DOCUMENTO DEL COLLETTIVO PIGRECO, STUDENTI DI FISICA NAPOLI
SULLA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO UNIVERSITARIO
PREMESSA
E’ in atto una radicale trasformazione del sistema di istruzione e formazione. Con questo documento il collettivo degli studenti di Fisica si propone di stimolare il dibattito tra tutti i soggetti interessati (studenti, docenti, ricercatori) con particolare riguardo alla riorganizzazione cui l’Università sta andando incontro, esprimendo posizioni che vadano al di là del semplice commento ‘tecnico’ e cercando di individuare cause politiche ed effetti sociali.
Bisogna infatti sottolineare che la riforma è passata dalla fase progettuale a quella ‘operativa’ nel silenzio generalizzato dei media e con l’assenso acritico della maggioranza delle categorie direttamente interessate. Solo gruppi minoritari di studenti universitari e medi hanno manifestato apertamente il proprio dissenso; noi siamo tra questi ed il fatto che stia diventando legge dello Stato ci costringe a ribadire la nostra posizione:
QUESTA RIFORMA NON CI PIACE.
Questo non perchè pensiamo che non sia necessaria una trasformazione, ma perchè ci hanno insegnato da piccoli nelle ore di Educazione Civica che in un paese civile la ‘macchina del sapere’ dovrebbe muoversi nella direzione della libertà del sapere stesso e dare la possibilità a tutti di accedere ai massimi gradi dell’istruzione.
La libera fruizione del diritto allo studio dovrebbe infatti essere un naturale strumento di sviluppo in ogni società civile, poichè è innegabilmente il primo ed irrinunciabile passo verso la piena realizzazione delle potenzialità di ogni individuo.
Il problema sta allora nel capire cosa si intenda per sviluppo di una società, pensiamo infatti che questa sia l’unica strada percorribile per argomentare le nostre critiche a questo progetto e per contrapporre ad esso un’altra idea di formazione.
ANALISI DELLA RIFORMA
Ci limiteremo qui a discutere della riforma dell’Università, anche se tanto ci sarebbe da dire sugli sfaceli che il governo sta realizzando in tutti i gradi dell’istruzione pubblica, analizzandone schematicamente gli aspetti fondamentali.
Tralasceremo le enormi difficoltà legate alla transizione dall’attuale modello universitario al nuovo.
Crediti formativi
Il credito formativo è così definito nella bozza Martinotti: ‘unità di misura standardizzata delle conoscenze acquisite’.
La prima cosa da dire è che una definizione del genere si adatta bene al nozionismo e molto meno bene all’idea di cultura intesa come capacità di analizzare la realtà e di interagire con essa o per dirla con Einstein:
‘quello che ti resta quando hai dimenticato tutto’.
Il pregio fondamentale dei crediti sarebbe, secondo il ministero, quello di stabilire un termine di confronto universale per le conoscenze acquisite in tempi e luoghi differenti. Ci avvertono che ‘è ormai ora di abbandonare l’idea dell’Università sotto casa’ e che la differenziazione dell’offerta formativa stimolerà la mobilità degli studenti tra un ateneo ed un altro su tutto il territorio nazionale. Ecco allora che il sistema dei crediti sarebbe di grande aiuto in questo processo, garantendo la possibilità di ‘riciclare’ senza problemi le conoscenze (i crediti) acquisite in un qualunque ateneo. Il ragionamento funzionerebbe alla perfezione, salvo per il fatto che è completamente inapplicabile al contesto sociale al quale è rivolto: quanti e quali studenti potranno permettersi grossi spostamenti per frequentare l’ateneo a loro più gradito? Secondo noi davvero pochi, visto quello che costa l’Università e la grave scarsità dei servizi ad essa connessi (alloggi, mense, libri, trasporti, ecc.).
All’universalità dei crediti è legata anche l’idea del long-life learning (letteralmente formazione a vita) che per noi è solo un modo elegante per parlare di precarizzazione del lavoro.
Si tratta in qualche modo di fornire una riprova del fatto che ‘gli esami non finiscono mai’: non basta pagare soldi a palate per ottenere un titolo di studio scadente, ci toccherà periodicamente (e per tutta la vita, visto che in pensione chissà se ci andremo) aggiornare le nostre conoscenze, magari al di fuori degli orari lavorativi, poichè i nostri crediti saranno nel frattempo scaduti in quanto ‘essenzialmente deperibili’.
I crediti formativi sono uno strumento essenziale per la realizzazione degli scopi della riforma: l’armonizzazione dei corsi universitari italiani con quelli degli altri paesi europei e la trasformazione in senso ‘professionalizzante’ dei corsi, allo scopo di creare un collegamento diretto tra Università e mercato del lavoro. In pratica si prospetta una dequalificazione dei corsi universitari sia dal punto di vista culturale che dell’aquisizione di conoscenze specialistiche ‘spendibili professionalmente’.
Il vero risultato della riforma sarà di far uscire dall’Università laureati scarsamente qualificati e quindi ricattabili; si guarda ai ‘bisogni’ del mondo del lavoro, non certo preoccupandosi delle necessità di chi un lavoro lo cerca ma a quelle di chi i lavoratori li assume e li paga. Infatti per le aziende (il cui scopo è il profitto) un laureato dotato di una preparazione tecnico-specialistica è molto meglio di un laureato con una preparazione a tutto campo per almeno due motivi:
1) è capace di trovare lavoro in un ambito limitato ed è quindi più esposto al ricatto del precariato e di condizioni contrattuali scadenti: o lavori per me a queste condizioni o non lavori per niente
2) le aziende possono scaricare sull’Università (ossia sulla collettività) i costi della formazione professionale (diploma di I livello). I costi della ricerca, asservita sempre di più alle esigenze dell’impresa, saranno invece scaricati da pubblico a privato attraverso finanziamenti per la ricerca stessa e sponsorizzazioni dei corsi di II livello (master).
Passiamo ad analizzare il dettaglio della applicazione dei crediti. Ogni corso universitario prevede x ore di lezione; ipotizzando che per apprenderne il contenuto ogni studente necessiti di k*x ore di studio individuale, abbiamo un indice del carico di lavoro di ciascun corso, ossia (1+k)*x ore.
Non è stato ancora chiarito se la quantità k (ossia il rapporto tra ore di studio individuale e ore di lezione) sia da considerarsi lo stesso per ogni corso universitario o se invece sia da intendersi variabile da corso a corso in base a qualche criterio che si fondi sulla complessità degli argomenti. In ogni caso il ministero individua in 1800 ore annue il carico di lavoro complessivo.
Ipotizzando allora che mediamente le ore di lezione siano 20-25 a settimana per due semestri di 12 settimane ognuno, si ottiene un carico annuo di ore di lezione compreso tra 480 e 600, che significa un valore mediamente compreso tra 2 e 3 per il rapporto k. Se ora stabiliamo che un credito formativo equivalga a 30 ore complessive di studio (che vuol dire ad esempio 10 di corso e 20 di studio per k=2), possiamo assegnare ad ogni corso un ‘valore didattico’ in crediti formativi pari a (1+k)*x/30 (per k=2 abbiamo, ad esempio, che un corso di 60 ore vale 6 crediti formativi). Per conseguire un dato titolo di studio lo studente dovrà accumulare un numero fissato di crediti; in particolare la laurea breve verrà rilasciata raggiunto il tetto minimo di 180 crediti, mentre il titolo di II livello (master) con un minimo di 300 crediti. E’ prevista l’assegnazione di un certo numero di crediti (almeno 30) anche per i lavori di tesi. Per concludere va detto che i crediti potranno essere accumulati anche attraverso stages di formazione professionale svolti all’esterno dell’ Università, anche se non è chiaro il modo in cui si potrà quantificarli. Ci sembra quantomeno fantasioso pensare che si riuscirà a far passare nelle Università italiane un qualsiasi criterio che distingua il carico di studio di un corso (e quindi il suo valore in crediti) rispetto ad un altro. Ci chiediamo infatti quanti docenti (baroni) saranno disposti ad accettare il ‘declassamento’ del PROPRIO corso.
Ecco allora che il rapporto k non potrà che essere universale e perciò il valore in crediti di ciascun corso sarà determinato esclusivamente dalla sua durata in ore. I crediti diventano allora lo strumento pratico per equiparare astrattamente le ore di lezione dedicate alla formazione di base e quelle dedicate alla formazione professionalizzante, rendendole in qualche modo interscambiabili.
Contrattualità
Il ministero intende trasformare l’iscrizione all’Università da fruizione di un servizio statale a stipula di un contratto di non chiara natura legale.
I termini del contratto sarebbero i seguenti:
1)il contraente-iscritto si impegna a terminare il corso di studi nei tempi
prestabiliti
2)l’ateneo si impegna a fornire allo studente i servizi necessari a rispettare
i termini del contratto.
Ad oggi il ministero non ha ancora esplicitato in maniera chiara cosa comporti l’eventuale inadempienza del contratto da parte dello studente. Solo nella ‘bozza Martinotti’ si parlava in maniera vaga della possibilità di stipulare contratti diversificati (full-time, part-time).
E’ chiaro che sarà introdotta una penalizzazione per lo studente che non possa rispettare i termini del contratto; in caso contrario la contrattualità perderebbe di senso poichè non farebbe altro che riproporre la figura dello studente fuori corso, la cui ‘abolizione’ è proprio la ragion d’essere del contratto. Quindi lo studente part-time vedrà sommarsi al danno di ottenere un titolo di studio in età più avanzata rispetto alla media, la beffa di una distinzione legale tra il suo titolo e quello di uno studente full-time. Ciò è ancor più grave se si pensa che la categoria degli studenti part-time sarà costituita in maggioranza da coloro che sono costretti a fare lavori precari per pagare l’Università: gli verranno riconosciuti dei crediti per queste esperienze lavorative? Ovviamente no.
Che la fruizione del diritto allo studio (già fortemente limitata da sbarramenti economici) sia regolata da un contratto è idea di per sè in contrsto con l’articolo 33 della Costituzione. Ma qui si va ben oltre nel penalizzare chi per motivi economici o semplicemente umani non riesce a sostenere i ritmi imposti dall’ Università.
Non a caso nei documenti del ministero si fa spesso riferimento agli studenti parlando di ‘materiale umano’, un oggetto da plasmare nei modi e nei tempi più opportuni per il mercato del lavoro.
Va detto ancora che non è chiaro quali possano essere gli strumenti a disposizione dello studente che voglia ingaggiare da privato una disputa legale contro l’Università.
A proposito della qualità della didattica si indicano i nuclei di valutazione (già oggi in sperimentazione) come possibile strumento di controllo; ma pensiamo davvero che dei questionari scribacchiati in una pausa della lezione possano ribaltare la tradizionale gerarchia docenti-studenti che vede questi ultimi recitare solo un ruolo passivo? Ben altro ci vorrebbe per affermare una volta per tutte la centralità degli studenti.
Nuova struttura dei corsi di laurea
Vediamo ora quale sarà la nuova organizzazione della didattica.
I primi tre anni di corsi avranno una duplice funzione:
1)fornire una preparazione di base agli studenti che intendono continuare
gli studi
2)conferire un titolo di studio spendibile professionalmente (I livello). Si immagina un primo anno di corsi comuni a grandi aree tematiche (sanitaria, scientifica, umanistica, scienze sociali, ingegneria e architettura) per favorire una scelta più oculata del corso di studi.
La laurea breve verrà conferita al conseguimento di 180 crediti per la cui suddivisione tra formazione di base e professionalizzante gli atenei disporranno di ampia autonomia fatta eccezione per alcune regole generali di cui la terza nota di indirizzo si occuperà.
Lo studente che, conseguito il titolo di primo livello voglia proseguire gli studi, potrà accedere ai successivi due anni di corsi; al raggiungimento della soglia minima di 300 crediti (altri 120) verrà conferito il titolo di master. In ogni area tematica titoli distinti dovrebbero riprodurre gli attuali indirizzi presenti in ogni corso di laurea.
Al dottorato di ricerca ed ad alcune scuole di specializzazione post-laurea si accederà per concorso dopo il master.
Sono previste anche scuole di specializzazione successive al I livello (tra cui quelle per l’insegnamento, di nuova istituzione).
Autonomia finanziaria
Per i primi tre anni di corso ci aspettiamo che la legislazione già esistente verrà applicata senza le limitazioni cui finora è stata soggetta; ci riferiamo in particolare all’eliminazione dei criteri nazionali per la determinazione del tetto massimo dei contributi a carico degli studenti, che nelle ultime finanziarie hanno limitato l’applicazione della legge Ruberti e ad un più massiccio ingresso dei privati come finanziatori e perciò come parti in causa nella programmazione della didattica e della ricerca: questo vale in particolare per i corsi di master che non saranno finanziati dallo stato. Si arriverà in questo modo gradualmente alla ‘differenziazione competitiva degli atenei’, che si esplicherà nella diversificazione dei contenuti didattici, del livello dei docenti (verrà infatti introdotta la mobilità nei contratti), delle tasse, insomma della qualità degli studi in generale.
Si prospetta infine l’introduzione del numero programmato ( = numero chiuso) per master e scuole di specializzazione.
Questo è un attacco al diritto allo studio. Prevedere corsi di master senza alcun onere da parte dello stato significa infatti privatizzare i massimi gradi dell’istruzione pubblica (ponendosi ancora una volta in netta contraddizione col dettato costituzionale).
Questo è ciò che ci mostrano i modelli universitari a cui gli estensori di questa riforma si sono ispirati (in particolare quello statunitense).
Lo scenario che ci aspettiamo avrà le seguenti caratteristiche:
1) Aumento generalizzato dei costi a carico degli studenti, cioè accesso su base censitaria.
2) Costituzione di atenei d’élite costosissimi che avranno una gestione a tutti gli effetti privata, con servizi migliori, che si assicureranno i servigi dei docenti più qualificati e che forniranno in definitiva titoli che a tutti gli effetti pratici saranno di livello più alto. Questi atenei ospiteranno i rampolli dell’alta borghesia per riprodurre, senza pericolose infiltrazioni dalle classi subalterne, una classe dirigente fedele alle leggi del mercato (e non saranno quattro borse di studio a cambiare la sostanza delle cose: i poveri aumentano le borse no).
A chi non potrà permettersi tanto lusso rimarranno due strade aperte: un master scadente o l’abbandono degli studi con una laurea breve, che costringerà a sottostare ai ricatti del precariato, della flessibilità, di condizioni contrattuali sconvenienti o alla disoccupazione. All’esercito dei precari che usciranno dall’università di domani, andranno probabilmente ad aggiungersi molti laureati dell’attuale ordinamento dato che per alcuni corsi di laurea (ad esempio il nostro) si ipotizza l’equiparazione legale della laurea con un titolo di I livello. Tutto questo riguarda una piccola fetta di privilegiati: a tutt’oggi appena il 4% della popolazione nazionale può permettersi di completare gli studi universitari. Riteniamo che questa percentuale sia enorme se rapportata al numero di persone che potranno conseguire il master (per non parlare del ‘master d’èlite’).
Agli altri toccherà essere formati professionalmente fin dalla scuola media, che vedrà un massiccio ingresso di finanziatori privati. Abbiamo già visto esempi di cosa ciò significhi: le multinazionali impongono programmi e metodologie didattiche ed arrivano a trasferire nelle scuole le strategie di inquadramento militaristiche che applicano nelle loro fabbriche (si pensi, ad esempio, alle mini-fabbriche che la Toyota ha realizzato in parecchi istituti professionali italiani). In questo modo le multinazionali potranno ‘allevare’ potenziali lavoratori con un conseguente abbassamento del costo del lavoro.
Da una prossima riforma dell’istruzione pubblica in questo paese dobbiamo forse aspettarci l’introduzione di corsi professionalizzanti anche negli asili nido.
Conclusioni
Pensiamo di aver fornito argomentazioni sufficienti per affermare che l’idea di sviluppo alla base della riforma è quella capitalista, secondo cui l’accumulo di profitti da parte di quei pochi che sfruttano il lavoro (e la miseria e la messa ai margini) dei più, dovrebbe curiosamente coincidere con il benessere di tutti.
L’unica reale libertà è quella di vendere la propria forza-lavoro, ma solo alle condizioni di chi la compra.
Non c’è allora nulla di sorprendente nel constatare che le nostre istituzioni scolastiche non abbiano la funzione di formare individui coscienti ma quella di metterci in condizione, compatibilmente con i ‘bisogni’ del mercato, di vendere delle capacità lavorative. Capito questo, non grideremo allo scandalo sdegnati, ma opporremo resistenza. Resistenza agli attacchi che il capitale porta alle concessioni (servizi sociali, libertà individuali) che nei periodi di sviluppo può permettersi e che, nella crisi, è costretto ad eliminare brutalmente.
Opporre resistenza significa chiedere con forza il rispetto dei diritti della persona, evidenziando che questa società non è in grado di alimentare uno sviluppo compatibile con essi.
NOI RIVENDICHIAMO IL DIRITTO AD UN’ISTRUZIONE PUBBLICA E GRATUITA, NON ASSERVITA AD ALCUN PADRONE E NELLA QUALE SI COMUNICHI UN SAPERE LIBERO.
NOI RIVENDICHIAMO TRASPORTI, ALLOGGI, MENSE GRATUITE PER TUTTI GLI STUDENTI.
NOI RIVENDICHIAMO LA CENTRALITA’ STUDENTESCA NELLA GESTIONE DELL’ ISTUZIONE A TUTTI I LIVELLI.
NOI RIVENDICHIAMO UNA DIDATTICA MIGLIORE, CHE SIA COSTRUITA PER GLI STUDENTI E NON PER LO STRAPOTERE DEI DOCENTI.
Tali rivendicazione non possono essere soddisfatte da una società come la nostra. Ma nessuno potrà mai negarci la libertà di pensare che possa esistere una società migliore e di lottare per realizzarla.
IL COLLETTIVO PIGRECO