersi del dominio all'ambito sociale complessivo, né d'altronde il manifestarsi dell'antagonismo proletario, e così della sua 'autovalorizzazione', al di fuori della 'fabbrica fisica' (o comunque del luogo fisico del processo produttivo). In parole povere, considerando il 'lavoratore salariato' come unico soggetto dello sfruttamento e dell'antagonismo, tutti gli altri settori della popolazione diventano corpi inermi, gravitanti, a seconda delle vicende storiche, attorno alla classe operaia o alla 'borghesia', e comunque sostanzialmente privi di qualsiasi potenzialità di lotta antagonista autonoma, poiché la loro possibilità di opporsi al capitale coincide semplicemente con la capacità di fornire un appoggio 'esterno' ed ideologico alle lotte dei salariati.

In questa ottica, incapace di cogliere il dispiegarsi dei meccanismi disciplinari anche al settore del 'lavoro non salariato', la 'spesa per istruzione' diventa puramente 'spesa di reddito', viene cioè ridotta a strumento finanziario per incrementare la domanda aggregata, e l'istruzione stessa assume un ruolo marginale e tutto sommato 'sovrastrutturale' (legato cioè alla qualificazione 'tecnica' dei lavoratori), proprio poiché viene in gran parte trascurata la centrale e complessa funzione che essa svolge nel processo complessivo di produzione e riproduzione.

L'istruzione, la scuola e l'università di massa, perdono, in questa prospettiva, l'impronta classista che ne costituisce, in quanto istituzioni 'disciplinari', il tratto genetico, per diventare un 'servizio' la cui gestione può essere, a seconda dei rapporti di forza, più o meno vantaggiosa per il capitale o per i lavoratori, e la cui 'ingiustizia' è limitata semplicemente alla sua 'selettività sociale'. Lo studente può così diventare 'consumatore', ed il 'consumo' un momento 'separato' dalla produzione, separato cioè dal 'lavoratore'. Non si può comprendere, così, come, nel processo complessivo di produzione e riproduzione, lo stesso consumo individuale dell'operaio continui ad "essere sempre un momento della produzione e della riproduzione del capitale, tanto che avvenga dentro o fuori dell'officina, fabbrica, ecc., dentro o fuori del processo lavorativo"8.

Se si esce da questa impostazione feticistica e mistificata, e si considera il modo di produzione capitalistico come modo di produzione e riproduzione non solo di merci ma soprattutto di 'rapporti di produzione', si potrà comprendere, invece, come la rete dei rapporti di dominio si estenda anche all'esterno del luogo fisico della produzione, cioè all'ambito della fabbrica sociale, e si configuri come apparato di meccanismi disciplinari e di dispositivi di soggettivazione volti alla continua trasformazione della vita in 'lavoro', alla permanente regolazione della riproduzione sociale sulla base della disciplina del 'lavoro'. Le istituzioni della società civile e le stesse istituzioni statali, possono essere così riconosciute non già come elementi 'sovrastrutturali' o come 'apparati ideologici di stato' (la cui natura capitalistica dipenderebbe sostanzialmente dall'ideologia di cui essi si fanno portatori), ma proprio come elementi indispensabili alla produzione e riproduzione capitalistica, cioè alla produzione e riproduzione del lavoro come 'norma sociale'. Le politiche statali, fuori dall'impostazione del 'marxismo ortodosso', e di gran parte della stessa sinistra comunista9, possono così essere riconosciute nella loro natura 'politica', di dominio, essenziale al meccanismo di riproduzione delle classi nell'estensione del comando alla fabbrica sociale.

Considerando allora il modo di produzione capitalistico come un modo di produzione e riproduzione di rapporti di produzione, l'istruzione stessa può essere riconosciuta, analogamente alle altre 'politiche sociali', come uno strumento di disciplinamento della forza-lavoro, e lo studente come 'lavoratore riproduttivo non salariato', soggetto esso stesso allo sfruttamento capitalistico.

Nella teoria tradizionale del 'marxismo ortodosso' e, in parte, nello stesso Capitale, al 'piano' all'interno della fabbrica, si contrapponeva l''anarchia' nella società10. Nonostante questa impostazione fosse parzialmente giustificata dall'ancora scarsa penetrazione sociale del modo di produzione capitalistico ai tempi di Marx, è però da sottolineare come essa abbia poi consentito interpretazioni semplicistiche del ruolo delle politiche statali nell'estensione del dominio all'ambito sociale. Pare invece assolutamente necessario cogliere l'importanza di questo ruolo, perché solo così si riuscirà a riconoscere la reale funzione svolta dall'istruzione e dall'università in particolare.

Il livello su cui agiscono infatti le politiche statali (ed in particolare le cosiddette 'politiche sociali'11) è quello della 'riproduzione', intesa non feticisticamente come ambito marginale rispetto alla produzione, ma come ambito essenziale in cui, continuamente, si riproducono i 'presupposti sociali' del processo produttivo.

In questo senso, ricorrendo all'analisi svolta da Marx, è evidente che "ogni processo sociale di produzione, considerato in un nesso continuo e nel fluire costante del suo rinnovarsi, è insieme processo di riproduzione"12; ma "le condizioni della produzione sono insieme condizioni della riproduzione" e, dunque, "se la produzione ha forma capitalistica, l'avrà anche la riproduzione"13.

Perciò, "la funzione annua del capitale sociale, cioè del capitale complessivo, di cui i capitali individuali costituiscono soltanto frammenti, il cui movimento è tanto il loro movimento individuale, quanto, contemporaneamente, un elemento integrante del movimento del capitale complessivo"14, nel suo risultato, comprende, oltre alla riproduzione del mondo delle merci, "anche la riproduzione (cioè conservazione) della classe capitalista e della classe operaia, e quindi la riproduzione del carattere capitalistico dell'intero processo di produzione"15. La "costante riproduzione, ossia perpetuazione dell'operaio, è il sine qua non della produzione capitalistica"16.

Il processo di produzione e riproduzione capitalistico è dunque prima di tutto processo di riproduzione dei rapporti capitalistici, processo di riproduzione costante di forza-lavoro, cioè processo di permanente trasformazione della vita sociale in 'lavoro', in esistenza comandata dal lavoro17.

E' proprio a questo livello, nella riproduzione complessiva dei rapporti di produzione capitalistici come rapporti fondati sulla disciplina del 'lavoro', che si individua il fondamento della permanenza del comando capitalistico, ed è qui, inoltre, che si può leggere anche la dinamica di sviluppo dello Stato 'interventista', come tentativo di estensione del dominio al piano sociale, come tentativo di organizzazione delle istituzioni della Società Civile attorno alla disciplina del Lavoro.

Ma proprio a questo livello, nella riproduzione complessiva del processo di valorizzazione, al livello cioè del capitale sociale complessivo, si può comprendere anche come la stessa attività di studio svolta dallo studente si configuri come 'lavoro'. Mediante tale 'lavoro scolastico', infatti, lo studente riproduce costantemente la propria forza-lavoro, o meglio riproduce se stesso, la propria esistenza, come 'lavoro potenziale', come disponibilità a sottoporre la propria vita ad un lavoro infinito e continuo. Questa permanente riproduzione di forza-lavoro, garantita dall'intervento delle istituzioni disciplinari statali o integrate nello stato, rende possibile l'unità del ciclo del capitale complessivo contro l'insorgenza dell'antagonismo proletario, contro l'abbattimento delle 'recinzioni' capitalistiche.

Lo sviluppo dell'università di massa deve pertanto essere letto come aspetto di un ben più generale progetto di disciplinamento e gerarchizzazione sociale. Tale processo non può assolutamente essere ridotto semplicemente alla riproduzione 'tecnica' di forza-lavoro, né, evidentemente, alla semplice erogazione di 'spesa keynesiana' da parte dello Stato.

3. Riproduzione materiale e riproduzione formale della forza-lavoro

L'idea che lo 'studente', in quanto 'forza-lavoro qualificata in formazione', sia un 'lavoratore riproduttivo', cioè un lavoratore non salariato che contribuisce alla riproduzione complessiva del processo di valorizzazione, non è certo nuova18, ma ciò che in Italia ha limitato il riconoscimento 'pratico' delle conseguenze di questa condizione, è stata proprio una concezione 'riduttiva', eccessivamente 'oggettivistica' e non antagonistica, della 'riproduzione'19.

Individuando nella 'formazione universitaria' solamente la riproduzione di 'forza-lavoro qualificata', sfuggiva infatti la relazione di comando, di disciplinamento, implicita nel processo stesso. In poche parole, non si comprendeva che, in quel contesto, almeno nelle intenzioni, lo sviluppo dell'università di massa veniva ad essere riproduzione di ceto impiegatizio in funzione antioperaia, riproduzione del comando materializzato, non tanto nel salario immediato, ma nel salario "potenziale", nella potenziale gerarchia salariale che dalla 'formazione tecnica' scaturiva. Non si comprendeva, cioè, come la riproduzione di 'forza-lavoro qualificata' venisse a svilupparsi come risvolto di un processo complessivo di segmentazione della società in base all'esigenza del controllo, e, così, come progressiva estensione del comando all'ambito sociale.

Noi, collocando il ruolo dell'università nell'ambito della riproduzione complessiva del 'capitale sociale', dobbiamo perciò spogliare tale ruolo dei residui 'oggettivistici' che rischiano di oscurare la dimensione di reale 'lavoratore non salariato', perciò sfruttato e gerarchizzato, propria dello studente

Schematicamente, possiamo dire che tutto il problema della riproduzione deve così risolversi individuandone due aspetti, ovviamente costitutivamente interconnessi e solo analiticamente distinguibili: 1. da un lato, la riproduzione materiale, implicante "il tramandarsi e l'accumularsi dell'abilità da una generazione all'altra"20, e cioè la trasmissione dell'istruzione tecnica necessaria allo svolgimento del lavoro, la salvaguardia della salute (ovviamente solo per quanto sia necessario allo svolgimento del lavoro), ecc.; 2. dall'altro, la riproduzione formale21, che si realizza come riproduzione della 'forma' del rapporto salariale, come riproduzione della vita come 'lavoro'.

In poche parole, non solo si devono garantire i presupposti materiali indispensabili affinché un individuo possa essere impiegato in un determinato processo lavorativo, ma, in modo ancor più rilevante, "si deve garantire che la forza-lavoro espropriata sia disposta ad offrire la propria capacità lavorativa sul mercato come una merce, e considerare relativamente accettabili i rischi e gli oneri connessi a questa forma di esistenza22".

Ciò significa che, in questo contesto, lo Stato, come principale organizzatore della riproduzione capitalistica, assume sempre nuove funzioni23, o quantomeno le specifica ulteriormente, nel senso che le 'politiche sociali' non si pongono più solo lo storico problema della trasformazione dei non-salariati in 'salariati', ma sempre più quello dell'estensione del dominio alla realtà sociale, operando su di essa nel senso della gerarchizzazione, e così dell'imposizione della norma sociale lavorista come principio di riproduzione della vita sociale, contro l'emergenza dell'antagonismo sociale. E ciò significa anche che, parallelamente all'estensione del dominio all'ambito sociale, i momenti di produzione e riproduzione vengono a stringersi sempre più strettamente, e che accanto al lavoro produttivo vengono emergendo, in maniera sempre più consistente, diversi aspetti di 'lavoro riproduttivo', con cui gli individui riproducono costantemente se stessi come forza-lavoro sociale, come soggetti normati sulla disciplina del lavoro.

Lo sviluppo della scuola e dell'università di massa, fenomeno che, dagli anni Sessanta, ha caratterizzato la società italiana, con solo relativo ritardo rispetto agli altri paesi occidentali, deve essere inserito e compreso nell'ambito di questo più generale processo di gerarchizzazione sociale e di mutamento del ruolo dello stato e delle 'politiche sociali'. Bisogna cioè intenderlo nel contesto del regime di gerarchizzazione della forza-lavoro salariata e non salariata proprio della fase 'fordista' e del particolare regime di accumulazione capitalistica sviluppatosi in Italia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Bisogna così comprenderlo nel contesto complessivo dei problemi che si pongono al capitale in quella fase, dall'inserimento della forza-lavoro nel mercato del lavoro sul lato dell'offerta, alla stessa regolazione quantitativa del rapporto fra domanda e offerta di lavoro.

4. Lavoro scolastico e disciplinamento sociale

Come detto, dunque, lo studente si configura, sul piano del capitale sociale, come 'lavoratore non-salariato' che riproduce forza-lavoro merce, non solo dal punto di vista della preparazione 'tecnica', ma soprattutto da quello della 'disponibilità al lavoro'.

Ovviamente, essendo lo studente un 'lavoratore riproduttivo non salariato', i meccanismi di disciplinamento e gerarchizzazione operanti nell'ambito della scuola e dell'istruzione 'pubblica' in generale sono diversi da quelli utilizzati nella fabbrica sugli operai salariati. Cionondimeno esistono e svolgono anzi una funzione centrale, sempre più rilevante in coincidenza con la più intensa penetrazione sociale del modo capitalistico di regolazione della vita, nella continua creazione di 'lavoratori' potenziali.

In questo senso, non sembra sia necessario Foucault per comprendere come il potere del capitale e la sua capacità repressiva, non si realizzino tanto mediante apparati ideologici e di propaganda, ma nella lenta penetrazione quotidiana degli spazi e dei tempi di vita, nella modellazione costante delle forme del pensiero. Lo sviluppo dell'istruzione "pubblica" obbligatoria, in questo senso, non può ovviamente essere considerato in modo neutrale, come se la scuola non svolgesse una funzione fondamentale nel "disciplinamento" dei corpi e delle menti, nella regolazione dello stesso pensiero umano sul principio generale della valorizzazione capitalistica - cioè sullo "scambio" salario-lavoro come unica forma legittima di sopravvivenza - , nel modellare la vita ed i comportamenti quotidiani sulle scansioni del processo produttivo, sulla base delle sue stesse necessità.

Se la riproduzione della classe lavoratrice, teoricamente, è un risultato 'spontaneo' del processo di produzione capitalistico, tuttavia questo da solo non garantisce la disponibilità 'quantitativamente' e 'qualitativamente' adeguata di forza-lavoro per il capitale, non garantisce la riproduzione 'formale' della forza-lavoro, cioè che gli uomini e le donne siano sempre disposti, 'naturalmente', come 'presupposti', a vivere la propria esistenza come un continuo lavoro infinito. Proprio perciò è necessario, accanto alla sfera propriamente 'produttiva', un intervento regolatore e "normalizzante"24, svolto in parte dalle istanze statali, in parte dalle istituzioni della 'società civile' che, integrate esse stesse nel meccanismo complessivo di riproduzione della forza-lavoro, contribuiscono primariamente all'opera continua di disciplinamento dei corpi e delle menti attorno alla regola del lavoro.

"Le istituzioni e gli 'enfermements' della società civile - cioè la chiesa, la scuola, il carcere, la famiglia, il sindacato, il partito, ecc. - costituiscono il terreno paradigmatico dei dispositivi disciplinari del potere nella società, producendo soggetti normalizzati e creando un'egemonia attraverso il consenso"25. Ciò non significa evidentemente che il capitale crei sempre queste istituzioni, ma le plasma integralmente con la propria "razionalità", le sussume dentro la propria logica di assoggettamento della vita umana26.

Come è stato mostrato, anche se forse non ancora a sufficienza, la nascita della 'scuola pubblica' non è certo il risultato della benevola volontà dei capitalisti 'progressisti', ma si configura anzi come uno dei principali aspetti dell'estensione del controllo capitalistico all'ambito sociale, corrispondendo cioè alla "creazione di una nuova forma di incarcerazione dei bambini, la quale avrebbe assicurato che l'istruzione fosse subordinata alla riproduzione della forza lavoratrice"27.

L'università stessa, chiaramente, non sfugge a questa realtà. Essa porta con sé la propria natura capitalistica, e non si può, se non ripiombando nel più desolante e reazionario utopismo, attribuire ad essa funzioni che non siano costitutivamente connesse con il suo carattere di istituzione "disciplinare".

Essa, come 'università di massa', non nasce certo dall'esigenza capitalistica di forza-lavoro qualificata. Nonostante negli anni Sessanta la teoria economica borghese aggiornasse la classificazione tradizionale dei fattori produttivi (Terra/Capitale/Lavoro), aggiungendo ad essi l'elemento del Capitale Umano, considerato come componente in grado di incrementare lo 'sviluppo economico', non esistono buoni motivi per considerare questa teoria come una valida spiegazione del 'boom dell'università' registrato, a partire da quello stesso periodo, in pressoché tutti i paesi industrializzati dell'Occidente28. La strategia del Capitale Umano, infatti, pare piuttosto una giustificazione a posteriori di uno sviluppo reale, incontrato dall'educazione superiore ed universitaria a partire dagli anni Sessanta29. Queste teorie, che, sia negli USA, sia in Italia, sia nel resto d'Europa, accompagnano lo sviluppo dell'università di massa, e che descrivono la crescita economica come dipendente dalla qualità e dalla 'competenza' della forza-lavoro30, si riveleranno del tutto ideologiche, frutto di un progressismo deleterio incapace di cogliere le reali linee evolutive del neocapitalismo di quegli anni. Lo sviluppo dell'università di massa, in questi anni di boom, lungi dall'essere un processo in cui si accentuano, come nella previsione 'tecnocratica', i caratteri di 'formazione tecnica' di una forza-lavoro altamente qualificata in grado di soddisfare le esigenze dello sviluppo tecnologico, si caratterizza al contrario, analogamente a quanto avveniva nel processo lavorativo ed in particolare negli uffici, per una sostanziale 'dequalificazione' della preparazione universitaria31.

L'ideologia del Capitale Umano si mostrava così, già allora, come pura mistificazione ed il 'boom' dell'università semplicemente come un aspetto della strategia capitalistica di controllo sociale e di riproduzione delle classi. La realizzazione dell'università di massa veniva ad essere un elemento non marginale del 'compromesso keynesiano' e dunque del complesso di meccanismi disciplinari e di dispositivi di soggettivazione che esso presupponeva. Nello Stato-piano, fondato su una vera e propria gerarchia sociale incentrata sul lavoratore bianco, maschio, tra i trenta e i cinquant'anni, occupato nella grande fabbrica fordista-taylorista, e sulla famiglia patriarcale, in cui la madre era relegata al semplice ruolo di lavoratrice domestica non salariata, i figli della 'classe lavoratrice' beneficiavano della 'scolarizzazione di massa', risultato di quello stesso patto sociale e considerata, in quanto strumento di ascesa sociale e di sicuro miglioramento delle condizioni economiche delle nuove generazioni, come una conseguenza dello Sviluppo ed una conquista dei lavoratori.

Ma nonostante l'ideologia del Capitale Umano e le idilliache prefigurazioni della Società Opulenta, secondo cui i conflitti sociali e la miseria sarebbero scomparsi per esito dello sviluppo tecnologico, la 'scolarizzazione di massa' fu dettata, ovunque, dalla necessità capitalistica di gerarchizzazione del mercato del lavoro nel passaggio al capitalismo maturo. Le radici del 'boom' dell'università "sono dovute dunque in primo luogo alla necessità di creare, all'interno della società borghese, nuove possibilità di esistenza privilegiata; in nessun modo possono essere spiegate invocando la necessità di forza-lavoro specializzata di cui la cosiddetta società industriale moderna non potrebbe fare a meno"32.

In Italia, la possibilità di accedere all'università, in seguito alla liberalizzazione degli accessi, venne ad essere, per molti giovani provenienti in gran parte dalle fila di una piccola borghesia in crisi, in parte dal mondo contadino e dalla classe operaia, o un canale di 'promozione sociale', o uno strumento per assicurarsi un avvenire 'certo' nella burocrazia statale, comunque una via di 'fuga' dal lavoro dei padri. La creazione di questi nuovi canali di promozione sociale (o presunti tali) nasce dall'ipotesi capitalistica, poi rivelatasi priva di fondamento, che questi nuovi ceti impiegatizi e di 'lavoratori intellettuali' potessero essere utilizzati 'contro' la classe operaia di fabbrica, che essi cioè, in quanto ceti medi, potessero costituire una vasta massa di manovra, 'reazionaria' o comunque 'conservatrice', da opporre alla forza rivendicativa della classe operaia, al fine di mantenere la stabilità del 'compromesso sociale' fordista-keynesiano33.

Questa strategia di disciplinamento della forza-lavoro giovanile, inaugurata dagli Stati Uniti alla fine degli anni Cinquanta, nel giro di pochi anni viene seguita da tutti i paesi occidentali. Da questo momento in poi, l'istruzione, fino ad allora rimasta un elemento marginale nello sviluppo capitalistico, diventa una componente centrale della strategia capitalistica di regolazione sociale. Quasi improvvisamente, in coincidenza non casuale con gli effetti del boom demografico sul mercato del lavoro, "il capitale monopolistico mutò quindi registro alla sua grancassa ideologica: dal sistema della libera impresa l'accento fu fatto cadere sulla rivendicazione di un'espansione dell'istruzione superiore. A partire dal 1960 il capitale monopolistico divenne il fautore del boom dell'istruzione"34.

L'università, nonostante alcune descrizioni un po' folcloristiche che oggi viene fatto di sentire, non è mai stata, dunque, il regno del Sapere, della conoscenza 'astratta' dalla merce. Essa è nata prima come 'università d'élite' volta alla preparazione di nuclei limitati di tecnici della burocrazia statale35, e si è sviluppata poi, come 'università di massa', come istituzione disciplinare volta alla regolazione ed alla gerarchizzazione della forza-lavoro. Sua propria funzione è stata sempre più il 'disciplinamento' e la 'gerarchizzazione' di quote rilevanti della popolazione giovanile, la trasformazione della loro stessa vita in 'merce forza-lavoro'. Ricercare altrove i motivi del suo sviluppo è quantomeno fuorviante, e significa accettare come valida la visione mistificata dell'istruzione pubblica e della sua diffusione 'di massa' che ci viene fornita dall'ideologia capitalistica. La "mercificazione" del sapere, nonostante alcuni slogan piuttosto famosi, è un processo ben più che secolare, che si sviluppa parallelamente con il processo di "mercificazione" della vita umana, con la creazione di uno strato di lavoratori salariati. Si può anzi dire che "il sistema capitalistico nasce proprio mercificando il sapere, mercificando la conoscenza proletaria calda e fredda, e proprio di questo poi cresce: cresce mangiando il sapere proletario, mediante la sua mercificazione e poi razionalizzazione, ed incorporazione nei mezzi e nel macchinario, in quanto sono capitale-mezzi. Da secoli!"36.

5. Astrazione del lavoro e comando capitalistico

Come detto, una delle più frequenti giustificazioni che, da parte sia dei sostenitori sia degli avversari, viene fatto di sentire a proposito della ristrutturazione dell'università, è quella della preparazione di 'tecnici', di forza-lavoro in grado di soddisfare le esigenze dello sviluppo tecnologico. Nonostante questa tesi venga periodicamente riproposta dal capitale per giustificare ogni ristrutturazione produttiva, essa pare in sostanziale contrasto con la realtà dell'evoluzione del lavoro.

E' infatti abbastanza noto come il lavoro abbia incontrato, per l'esito combinato delle lotte operaie e della ristrutturazione capitalistica, un processo pressoché ininterrotto di 'degradazione', cioè di parcellizzazione e di semplificazione delle mansioni lavorative. Spesso questo processo è stato considerato unilateralmente come semplice declino e scomparsa dei vecchi mestieri e delle vecchie competenze professionali, senza cogliere così, né la dimensione conflittuale che determina il processo di 'astrazione' del lavoro, né la formazione di competenze diverse e di nuove conoscenze che si realizza nella parallela 'socializzazione' dello stesso processo produttivo e riproduttivo. Cionondimeno il processo di 'degradazione', inteso come espropriazione progressiva delle competenze operaie da parte del capitale e loro sussunzione nel sistema automatico di macchine, è un processo innegabile.

Marx considera il processo di 'astrazione' del lavoro, cioè il processo in cui il lavoro umano, nello sviluppo quantitativo e qualitativo sempre più massiccio del capitale costante, diventa tendenzialmente 'omogeneo', non semplicemente come 'degradazione' e perdita delle competenze operaie, ma congiuntamente al processo parallelo dello sviluppo di una forza-lavoro dotata di grande versatilità, flessibilità e di capacità lavorative tendenzialmente eguagliate37. In poche parole, lo sviluppo crescente del capitale costante, comporta il passaggio ad una forma di cooperazione produttiva che consente sia lo sfruttamento del lavoro socialmente combinato (sussunzione reale)38 che il passaggio al 'lavoro astratto uguale'; tale processo, però, presuppone anche lo sviluppo di un 'individuo sociale', la cui versatilità e 'flessibilità', lungi dall'essere semplicemente un elemento passivo del processo produttivo, paiono costituire, addirittura, la più grande minaccia alla sua stessa permanenza.

Il processo di 'astrazione' del lavoro si realizza storicamente, come esito delle lotte operaie e del rifiuto del lavoro, nello sviluppo della concreta cooperazione produttiva capitalistica, il cui carattere "dispotico" non si presenta come attributo ideologico, ma come conseguenza del carattere capitalistico del processo stesso. Tutte le sofisticate tecniche della "direzione", elaborate dal capitale, nascono proprio perché "la direzione del capitalista, non è soltanto una funzione particolare derivante dalla natura del processo lavorativo sociale e a tale processo pertinente; ma è insieme processo di sfruttamento di un processo lavorativo sociale, ed è quindi un portato dell'inevitabile antagonismo fra lo sfruttatore e la materia prima sfruttata"39.

Il movimento dell'astrazione del lavoro, come tendenza dettata dall'esigenza capitalistica di 'espropriare' il sapere operaio per ridurre il peso della classe operaia nel processo produttivo, non è ovviamente un processo lineare, perché ad ogni passo si ripresenta l'antagonismo operaio. Se, infatti, "il lavoro astratto è significativo perché il capitale in sé, nella sua lotta continua con il lavoro per creare e mantenere la divisione del lavoro che è alla base della produzione di merce, dello scambio e del controllo sociale, tenta continuamente di creare lavoro più malleabile ai suoi interessi"40, non possiamo assolutamente dimenticare, che il processo di 'astrazione del lavoro', proprio perché informato e sorretto dall'esigenza capitalistica del controllo sociale, è sempre accompagnato da un parallelo processo di gerarchizzazione della forza-lavoro, di 'riproduzione formale' della forza-lavoro, volto a rompere la potenziale ricomposizione del lavoro omogeneo, volto ad assicurare il controllo sulla classe operaia.

La storia della scienza della direzione, da Babbage e Ure, fino a Taylor e Fayol, è la storia della continua separazione e rottura dell'insorgente comunità antagonista operaia da parte del capitale, proprio perché il movimento verso la progressiva astrazione del lavoro, tendendo alla riunificazione del lavoro sociale nell'ambito della cooperazione produttiva, deve sempre muoversi accompagnato da un aumento del controllo capitalistico diretto alla permanente scissione dell'unità ricompositiva antagonista. E ciò proprio perché "l'unico modo con cui il capitale può raggiungere i suoi bisogni per l'omogeneità controllabile del lavoro astratto, è paradossalmente, attraverso la divisione dei lavoratori"41.

Ovviamente tale opera di gerarchizzazione e divisione della forza-lavoro, non è semplicemente una tecnica utilizzata per il controllo del processo lavorativo all'interno della fabbrica, ma si estende sempre più allo stesso ambito complessivo della produzione e riproduzione, caratterizzando significativamente il metodo capitalistico di controllo sociale, di gestione della riproduzione complessiva della società. In questo senso l'utilizzo del salario, nell'estensione del processo della sussunzione reale, gioca un ruolo sempre più cruciale soprattutto nel controllo politico della forza-lavoro socializzata, perché "il salario monetario, come valore di scambio della forza-lavoro, è la forma maggiormente sviluppata dello scambio tra capitale e lavoro, e la sua presenza o assenza è fondamentale per la determinazione sia della relazione di varie parti della classe operaia con il capitale, che per le relazioni esistenti all'interno di queste stesse parti"42.

Queste due componenti, 'astrazione' del lavoro e 'gerarchizzazione' della forza-lavoro, sono inscindibili e sempre compresenti nell'azione del capitale. Ciò non significa, peraltro, che il capitale crei sempre dal nulla le differenze che stanno alla base della gerarchia, ma ciò che importa è che esso se ne appropri, le sussuma nella propria logica di valorizzazione, trasformandole così in elementi di divisione, in elementi di separazione, in gerarchia salariale; "nella sua strategia di dividere-per-conquistare, il capitale ha sempre usato le divisioni storicamente date ereditate dal passato, per esempio le divisioni tra le razze, tra i sessi, tra le diverse età, tra i gruppi etnici o nazionali. Allo stesso tempo il capitale ha trasformato, sviluppato e aumentato queste divisioni in forme innumerevoli. Per esempio, tutte le cosiddette divisioni tecniche del lavoro utile, sono anche divisioni della classe operaia, destinate al fine di mantenerla sotto controllo."43

Analogamente a quanto avviene nelle fabbriche e negli stessi uffici, investiti nel corso del XX secolo da un sempre più massiccio processo di taylorizzazione del lavoro intellettuale, l'istruzione stessa incontra un processo, spesso poco considerato, di 'dequalificazione' della formazione. Ciò, evidentemente, non viene a costituire un problema dal punto di vista della carenza di forza-lavoro 'qualificata', come pure da parte capitalistica si sostiene, né tantomeno lo sviluppo della 'scolarizzazione di massa', ed in particolare dell'università di massa, viene ad essere un elemento in contraddizione con la tendenza all'astrazione del lavoro. Lo sviluppo storico dell'università e le stesse manovre di ristrutturazione che, oggi, su di essa si giocano, non possono infatti essere compresi prescindendo da questo ambivalente processo che si realizza, parallelamente, come graduale e permanente astrazione del lavoro da un lato, e dall'altro come continua gerarchizzazione e disciplinamento messa in atto dal capitale al fine di rompere i sempre risorgenti processi di ricomposizione politica antagonista della forza-lavoro, al fine di ricomporre nella logica della divisione del lavoro l'insorgenza dell'autonomia operaia e proletaria contro il capitale e le sue recinzioni.

6. 'Qualificazione sociale' e gerarchia salariale

Centrando l'attenzione sullo sviluppo del sistema educativo nel corso dell'ultimo secolo, l'idea che la 'scolarizzazione di massa' sia determinata più dalle esigenze 'tecniche' del capitale che da esigenze di gerarchizzazione e disciplinamento della forza-lavoro in formazione, risulta fortemente indebolita.

Già per Braverman, e cioè prima della "rivoluzione informatica", era evidente che "con lo sviluppo del modo capitalistico di produzione, il concetto stesso di qualificazione si degrada insieme con il lavoro, e la pietra di paragone rispetto alla quale essa viene misurata, precipita ad un tale livello che oggi il lavoratore è ritenuto in possesso di una qualificazione se la sua mansione richiede un addestramento di qualche giorno o di poche settimane, un apprendistato di molti mesi è considerato un'esigenza insolita e un lavoro che richiede un periodo di addestramento di sei mesi o un anno -... - ispira un timore spinto al parossismo"44; tutto ciò è moltiplicato mille volte con l'introduzione dei calcolatori, e non c'è bisogno di ricorrere al "frammento sulle macchine" per capirlo.

Ripiombare di nuovo nel più puro 'oggettivismo', recuperare la mistificazione capitalistica del Capitale Umano, considerare l'istruzione come reale meccanismo 'progressivo' di sviluppo delle conoscenze e non, semplicemente, come strumento di divisione, significa, a maggior ragione nella società dell'informazione e dell'innovazione permanente, rinunciare ad una lettura politica di classe della realtà. In questo modo si continua ad ignorare l'utilizzo effettivo che del diploma e della laurea si è fatto con lo sviluppo dell'istruzione media e superiore generalizzata, e si finisce così per dimenticare che "gli imprenditori, vista la maggiore disponibilità di diplomati in un periodo di crescente acculturazione, hanno cominciato ad usare il diploma come strumento selettivo, cercando spesso persone con livelli di istruzione più elevati anche se il lavoro non è divenuto più complesso, né richiede un maggior grado di qualificazione"45. Ovviamente questo ha determinato ulteriori spinte ad un generalizzato prolungamento del periodo medio di scolarità, ma al tempo stesso "il continuo ampliarsi dell'istruzione di massa alle categorie di lavoro non professionistico, ha quindi perduto ogni legame con le esigenze occupazionali"46.

Da questo punto di vista, dunque, oltre a rifiutare la tesi per cui lo sviluppo tecnologico determinerebbe un aumento nel fabbisogno quantitativo di 'qualificazione' e per cui quindi lo sviluppo del sistema scolastico verrebbe spiegato in termini di crescita continua di un'offerta di forza-lavoro in grado di soddisfare questo crescente fabbisogno, sembra ragionevole ribaltare lo stesso rapporto causale tra 'aumento del fabbisogno di forza-lavoro qualificata' e 'aumento della qualificazione', individuando, contrariamente alla tesi dominante, proprio nella 'scolarizzazione di massa', la determinante principale del mutamento della domanda del sistema occupazionale. In breve, "nella misura in cui (per motivi che non sono necessariamente dipendenti dalla trasformazione della struttura produttiva e della complessità delle mansioni lavorative richieste) si espande il sistema educativo, il sistema occupazionale può permettersi di elevare il livello qualitativo della sua domanda, rendendo più severi i criteri di assunzione per mansioni lavorative nient'affatto più impegnative rispetto al passato ed evitando nello stesso tempo che l'acquisto di forza-lavoro dotata di una qualificazione eccedente il livello necessario, si esprima (a livello della singola azienda) in un aumento del prezzo da corrispondere alla forza-lavoro"47.

Pare dunque che il processo di scolarizzazione di massa, e particolarmente lo sviluppo dell'istruzione superiore ed universitaria, correndo parallelamente alla secolare "taylorizzazione" del lavoro intellettuale, culminata nell'introduzione dell'informatica anche negli uffici, debba essere descritto, sempre più significativamente, con il riferimento alla dinamica della riproduzione delle gerarchie salariali a livello sociale, mostrando così, ormai evidentemente, il lato di comando implicito nell'azione del capitale.

Sempre più, dinanzi all'emergere della crisi permanente come caduta del saggio di profitto, come incapacità di raddrizzarne la curva verso l'alto, e come conseguente impossibilità capitalistica di giocare sulla fluidità tra "esercito industriale di riserva" ed "occupati" nelle modalità classiche del ciclo, "la regolazione della disoccupazione di massa diventa una funzione centrale della riproduzione della forza-lavoro mediata statalmente"48, al fine di mantenere il controllo politico sulla forza-lavoro socializzata, per mezzo della gerarchizzazione49.

L'efficacia dell'università, dal punto di vista del capitale, deve essere valutata in relazione proprio a questa funzione di disciplinamento e gerarchizzazione che essa svolge. In questo senso, la "produttività" di questa istituzione "formativa", come produttività di comando, deve essere valutata in relazione alla sua capacità di riprodurre, non solo "materialmente", ma soprattutto "formalmente", la forza-lavoro nel sistema complessivo della riproduzione sociale, alla sua capacità di riprodurre la separazione della comunità antagonista operaia e proletaria.

E proprio in relazione a questa funzione specifica, si coglie l'origine reale della crisi che l'università ha attraversato negli ultimi vent'anni - che è crisi nel senso più autentico, cioè incapacità di riprodurre gerarchizzazione, di riprodurre separazione sul livello imposto dall'attuale sviluppo della socializzazione dei rapporti produttivi.

La nostra tesi è, infatti, che non solo la crisi dell'università non sia determinata, almeno prioritariamente, dalle esigenze di formazione "tecnica" della forza-lavoro avanzate dallo sviluppo tecnico del capitale, ma che essa, come crisi della capacità di gerarchizzazione e disciplinamento, vada spiegata in relazione allo sviluppo di un "antagonismo studentesco" che, lungi dal rappresentarsi sempre in forma chiara e definita in un Movimento continuativamente presente, più o meno politicizzato, più o meno organizzato, come pure in alcuni episodi è avvenuto, si è materializzato in una serie di pratiche di massa e di comportamenti diffusi e quotidiani, che, sul lungo periodo, lontano dai riflettori che sempre accompagnano le Grandi Mobilitazioni, sono risultati ben più destrutturanti di qualsiasi occupazione, per quanto "giusta" e per quanto spettacolare e partecipata essa potesse essere.

7. Lo studente-massa e il rifiuto del lavoro scolastico

Spesso nelle analisi sull'università ci si è fermati ad una semplice constatazione della natura dello studente come "forza-lavoro in formazione", "salariato potenziale", ecc., senza trarre da ciò le debite conseguenze, e limitandosi così ad esaltare la "massa" studentesca nei periodi di mobilitazione o a lamentarne la remissività, o la scarsa "coscienza di classe", nei periodi di stanca. In realtà, anche questa volta, le masse sono sempre più avanti, e ci possono dare un notevole contributo a comprendere la complessità della situazione.

Il lavoro scolastico svolto dallo studente, in quanto lavoro riproduttivo di rapporti di produzione, presenta tutti i caratteri di oppressione solitamente riconosciuti nel lavoro salariato. Nello studente, in quanto lavoratore riproduttivo, si è infatti già realizzata la scissione tra uomo ed oggetto di lavoro, tra uomo ed oggetto della sua attività trasformatrice, l'alienazione dell'oggetto del lavoro, in cui "si riassume soltanto l'alienazione, l'espropriazione dell'attività stessa del lavoro"50. Come nell'operaio salariato descritto da Marx, anche nello studente, il lavoro, in virtù di tale espropriazione, "non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì, soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso. La sua estraneità risalta nel fatto che appena cessa di esistere una costrizione fisica o d'altro genere, il lavoro è fuggito come una peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l'uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro mortificazione. Finalmente l'esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso non appartiene a sé ma ad un altro"51.

Ovviamente per il 'lavoro scolastico', essendo lo studente solo salariato potenziale, il comando e gli strumenti di controllo sono diversi rispetto a quelli storicamente sperimentati nella vicenda del lavoro salariato. Se per l'operaio, infatti, il lavoro è un mezzo per ottenere il salario e così per procurarsi la possibilità di 'vivere', per lo studente, il lavoro scolastico è un mezzo per ottenere quel diploma o quella laurea che gli consentiranno di accedere, in quanto 'qualificato' e perciò avvantaggiato rispetto agli altri, il 'mercato del lavoro'. Il lavoro scolastico e la sua certificazione sociale, in questo senso, si manifestano allo studente solo come 'medium' verso il 'mercato del lavoro'.

Il dispotismo dell'università, allora, non è solo un 'attributo culturale', ma scaturisce proprio dalla natura stessa del 'lavoro scolastico', dall'imposizione allo studente di un potere esterno, rappresentato dalle sofisticate tecniche della disciplina scolastica.

Tutti gli strumenti di controllo che, nella scuola e nell'università, sono stati escogitati nel tempo, nel corso del processo di sviluppo e diffusione del sistema educativo, non sono altro che conseguenze pratiche della necessità capitalistica di disciplinare la 'vita reale' e la stessa attività mentale, legandole alla propria legge di sfruttamento.

Lo sviluppo della 'scolarizzazione di massa', determinando l'ampliamento della popolazione studentesca, rende anche sempre più necessari sistemi 'massificati', 'standardizzati' ed uniformi sul piano nazionale, in grado di misurare, certificare 'ufficialmente', che lo studente sia in possesso di un certo numero di conoscenze e di informazioni (spesso irrilevanti ai fini dello svolgimento del suo futuro lavoro), che lo studente abbia frequentato la scuola o l'università con profitto, cioè in modo disciplinato e continuativo; tale certificazione della sua 'qualificazione sociale'52, permetterà poi allo studente di accedere, in base al tempo trascorso nelle strutture d'istruzione e ai suoi 'risultati', ad un determinato grado della scala gerarchica del 'mercato del lavoro'.

I metodi standardizzati di accertamento delle conoscenze si sviluppano e si affinano nel tempo, diventando sempre più sofisticati e 'scientifici' nella misura in cui si sviluppa il sistema educativo ed aumenta il numero degli studenti.

Per questo fine, per l'esigenza cioè di uniformare le procedure di accertamento e per 'ottimizzare' i risultati, analogamente a quanto avveniva con il metodo tayloristico in fabbrica, la cultura umana viene sezionata 'scientificamente', scomposta in vari rami disciplinari, riassunta schematicamente in una serie di informazioni di base, proprio per favorirne il controllo standardizzato. Storicamente questo processo si è evoluto secondo tappe analoghe, anche se relativamente differenti, nei diversi paesi, seguendo un cammino in cui una prima suddivisione disciplinare si rende necessaria per la selezione del personale tecnico dell'amministrazione statale, per poi estendersi ed affinarsi ulteriormente, parallelamente allo stesso ampliamento del sistema educativo, alla scuola ed all'università. La stessa definizione disciplinare oggi adottata quasi a livello globale, dalla grande separazione tra materie 'umanistiche' e 'scientifiche', fino alla definizione di ogni specifico ambito di studio, ben più che dall'astratta e lineare logica della 'specializzazione' e differenziazione del sapere dettata dal Progresso tecnologico e scientifico, è definita, nella sua origine e nel suo successivo sviluppo, proprio dall'esigenza del controllo 'scientifico', della 'certificazione' standardizzata della 'qualificazione' studentesca.

Oltre al sezionamento scientifico della conoscenza umana, l'esigenza del disciplinamento e della gerarchizzazione del lavoratore studentesco è alla base della segmentazione della 'carriera' scolastica in varie tappe, tutte contrassegnate da meccanismi di controllo intermedi, volti a premiare il 'lavoro' continuativo e disciplinato dello scolaro e dell'universitario, e a sanzionare con diversi tipi di pena i comportamenti 'illeciti', che minano cioè la stessa disciplina scolastica.

Ovviamente la forma principale di questi strumenti di controllo del lavoro studentesco è il voto.

Il meccanismo del voto rende evidente il carattere di 'lavoro espropriato' del lavoro scolastico: lo studente, in quanto lavoratore che riproduce se stesso come forza-lavoro nell'attività disciplinata dello studio, 'lavora' (cioè studia) solo in cambio di un voto, che sarà più o meno elevato a seconda del suo 'impegno', del suo 'sforzo', della sua 'autodisciplina'. Lo studente dunque studia non certo per disinteressato 'amore per il sapere', ma con l'unico e solo obiettivo del voto. Ciò produce anche i comprensibili esiti sul piano della 'competizione' reciproca tra studenti, nel tentativo di ognuno di raggiungere il piano più elevato della stessa gerarchia studentesca; nell'università tale primato, infatti, non equivale soltanto all'ingresso nell'Accademia degli intellettuali, ma, in maniera molto più significativa, alla conquista di maggiori possibilità di trovare 'lavori prestigiosi' e cioè ben pagati. Al contrario, una carriera studentesca ed universitaria culminata in voti bassi è sinonimo, per le singole aziende, di scarsa volontà, di scarsa 'motivazione al lavoro', e perciò chi occupa i gradini bassi della gerarchia studentesca, probabilmente andrà anche ad occupare posti non elevati nella gerarchia salariale. "Buoni voti ora, promettono gli 'educatori', significheranno poi buoni salari. I voti, come il diploma universitario, sono entrambi un indice del lavoro compiuto e un indicatore per le aziende della propensione al lavoro nel futuro"53.

Questi meccanismi, con cui l'università riproduce se stessa costantemente nel tempo, come istituzione gerarchica e gerarchizzante, sono stati spesso oggetto di studio, anche impietosamente54. Ciò che invece è stato spesso sottovalutato, probabilmente in conseguenza dell'incapacità di cogliere i meccanismi dell'antagonismo a livello della riproduzione, è stata la risposta studentesca, cioè la strategia che gli studenti hanno saputo opporre allo sfruttamento ed al dominio imposto tramite la disciplina scolastica.

Se l'università di massa, come esito di un progetto complessivo di estensione del sistema educativo, era volta, nel quadro del 'compromesso keynesiano' dello Stato-piano, alla neutralizzazione del conflitto di classe con la creazione di un 'ceto medio' impiegatizio, la reazione degli studenti fu tale da vanificare l'efficacia di tale progetto e la stessa capacità di disciplinamento e gerarchizzazione dell'università. Allora, in tutto l'Occidente industrializzato, la figura dello studente-massa, cioè dello studente iscritto spesso in grandi atenei, proveniente da famiglie patriarcali con cultura fortemente autoritaria e tradizionalista, ma con alle spalle una 'socializzazione' profondamente diversa da quella dei padri, si impose come protagonista delle lotte degli anni Sessanta e Settanta, determinando ovunque la 'crisi dell'educazione', cioè la crisi delle strutture disciplinari della società fordista.

Nonostante la scarsa comprensione, spesso ingenerata da 'pregiudizio ideologico', che di quelle lotte si ebbe, è indubbio che allora, analogamente a quanto avveniva nella fabbrica fordista, la strategia principale adottata dagli studenti sia stata quella del 'rifiuto del lavoro scolastico'. Le grandi mobilitazioni antiautoritarie ed antidisciplinari della prima ondata del movimento, spesso anche folcloristiche nelle loro forme, erano la manifestazione proprio della volontà di rovesciamento della gerarchia sociale fordista, e soprattutto della stessa gerarchia universitaria, dell'esigenza di sovversione dell'obbligo al 'lavoro scolastico'. Successivamente il movimento, o quantomeno le sue 'avanguardie', imboccarono come è noto vie spesso ideologiche, talvolta di 'retroguardia', non comprendendo l'importanza strategica della battaglia contro la disciplina scolastica ed il voto. Cionondimeno lo studente-massa seppe sviluppare un reale contropotere, realizzando l'esigenza del rifiuto dello studio costrittivo con una grande molteplicità di pratiche di cooperazione antagonista, riducendo la 'fatica' nei modi più fantasiosi, dall'autoriduzione dei programmi (con lo studio esclusivo delle parti 'chieste' all'esame), all'assenteismo vero e proprio, inteso come fuga da lezioni percepite pienamente nella loro inutilità e perciò nel loro autentico carattere dispotico di imposizione. La cooperazione antagonista e sabotatrice degli studenti, giocando sul nozionismo e la semplificazione, ha inventato moltissimi metodi per ridurre al minimo il 'lavoro' ed ottenere il massimo risultato. Tutte le regole dell'organizzazione universitaria, tutti i metodi di disciplinamento, sono stati così rovesciati e neutralizzati dalle pratiche di lotta antagoniste.

Spesso questi comportamenti vengono condannati anche a sinistra, da chi pensa che realmente ci si possa riappropriare della 'cultura universitaria', utilizzandola magari in senso progressista o per la guida 'socialista' dell'umanità. Lo sviluppo di una 'cultura antagonista', o se vogliamo, una sua 'riappriopriazione', può aversi invece solo ed esclusivamente come esito del processo di liberazione dal 'lavoro scolastico'. Il rifiuto del lavoro imposto, del lavoro costrittivo e per lo più inutile, significa essenzialmente conquista di tempo 'liberato' per attività autogestite, per lo studio finalmente autodiretto e non imposto dall'esterno, per uno studio teorico e pratico non soggetto a valutazioni quantitative, significa 'autovalorizzazione' proletaria come valorizzazione autonoma della cooperazione antagonista.

Deve essere chiaro che il carattere 'alienato' dello studio, nel processo di 'formazione', non dipende certo dal voto, poiché questo è solo una tecnica disciplinare; se il voto si è sviluppato storicamente come principale forma di controllo dello studente, ed occupa tuttora questa centrale posizione, non significa certo esso non possa addirittura essere abbandonato a favore di metodi 'educativi' più complessi ed avanzati. Ciò non toglie che, data la funzione svolta ancora oggi dal voto, la lotta contro di esso risulti centrale ed imprescindibile per un'azione antagonista nell'università.

Ovunque, le lotte dello 'studente-massa' hanno determinato, con la loro strategia di 'rifiuto del lavoro', una vera e propria 'inflazione dei voti'55 analogamente a quanto è avvenuto nelle fabbriche con l'inflazione determinata dal livello dei salari. La rigidità dell'antagonismo studentesco, la capacità di autoridurre il 'lavoro studentesco' e di non vedere calare contemporaneamente i voti, è stato uno dei risultati più importanti delle lotte studentesche degli anni Sessanta e Settanta ed uno degli elementi che ha più contribuito a determinare la crisi della fabbrica sociale fordista.

La crisi dell'università di massa, dunque, lungi dall'essere risultato del 'progresso tecnologico', deve essere letta come crisi della sua capacità di disciplinamento e gerarchizzazione sociale, determinata dall'emergenza di un antagonismo consolidatosi soprattutto in un 'contropotere' effettivo, fondato sul rifiuto di massa del lavoro scolastico e volto ad ottenere comunque voti elevati. Lo studente-massa ha distrutto l'università come 'corporazione'. Negli anni Settanta ed Ottanta, essere laureati non vuol più dire essere 'élite', perché l'élite di un tempo è stata distrutta nello 'spirito'.

8. Ristrutturazione dell'università e gerarchizzazione della forza-lavoro

Se i caratteri della crisi dell'università di massa sono questi, i progetti di ristrutturazione e 'riforma strisciante' che oggi la coinvolgono, devono essere letti come risvolto della necessità capitalistica di creare meccanismi di controllo e gerarchizzazione adeguati al livello imposto dalla nuova situazione, in grado cioè di imbrigliare la soggettività consolidata a livello di massa nel 'rifiuto del lavoro'. Analogamente a quanto è avvenuto nelle fabbriche 'fordiste' per l'inflazione salariale, nell'università, a determinare la necessità della ristrutturazione, non sono le logiche astratte di 'progresso tecnologico', o della riduzione della spesa pubblica56, ma il contropotere studentesco e la distruzione della disciplina scolastica.

La risposta capitalistica non ha investito subito, a livello generale, il settore dell'educazione superiore, e ciò è avvenuto, in Italia, per la presenza di numerose opposizioni e resistenze, da quella studentesca a quella innegabile delle stesse corporazioni baronali. Ciò però non significa che, 'sotterraneamente', tale risposta non ci sia stata, anche se giocata su altri ambiti.

Dinanzi alla crisi dell'istruzione universitaria, all'inflazione universitaria, all'inflazione dei voti, gli imprenditori, consapevoli di questa 'crisi', hanno iniziato ad adottare una tattica di 'svalutazione della laurea', attribuendo ad essa meno valore rispetto al passato. La 'qualificazione', così, soprattutto nelle regioni del nord, investite da un considerevole processo di 'terziarizzazione', localizzazione e diffusione di piccole e micro-imprese 'a rete', inizia a passare per altri canali, meno lineari e geometrici rispetto a quelli della società fordista.

Proprio per questa 'localizzazione', che pare essere la caratteristica principale della ristrutturazione universitaria, non solo in Italia57, è piuttosto difficile riuscire a dare una visione d'insieme del processo in atto, peraltro ancora agli inizi. Cercheremo così di individuare , quasi come traccia di lavoro, alcune linee di sviluppo comune, partendo soprattutto dall'esperienza limitata degli atenei milanesi, ed in particolare di quelli non statali. La ristrutturazione degli atenei 'statali', inaugurata 'ufficialmente' con la concessione di forme di autonomia didattica e gestionale, ma operante ad un livello 'sotterraneo' da alcuni anni, sembra, infatti, ricalcare sostanzialmente la strategia adottata da circa un quindicennio dai principali atenei 'privati', concentrati nell'area milanese.

E' ormai diventato un luogo comune affermare che l'università sia oggi investita da un processo di crescente 'entrepreneurialization'58, cioè che essa stia assumendo sempre più i caratteri, e dunque acquisendo i criteri di gestione, propri dell'impresa. Tale processo, per evitare semplificazioni, va visto come una ulteriore accentuazione del ruolo di 'produttrice' di forza-lavoro disciplinata e gerarchizzata svolto dall'educazione soprattutto universitaria. Come sottolinea James O'Connor, ciò significa che "gli studenti devono imparare il collegamento tra la scuola ed il posto di lavoro .... Gli studenti devono apprendere in che cosa consista il lavoro salariato"59. E ancora, che fine delle imprese è "fare entrare un maggior numero di studenti bravi60nelle facoltà economiche e nelle scuole di formazione professionale e promuovere misure di disciplina (citazione di un altro dirigente) accanto agli adempimenti accademici". La funzione dell'università si svela così sempre più chiaramente come semplice socializzazione al lavoro e "formazione" di forza-lavoro.

Questo processo, ed i metodi con cui esso si realizza, sono perfettamente riconoscibili nella vicenda dei principali atenei 'privati' italiani negli ultimi quindici anni. Essi infatti (ci si riferisce qui soprattutto ai principali due, cioè l'Università Bocconi e la Cattolica di Milano), furono particolarmente colpiti dalla 'crisi' degli anni Settanta. In breve, tale crisi significò per questi atenei: 1. la crisi della disciplina interna e così dello spirito di corpo che era loro proprio in quanto 'università d'élite', in conseguenza della rivolta studentesca; 2. la 'caduta di immagine' presso l'opinione pubblica e così la stessa svalutazione della laurea da essi rilasciata (non più gerarchicamente 'superiore' a quella degli altri atenei); 3. la crisi delle strutture di finanziamento 'tradizionali', dovuta alla diminuzione drastica dei contributi versati da parte dei privati (associazione di sostegno ed imprese)61, in seguito allo stesso 'crollo d'immagine',

La fuoriuscita della crisi per questi atenei, nel corso degli anni Ottanta, presenta caratteri tali da configurarli come una sorta di 'laboratorio' in cui sono state 'sperimentate' tutte quelle misure che negli ultimi anni abbiamo visto adottate anche nelle università statali. Schematicamente, e come approssimazione generale, possiamo individuare diverse linee operative.

1. In primo luogo si assiste ad un aumento dei contributi versati dagli studenti. Nonostante in queste università, data la loro dimensione relativamente ridotta rispetto ai mega-atenei statali, questo provvedimento sia determinato anche dalla crisi della struttura di finanziamento tradizionale, le motivazioni profonde vanno ricercate altrove, poiché anche qui le altre fonti di introito rimangono indispensabili (questo è altrettanto vero nelle università statali, dove l'aumento delle tasse di iscrizione, pur considerevole, non incide, se non in minima parte, sul bilancio complessivo degli atenei62). Tale operazione serve invece a riportare la 'disciplina perduta' tra gli studenti. Nella logica del controllo l'elevamento delle tasse ha il fine di aumentare la 'produttività' dell'impresa, e cioè, dato "che il principale artefice o il principale fattore di produzione nel processo produttivo è lo stesso studente ..., è la valorizzazione del suo senso di responsabilità e del suo impegno che condizionano il successo dell'attività. E la consapevolezza di pagare direttamente quote significative dei costi di produzione sembra avere straordinari effetti incentivi sull'applicazione agli studi dello studente medio"63.

2. Altre misure didattiche tendono alla 'selezione', sia all'ingresso sia durante il percorso di studi (numero chiuso, test, aumento delle propedeuticità, misure di 'catenaccio', irrigidimento dei piano di studio), al fine di penalizzare gli studenti meno 'attivi' e disciplinati. In seguito a queste misure si è anche registrata una diminuzione media del tempo di laurea, dunque una crescente 'contrazione' del periodo di permanenza all'università, o meglio, un aumento di produttività conseguito mediante l'aumento dei ritmi medi di studio.

3. Si sono andate affermando lentamente delle forme più o meno complesse di collaborazione con le imprese per la 'fornitura' a queste di forza-lavoro disciplinata e gerarchizzata. Se le imprese, per quanto concerne l'Italia, preferiscono rivolgersi per l'attività di ricerca prevalentemente a uffici studi e di consulenza privati, il legame tra università e mondo del lavoro pare invece svilupparsi sul versante della 'produzione di lavoratori' destinati ad occupare posti relativamente elevati nella gerarchia aziendale (i 'professionisti'). A partire dalla metà degli anni Ottanta si è assistito alla formazione di comitati tra università ed aziende, la cui attività consiste principalmente nella comunicazione periodica (ogni tre quattro mesi) da parte dell'università alle varie imprese (previa erogazione di un contributo da parte di queste) dei dati relativi agli studenti laureati e laureandi, al loro curriculum, alla loro media scolastica, alla posizione con il servizio militare, ecc.64 Se la rilevanza dei risultati derivanti dall'istituzione di tali job bank non è stata fino ad ora eccezionale, è da dire che un ulteriore incremento a questa tendenza è stato dato da una normativa del giugno '95 sugli 'stage aziendali' (ad esempio, nel marzo del 1996 è stata firmata un'intesa tra quattro atenei milanesi - Cattolica, Bocconi, Iulm e Politecnico - Ufficio provinciale del lavoro ed Assolombarda, volta ad estendere ulteriormente la pratica degli stage, secondo modalità operative seguite anche in altri paesi)65.

4. Lo sviluppo di iniziative nel settore della 'formazione permanente', nel quadro di una strategia di gerarchizzazione della forza-lavoro, ulteriore rispetto a quella garantita dalla semplice istruzione universitaria (qui devono essere compresi tanto i 'master', quanto le stesse iniziative di 'risocializzazione' al lavoro per disoccupati intellettuali, spesso commissionate da enti locali, e le cosiddette 'lauree brevi')66. Ciò è tanto più rilevante in un mercato del lavoro caratterizzato, nell'area milanese, da grande mobilità e da una relativamente scarsa (rispetto ad altre zone) disoccupazione di lungo periodo.

5. Forme di pubblicità e strumenti di comunicazione inediti per il contesto italiano, volti a diffondere presso l'opinione pubblica un'immagine di 'università d'élite', prestigiosa e sinonimo di 'futuro sicuro'67.

Queste note evidentemente indicano solo delle linee di tendenza, che non sono certo integralmente estensibili alla totalità degli atenei statali italiani. La stessa introduzione di parziali autonomie, rende probabile, come più volte è stato sottolineato, la formazione di atenei più 'qualificanti' accanto a grandi strutture 'svalutate' e per 'grandi masse'. Anche questo elemento rende difficili conclusioni 'generali'.

Nonostante queste difficoltà pare però di poter dire, come conclusione generale e come punto di partenza per ricerche future, che la ristrutturazione dell'università, analogamente alla stessa ridefinizione delle modalità operative delle politiche sociali, lungi dall'essere determinata da esigenze 'oggettive', ha come obiettivo fondamentale lo sviluppo di forme di controllo sulla 'forza-lavoro', adeguate allo sviluppo quantitativo e qualitativo dell'antagonismo sociale, riscontrato negli ultimi decenni. Il superamento degli automatismi propri della fase 'fordista-keynesiana', nell'esigenza di far fronte al 'rifiuto di massa del lavoro scolastico' ed all' 'inflazione dei voti', deve così necessariamente passare per una ulteriore 'individualizzazione' degli stessi percorsi formativi, al fine di segmentare ulteriormente la forza-lavoro in formazione e così accentuare la sua stessa disponibilità al lavoro.

9. Soggettività di massa e sbocchi politici

Gli sbocchi politici a questa situazione e le possibilità di neutralizzare 'offensivamente' la ristrutturazione, passano inevitabilmente dai livelli più alti già raggiunti dall'antagonismo studentesco e consolidati nella soggettività di massa.

Chi sostiene68 che la ristrutturazione in corso abbia distrutto una fantomatica 'res pubblica' all'interno dell'università, riducendo così le possibilità di fare politica in questo ambito, non comprende come in realtà la distruzione dell'"ambiente studentesco", della miserabile vita 'culturale' che un tempo si svolgeva negli atenei europei69, sia stato uno dei più grandi risultati ottenuti dalle lotte dell'antagonismo studentesco negli ultimi trent'anni. Un elemento di 'autoinchiesta' da cui partire, e da non tralasciare assolutamente, è proprio la disgregazione dell' "identità sociale" studentesca, dello 'studente' in quanto 'soggetto' di un disegno generale di pianificazione ed integrazione sociale.

Se le lotte studentesche di trenta anni fa hanno avuto un senso, esso è stato proprio quello della disgregazione delle barriere gerarchiche, che non solo dividevano tra loro gli studenti, ma che soprattutto dividevano l'università, cattedrale del Sapere, sacra dimora dell'Intellettuale, dal resto della società. Il principale risultato di quelle prime mobilitazioni, fu proprio lo svelamento della realtà che stava dietro i libri ed i muri della cittadella oscurantista della piccola borghesia impiegatizia, come realtà di sfruttamento e di conflitto. Il rapido dissolversi di reali movimenti antagonisti 'universitari', prescindendo dai diversi esiti delle varie formazioni rivoluzionarie di quegli anni, non significò tanto una negazione di massa della propria realtà (anche se in qualche caso lo fu), ma fu proprio una conseguenza del successo del 'rifiuto del lavoro scolastico' consolidato a livello di massa dalla cooperazione antagonista. In questi anni molta enfasi è stata spesa sulla categoria dell'Esodo, descritto spesso come processo statico e privo di elementi contraddittori, accentuando cioè taluni caratteri di un fenomeno reale e trasfigurando la realtà delle critica materiale della politica in semplice e totalizzante 'filosofia'70. Ora, però, è evidente che, nel corso degli ultimi trent'anni, il 'rifiuto del lavoro scolastico' e la distruzione dei meccanismi disciplinari dell'università di massa, hanno significato per centinaia di migliaia di studenti la conquista di 'tempo liberato', la conquista della possibilità di 'fuggire' da quelle 'fabbriche di lavoratori mentali' che sono le università. L'abbandono dell'università, come luogo di disciplinamento e gerarchizzazione, non è stata una sconfitta per il movimento antagonista, ma , nella misura in cui era il risultato di un reale 'contropotere', di una effettiva azione destrutturante, uno dei suoi più grandi successi. Tutto il resto, persino la possibilità di sviluppare filoni di ricerca 'alternativi' a livello istituzionale, è il risultato di questa formidabile azione destrutturante dello 'studente-massa'.

La ristrutturazione, oggi, non distrugge nessuna 'res pubblica', perché questa è stata già distrutta, fortunatamente, dall'antagonismo studentesco. Richiamarsi al mito di uno 'studente perduto', oltre ad essere assolutamente inutile dal punto di vista di una politica di classe, significa ignorare la realtà della soggettività di massa, pretendendo di rinchiuderla all'interno di istituzioni da cui essa si è già liberata. La distruzione degli 'enfermements' disciplinari della società civile è un fenomeno pressoché irreversibile, e la ristrutturazione, tanto delle politiche statali quanto della stessa università, lungi dal tentare di rimetterli in sesto, tenta di riaffermare il proprio comando sulla forza-lavoro rincorrendo la soggettività antagonista lungo le traiettorie molteplici e 'rizomatiche' secondo cui questa si è mossa in questi ultimi decenni.

La ristrutturazione sta costruendo uno scenario finora inedito per l'Italia ed i cui caratteri sono per noi ancora in gran parte imprevedibili. Cercare di anticipare 'offensivamente' le mosse dell'avversario, significa, per il movimento antagonista, tentare di rovesciare la potenza della soggettività di massa sui nessi gerarchizzanti dell'azione del dominio, e ciò non può avvenire se non poggiando la propria tattica sulla realtà della composizione di classe e sulla forza della strategia che essa esprime.

Se la 'miseria dell'ambiente studentesco' è ormai un ricordo sbiadito, ciò non significa che l'università non possa essere oggetto, ancora una volta, di un'azione antagonista realmente destrutturante. Ma non possiamo assolutamente dimenticare, e su ciò dobbiamo costruire i vari progetti di cooperazione antagonista, la dimensione centrale in cui si esprime l'antagonismo studentesco, cioè il 'rifiuto del lavoro scolastico'. La neutralizzazione della ristrutturazione, in ogni ateneo, dal più piccolo al più grande, passa per la esplicita rivendicazione di questa pratica di lotta. Cercare di riportare gli studenti all'università per imporgli un noiosissimo sindacalismo studentesco, o magari per farli lavorare in servizi di assistenza 'autogestiti', è inutile e controproducente. Ciò per cui dobbiamo lottare è la trasformazione sempre più estesa del 'tempo di studio' costrittivo in 'tempo liberato', in tempo disponibile per attività 'libere ed autogestite'.

Un buon modo per cominciare, e su cui tentare di costruire un movimento non solo italiano, ma addirittura europeo, potrebbe essere la lotta per l'abolizione del voto agli esami, almeno nelle università71. E' chiaro che questo non rappresenta che un obiettivo minimo, un punto da cui partire verso una ben più estesa ricomposizione dell'antagonismo sociale, ma pare un buon modo per iniziare a sperimentare le nostre forze, non più contro fantomatici 'privati' o per un 'sapere statale', ma per la liberazione di tempo e spazio dalla condanna quotidiana del lavoro.

(giugno 1996)

1 Cobas (1995), Assalti Teorici (1993), Collettivo 'Metropoli' (1996), Mosca (1994), Padovan (1994), Casarini (1994), Ciabatti (1994), Scacchi (1994).

2 Padovan (1994).

3 Ibidem, p. 90. E' da dire che Padovan (1994) considera lo studente come 'lavoratore intellettuale', ma astraendo completamente questa considerazione dal lavoro materialmente svolto dallo studente, egli finisce per non comprendere le caratteristiche principali dello stesso 'lavoro scolastico' e dunque le sue stesse conseguenze.

4 Ibidem, p. 91.

5 Mosca (1994).

6 Padovan (1994)

7 Per una critica a questa impostazione, che descrive lo studente ricomprendendolo nei 'ceti medi', si veda De Angelis (1993b), che sottolinea invece come lo studente sia un 'lavoratore non salariato', e come il 'lavoro scolastico' (schoolwork) sia lavoro 'riproduttivo'.

8 Marx (1989a), pag.627.

9 Ci si riferisce a quelle interpretazioni che, limitando il ruolo dello Stato a quello di semplice erogatore di reddito ed il lavoro dei dipendenti statali a lavoro 'improduttivo', non colgono il legame sempre più stretto che, a livello di capitale sociale complessivo, viene a determinarsi tra 'produzione' e 'riproduzione'. Un esempio su tutti è Mattick (1975).

10 Panzieri (1976).

11 Offe-Lenhardt (1979).

12 Marx (1989a), pag.632.

13 Ibidem.

14 Marx (1989b), pag.412.

15 Ibidem, grassetto nostro.

16 Marx (1989a), pag.626.

17 Cleaver (1994), De Angelis (1993a).

18 Si vedano a tal proposito le classiche 'Tesi della Sapienza' (1967), poi riprese in varie forme in Movimento studentesco, a cura (1968).

19 Ovviamente, come risulterà chiaro, per la fuoriuscita dalle secche di un'interpretazione non antagonistica della riproduzione e dunque per la descrizione sia del ruolo del 'lavoro di riproduzione' nel modo di produzione capitalistico, sia della funzione di disciplinamento e gerarchizzazione che in questo settore svolgono le istituzioni della società civile, dalla famiglia, alla scuola, al sindacato, si è qui ampiamente debitori di tutti coloro che, come Dalla Costa (1972), Negri (1977), Cleaver (1979), sono andati oltre la descrizione della 'fabbrica sociale' condotta dall'operaismo degli anni Sessanta.

20 Marx (1989a), p.629.

21 Alcuni autori di scuola tedesca hanno definito "ideologica" questo tipo di riproduzione, ma noi abbiamo preferito il termine "formale" per sottolineare come il carattere di comando non sia solo ideologico o, per così dire "sovrastrutturale", ma propriamente relativo alla stessa "forma" del rapporto.

22 Offe-Lenhardt (1979).

23 Panzieri (1976), Tronti (1971).

24 Inevitabile è il rimando, ad esempio, a Foucault (1977) e (1978), e a tutti gli altri fondamentali contributi dello studioso francese,

25 Hardt (1993).

26 Foucault (1976), (1977), (1978), etc.

27 Cleaver (1994), p. 79; sul punto anche Dalla Costa (1972) e Bowles- Gintis (1976).

28 Keller - Vahrenkamp (1976); Bourdieu - Passeron (1972)

29 De Angelis (1993b).

30 Per quanto concerne la traduzione italiana del dibattito e le conseguenti proposte di riforma dell'univesrità formulate in quegli anni, si vedano: Svimez, (1962); Censis, (1966); Forte (1966); AA.VV (1969).

31 Tomassini (1976), Alquati (1976a) (1976b).

32 Keller - Vahrenkamp (1976), p. 55.

33 Bologna (1978), Nichelatti (1976).

34 Keller Vahrenkamp (1976), p. 59.

35 Si vedano, sulla nascita dell'università tedesca, i materiali, ancora in parte interessanti, raccolti in Donolo (1971).

36 Alquati, (1994).

37 Marx (1989a), p. 533-535; Marx (1970), vol. II, pp. 410-11.

38 Marx (1969), Braverman (1976), Cartosio (1979), Gambino (1979).

39 Ibidem, pag. 372.

40 Cleaver (1979), trad. cit.

41 Ibidem

42 Ibidem.

43 Ibidem.

44 Braverman (1976), pag.447.

45 Collective Bargaining Today, Proceedings of the collective bargaining forum, cit. in Braverman (1976).

46 Braverman (1976)

47 Offe (1976), p. 168.

48 Hirsch (1980).

49 Vedi De Angelis (1994)

50 Marx (1981).

51 Ibidem.

52 Offe (1976).

53 Cleaver (1995).

54 Bordieu-Passeron (1970).

55 Cleaver (1995).

56 Fumagalli (1993), Negri (1977); Hardt-Negri (1994); Palano (1996), AA.VV (1996), Gozzi, a cura (1980), Bergamo-Lazzarato (1993), Lazzarato (1995), Witheford (1996), De Angelis (1996).

57 Ovetz (1996).

58 Ovetz (1996).

59 J. O'Connor (1993)

60 Dove bravo è sinonimo di disciplinato, diligente, servile ecc.

61 Collettivo ULD (1996).

62 Morra-Morra (1994).

63 Giarda (1993), p. 669. Corsivo nostro.

64 Ranelli (1993); Carlevaro (1996).

65 Ansaldi-Pantaleo (1994).

66 Vaciago (1990); Colasanto (1995).

67 Collettivo ULD (1996).

68 Cobas (1995).

69 AAVV (1966), Harlock (1996).

70 Seminario Autogestito 'il Cielo' (1996).

71 Cleaver (1995).



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