DOMINIO SENZA SFRUTTAMENTO?

RISPOSTA A PALANO


Fabio Ciabatti / Alessio Gagliardi

___________


L'articolo che precede accusa le analisi riguardanti l'università di essere affette da impostazione feticistica. In sostanza, sostiene l'autore, l'istituzione universitaria, e più in generale formativa, viene considerata come istituzione neutra e non come momento essenziale della riproduzione del modo di produzione capitalistico. Il capitalismo non è solo un modo di produzione di merci, ma soprattutto di rapporti sociali e quindi la formazione, come qualsiasi istituzione statale, non è mera sovrastruttura, ma momento essenziale della riproduzione capitalistica. La formazione statale è infatti necessaria nel suo ruolo di disciplinamento tecnico e soprattutto ideologico della futura forza-lavoro. In altre parole, il problema principale non consiste nel formare lavoratori con le necessarie capacità lavorative, ma nel rendere gli uomini mentalmente disponibili ad erogare lavoro in modo disciplinato.

Coloro che scrivono sono diretta parte in causa, in quanto autori di alcuni dei testi criticati. Tuttavia non ci interessa in questa sede mostrare al lettore quanto queste accuse siano infondate, ma in qualche modo "utilizzare" l'articolo di Damiano Palano per affrontare alcuni temi che egli ha l'indubbio merito di cogliere nella loro importanza, pur giungendo a conclusioni poco condivisibili sul piano teorico e, probabilmente, fuorvianti su quello politico. Dunque, eviteremo di perderci, da un lato, in riferimenti testuali ed in dispute cavillose e, dall'altro, in analisi dettagliate sui recenti decreti-legge concernenti il sistema formativo. Discutere di università, rifuggendo ovviamente dai tecnicismi "corporativi", può infatti essere utile per affrontare nodi essenziali, a partire dal rapporto tra produzione e riproduzione, tra lavoro e società.

1. Il presupposto da cui parte Palano è completamente condiviso, non altrettanto si può affermare per le conclusioni cui giunge. Se è infatti vero che »la rete dei rapporti di dominio si estend[e] anche all'esterno del luogo fisico della produzione» e che, dunque, anche i luoghi della formazione, in quanto esplicano funzioni essenziali nell'ambito della riproduzione del sistema complessivo, sono sottoposti al dominio capitalistico, da ciò non deriva minimamente che lo studente sia »soggetto esso stesso allo sfruttamento capitalistico»1.

Il concetto di sfruttamento, almeno per ciò che riguarda Marx, è assai preciso, e non coincide con quello di dominio. Il dominio è la capacità, attraverso l'uso potenziale o effettivo della forza, di imporre comportamenti, che altrimenti non si verificherebbero (parleremo più in là del dominio ideologico). Lo sfruttamento, in termini molto semplici, è la capacità dei proprietari dei mezzi di produzione di sottrarre, ai produttori diretti, una parte di ciò che è stato da questi fabbricato. E' perciò ipotizzabile, in linea puramente teorica, un dominio senza sfruttamento (per esempio l'imposizione, da parte del conquistatore, della sua religione) e uno sfruttamento che venga effettuato con il consenso degli sfruttati (soprattutto nel caso in cui a questi sia lasciata una parte della produzione che consenta loro un relativo benessere).

Le cose nella realtà sono ben più complesse, poiché lo sfruttamento e il dominio sono per lo più indistricabilmente connessi. La questione si complica ulteriormente se si considera che il dominio non si avvale esclusivamente dell'uso della forza, ma anche della persuasione ideologica. La complessità di questo rapporto non consente semplificazioni, ma analisi altamente complesse.

Abbandoniamo, per questo, il terreno dei concetti metastorici e inoltriamoci nel mezzo dei rapporti capitalistici di produzione. Abbiamo detto che il sistema capitalistico non è solo un sistema di produzione di merci, ma anche di riproduzione di relazioni sociali. Il punto che Marx mette in mostra è che i due momenti, per ciò che riguarda il loro lato essenziale, non sono separati. Nella stessa produzione di valore e plusvalore il capitalista si riproduce come capitalista e l'operaio come operaio. Infatti, quest'ultimo, alla fine del processo produttivo, una volta percepito e consumato il suo salario (ed esso può essere consumato, essenzialmente, per la mera riproduzione dell'operaio e della sua famiglia), è costretto a ripresentarsi sul mercato del lavoro cercando un impiego presso un capitalista, il quale, essendosi impadronito del plusvalore, può continuare le sue funzioni capitalistiche. Per questo Marx sostiene che »la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull'operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l'operaio può rimanere affidato alle ìleggi naturali della produzioneî, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle condizioni stesse della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse»2.

La differenza essenziale tra lo sfruttamento capitalistico e quello precapitalistico è che il primo è mediato dalla forma valore, cioè dai rapporti di merce e denaro. Dunque lo sfruttamento non è immediatamente visibile, come lo era quando il feudatario sottraeva al servo della gleba una parte del suo raccolto, o impiegava parte del suo tempo di lavoro in un campo, il cui prodotto apparteneva interamente al feudatario. Il lavoratore salariato, invece, percepisce una remunerazione in denaro. Essa rappresenta il tempo di lavoro necessario. Ma non appartiene alla percezione comune che il denaro non sia altro che tempo di lavoro, che si rappresenta nella merce denaro. Per questo non è immediatamente visibile che il denaro percepito dal lavoratore non corrisponde all'intero lavoro erogato, ma solo ad una sua parte. In tal modo, il salario appare come ìvalore del lavoroî e non come esso è realmente: valore della forza-lavoro. L'invisibilità immediata dello sfruttamento consente che esso sia mediato non da rapporti di dominio diretto, ma da rapporti contrattuali, che hanno l'apparenza (e in parte la realtà) di rapporti di libera intesa. In questo senso Marx sostiene che la »forma del salario oblitera quindi ogni traccia della divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e pluslavoro, in lavoro retribuito e lavoro non retribuito… Su questa forma fenomenica, che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell'operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le illusioni sulla libertà, tutte le chiacchere apologetiche dell'economia volgare»3.

Questa lunga precisazione serve a sottolineare che il processo di riproduzione non può essere identificato, come in certi tratti può sembrar dire l'articolo da noi considerato, con la sfera del dominio in contrapposizione a quella della produzione. Tutto ciò vale, evidentemente, per »il corso ordinario delle cose». E' proprio perché le cose non vanno sempre in modo normale, che esistono apparati coercitivi e ideologici. A proposito di questi ultimi Marx, nell'Ideologia tedesca sosteneva che le idee dominanti sono sempre le idee delle classi dominanti. Aggiungeva che i padroni dei mezzi di produzione sono sempre quelli che possiedono i mezzi di produzione intellettuale.

In sintesi, i rapporti di riproduzione complessiva del sistema capitalistico sono indistricabilmente risultato della coazione economica, della forza repressiva e degli apparati ideologici o di disciplinamento. La parte del leone, in conformità a quanto sosteneva Marx, è svolta dai primi. Sta proprio in ciò la peculiarità del modo di produzione capitalistico: nell'interna relazione tra la riproduzione dei rapporti sociali e la produzione materiale di merci. In assenza di particolari vincoli, ovvero in condizioni normali di mercato, chi decidesse di sottrarsi dal proprio ruolo sociale di salariato non andrebbe incontro a nessuna risposta repressiva, sarebbe libero di farlo. Si troverebbe però privato dei mezzi necessari alla propria sussistenza. »Per trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore libero; libero nel duplice senso che disponga della propria forza lavorativa come propria merce, nella sua qualità di libera persona, e che, d'altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia privo ed esente, libero di tutte le cose necessarie per la realizzazione della sua forza-lavoro»4. Ciò che rende tale il lavoratore salariato e che, quindi, lo porta ogni mattina a ripresentarsi sul luogo di lavoro è innanzitutto l'assenza di possibilità alternative, cioè il fatto che si ritrova privo di mezzi di produzione, che, soli, gli assicurerebbero la sussistenza senza dover lavorare. L'ambivalenza del lavoro sta qui: da un lato, esso è il mezzo per ottenere il salario e, quindi, quanto è necessario per la propria sussistenza, dall'altro, comporta necessariamente sfruttamento e disciplinamento. Da questa ambivalenza, oltre che dal feticismo indotto dalla forma del salario, deriva il fatto che non immediatamente e, soprattutto, non necessariamente, la condizione materiale produce coscienza di sè; cioè che non è scontato, nè tantomeno predeterminabile nei modi e nei tempi, che il lavoratore si percepisca sfruttato e assoggettato e che, quindi, possa produrre antagonismo e conflitto.

I rapporti economici capitalistici, infatti, sprigionano spontaneamente, se ci si passa l'espressione, delle concezioni ideologiche, una percezione della realtà, cioè, che giustifica la realtà capitalistica stessa, rendendola, nell'apparenza, frutto della libera scelta degli individui, del reciproco accordo degli agenti della produzione. Questa apparenza risulta addirittura schiacciante, quando i lavoratori salariati risultano reciprocamente separati ed indifferenti, chiusi nell'atomismo in cui il mercato e la loro caratteristica di venditori di forza-lavoro li pone. In questo caso infatti, l'unico rapporto tra lavoratori è quello di reciproca concorrenza sul mercato del lavoro. Da questa posizione risulta l'assoluta impotenza e la tendenza a fare di necessità virtù.

Non è qui la sede per mostrare quali siano i momenti attraverso i quali questa posizione si muta e cioè la logica che presiede alla trasformazione di una moltitudine di atomi in un soggetto collettivo conflittuale e finanche antagonista.

Quando Damiano Palano parla di riproduzione si riferisce prioritariamente alle politiche statali e in particolare a quelle sociali. Egli infatti sostiene che la riproduzione della classe operaia è, teoricamente, un risultato spontaneo del processo di produzione, ma che questi meccanismi non sono in grado di assicurare la disponibilità ìquantitativaî e ìqualitativaî adeguata della forza-lavoro. Dunque l'azione della formazione è quella di rendere gli uomini disponibili al lavoro e contemporaneamente quella di gerarchizzarli e dividerli in fittizie compartimentazioni tecniche. L'università di massa era stata pensata per produrre un ceto medio impiegatizio in funzione antioperaia.

A proposito di queste affermazioni si possono osservare diverse cose. La prima è che, nel processo di riproduzione, non viene mai considerato il fatto che non si deve riprodurre solo la classe lavoratrice, ma anche quella capitalistica. Il capitalista, per riprodursi, non deve semplicemente produrre e vendere la sua merce, ma la deve vendere incamerando quella quantità di plusvalore che i meccanismi di concorrenza rendono normale. In più esso deve reinvestire questo plusvalore in attività profittevoli. In poche parole, la riproduzione della classe capitalistica implica la continuità del processo di riproduzione allargata capitalistica. In questo senso non è certo da ritenere secondario l'aspetto che assume la spesa di formazione, in quanto spesa di reddito da parte dello Stato, poiché, sostenendo la domanda, assicura la riproduzione allargata del capitale. Specularmente, non si può sottovalutare l'aspetto dei costi per il capitale che la politica di disciplinamento comporta. Se è vero che »almeno nelle intenzioni, lo sviluppo dell'università di massa veniva ad essere la riproduzione di ceto impiegatizio in funzione antioperaia»5, è altrettanto vero che questo ceto è un costo per il capitale. Se dunque il ceto impiegatizio, sia pubblico che privato, non ha una sua giustificazione economica o comunque non è una spesa tollerabile, esso può sopravvivere per brevi periodi, soprattutto di crisi, ma prima o poi verrà ridimensionato. Ed effettivamente questo sta avvenendo, tanto per ciò che riguarda gli impiegati delle grandi industrie (con maggiore rapidità), quanto per ciò che riguarda l'apparato statale (con molta più lentezza). Ancora una volta bisogna considerare gli aspetti produttivi e quelli riproduttivi in modo congiunto.

2. La sottovalutazione delle necessità produttive e riproduttive del capitale è parallela alla scarsa importanza data ai meccanismi economici, quali elementi di coazione materiale ed ideologica (che abbiamo brevemente descritto in precedenza), nel processo di riproduzione complessiva dei rapporti sociali di produzione capitalistici.

Nel ragionamento di Palano sembra quasi che questa coazione economica sia assente. Il forte accento sulla funzione disciplinare della formazione universitaria e scolastica, funzione che comunque è innegabilmente presente, sembra alludere alla possibilità che, per colui che non possiede mezzi di produzione, ci sia qualche altra possibilità oltre che quella di vendersi sul mercato delle braccia o dei neuroni. Insomma sembra che sia immediatamente praticabile per la totalità dei proletari una qualche forma di produzione alternativa. Infatti Palano, dopo aver citato le teorie »dell'esodo», accusate di eccessiva »enfasi», sostiene che il rifiuto del lavoro scolastico ha consolidato a livello di massa la »cooperazione antagonista» ed ha »significato per centinaia di migliaia di studenti la conquista di "tempo liberato", la conquista della possibilità di "fuggire" a quelle "fabbriche di lavoratori mentali" che sono le università»6. Dove abbia portato questa fuga non è specificato. Probabilmente, aggiungiamo noi, nel precariato. Dunque i meccanismi coattivi della produzione hanno continuato a farsi valere.

La scarsa attenzione a questi meccanismi può essere fatta risalire all'idea che l'anarchia del mercato sia stata sostituita dallo Stato-piano. La citazione di Panzieri accenna a questo passaggio. In altri termini la competizione economica tra diversi capitali sul mercato è sostituita da una pianificazione tendenzialmente totalizzante. In realtà si può muovere a Panzieri, ed a maggior ragione ai suoi eredi più o meno legittimi, la critica rivolta dallo stesso Panzieri a Marx: questa tesi è viziata da un'assolutizzazione di una fase particolare dello sviluppo capitalistico. Il periodo in cui scriveva Panzieri vedeva un aumento assai pronunciato dell'intervento statale, tanto nelle funzioni produttive, che in quelle riproduttive. Il padre dell'operaismo estremizzò questa tendenza e la considerò irreversibile. Le cose sono andate nella realtà in modo diverso. Gli anni Ottanta e Novanta hanno visto un parziale ritiro dello Stato dalle attività economiche in corrispondenza con la transnazionalizzazione dei capitali. E' alquanto strano sentire la riproposizione della tesi dello Stato-piano in un periodo in cui si fa gran parlare di crisi dello Stato-nazione. Certo nelle tesi della scomparsa dello Stato-nazione c'è molto di ideologico. In realtà, non stiamo assistendo al ritorno puro e semplice di un mercato perfetto sul piano planetario. Sarebbe più corretto dire che si sta verificando una trasposizione delle contraddizioni capitalistiche ad un livello più alto. Per ciò che riguarda lo Stato alcune funzioni vengono perdute o limitate (in particolare quelle di redistribuzione del reddito e di alimentazione della domanda aggregata), altre mantenute (il sostegno alle imprese) e forse nuovi compiti potrebbero essere assunti. Ciò non toglie che la tendenza generale sia quella di un ridimensionamento generale dell'intervento statale e di una ripresa, a livello internazionale, di una forte concorrenza tra capitali.

Marx sosteneva che la legge del valore e del plusvalore si imponeva agli agenti della produzione, attraverso il meccanismo coattivo della concorrenza. Se dunque questa viene meno, sostituita dalla pianificazione dello Stato, è conseguenza logica che venga meno la legge del valore. Di qui diventa "normale" trasformare il capitale in un puro strumento di dominio, assolutamente privo di un motore interno di sviluppo. Una realtà assolutamente statica costretta soltanto ad agire per rispondere alle pressioni della classe lavoratrice. In tal modo viene evidentemente meno ogni distinzione tra dominio e sfruttamento, appiattendosi il secondo sul primo. Talchè, così come il capitalista domina l'operaio non per appropiarsi di una parte del valore da lui prodotto, ma semplicemente per confermare il suo comando, allo stesso modo, sempre secondo il parere di Palano, l'istituzione formativa esprime il suo dominio sullo studente. Di più: non avrebbe più senso alcuno la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, in quanto la produttività capitalistica sarebbe tout court produttività di plusvalore, e, venendo meno la finalità del capitalista di far svolgere al lavoratore un pluslavoro, ma rimanendo solo quella di farlo lavorare, verrebbe a cadere anche la distinzione precedente. Poiché tanto lo studente che l'operaio "lavorano", essi sono entrambi dominati o sfruttati.

E' facile dunque comprendere che, in questo quadro, la qualificazione tecnica dei lavoratori ha scarsa importanza, perché vengono meno le esigenze produttive del capitale. E' vero, d'altro canto, che il processo di astrazione del lavoro implica la sua dequalificazione, anche a livello di lavoro intellettuale. Oggi non sono più necessari un gran numero di ingegneri iperqualificati, essendo sufficienti ingegneri con una laurea breve. Questo implica dequalificazione e diminuzione del valore di questa forza-lavoro. Ciò non toglie che di queste figure professionali il capitale abbia bisogno.

Sottostimare la funzione di formazione di lavoro qualificato, così come sorvolare completamente sul ruolo svolto dall'università riguardante la ricerca scientifica e tecnologica, significa sostanzialmente, lo ripetiamo, considerare il capitale quale macchina di puro dominio politico. La sua incapacità di qualsiasi movimento dettato da una sua logica interna è la conseguenza di questa considerazione. Allora, qualsiasi tipo di ristrutturazione e innovazione deve essere riportato ad uno stimolo esterno, l'antagonismo proletario. Come fare allora se, di fronte ad una ristrutturazione molto pervasiva dell'università, non ci si trova alcun movimento antagonista né studentesco né di altro genere? Semplice: così come i medici che non riuscivano a spiegare le capacità soporifere dei sonniferi sostenevano che erano dovute alla ìvis dormitivaî in esse contenuta, così si può parlare di un antagonismo studentesco che, »lungi dal rappresentarsi in forma sempre chiara e definita in un Movimento continuativamente presente […] si è materializzato in una serie di pratiche di massa e di comportamenti diffusi e quotidiani […] lontano dai riflettori»7. Insomma l'antagonismo c'è, ma non si vede, un po' come la madonna di Fatima.

Questo atteggiamento ha poi un curioso rovescio della medaglia. Se questa ristrutturazione universitaria è fatta risalire a micromovimenti individuali e di gruppo, possenti e silenziosi, non si tiene invece conto del fatto che l'università di massa non è frutto solo di un diabolico disegno del padrone, ma anche delle pressioni del movimento operaio. L'istruzione gratuita è una rivendicazione tradizionale del movimento operaio, a partire dal Manifesto di Marx. Per di più, lo stesso primo manifestarsi del '68, in Italia, è stato scatenato proprio dal "pretesto" contingente della reintroduzione del numero chiuso. E' vero che l'università di massa ha una valenza ambigua: da una parte, accesso aperto per le classi subalterne all'istruzione superiore, dall'altra, disciplinamento della forza-lavoro e sostegno al capitale, attraverso la spesa di reddito, da parte dello Stato. In realtà, qui si ritrova l'ambiguità dello Stato-sociale e, ancor più in profondità, del salario: le conquiste salariali sono in generale conquiste dei lavoratori, che però non mettono in discussione il rapporto salariale in quanto tale, ma, anzi, lo confermano.

3. Certo si può sostenere che abbiamo fatto dire all'articolo criticato più di quanto esso abbia sostenuto. Questo è vero, ma l'analisi dei presupposti di quanto in esso affermato c'è sembrata necessaria, per spiegare una serie di incongruenze. Facciamo un'altro esempio. Palano, per sostenere l'analogia tra »lavoro scolastico» e lavoro sfruttato afferma che »mediante tale "lavoro scolastico" […] lo studente riproduce costantemente la propria forza-lavoro, o meglio riproduce se stesso, la propria esistenza come "lavoro potenziale", come disponibilità a sottoporre la propria vita ad un lavoro infinito e continuo»8. L'analogia che viene proposta riprende le parole di Marx, il quale sostiene che il lavoratore salariato, mentre produce, viene messo in condizione di riprodurre la propria forza-lavoro. In realtà l'analogia non regge. L'operaio consuma la propria energia mentre lavora, così come lo studente mentre studia. Ma l'operaio riceve, in cambio di questo consumo di energia, un salario che gli consente di consumare quel tanto che gli permette di reintegrare le energie perdute e di mantenere efficienti le sue capacità fisiche e mentali. Dunque il processo produttivo, per il lavoratore, non coincide con la sua riproduzione (se non per ciò che riguarda l'acquisizione di competenze, per altro scarsa a causa dell'astrazione del lavoro), ma è condizione della sua riproduzione in quanto è processo economico che consente al capitalista di produrre un valore, parte del quale va a remunerare il lavoratore. Lo studente, invece, con il suo "lavoro scolastico", produce solo una capacità, un lavoro potenziale, e da questo lavoro non trae alcun sostentamento. Dunque egli, con il suo "lavoro scolastico", non si riproduce (a questo provvedono in genere mamma e papà con il loro ìlavoro salariatoî o egli stesso con un ìlavoro salariatoî che nulla ha a che fare con il suo ìlavoro scolasticoî, anzi lo ostacola), ma produce una capacità, una potenzialità. Se si considera invece il capitale come un'entità unica, avente la propria riproduzione (indipendentemente dalla condizione in cui si attua) come unico fine, subordinatamente al quale ogni lavoro ha la medesima funzione (cioè quella, appunto, di riprodurlo), allora si può considerare ogni lavoro come uguale a tutti gli altri, remunerato direttamente o indirettamente da una quota parte del prodotto complessivo. Questa rappresentazione non è banalmente falsa, ma in senso proprio astratta, cioè astrae dal fine principale di ogni singolo capitale, quello di realizzare plusvalore sotto forma di profitto, e dal fatto che ciò avviene in una situazione di concorrenza (quale che essa sia) tra i diversi capitali.

Tutta questa discussione può sembrare un po' scolastica, ma ha una rilevanza politica. Infatti, una volta equiparato il lavoro scolastico a quello salariato, Palano può affermare che »la figura dello studente-massa […] si impose come protagonista delle lotte degli anni Sessanta e Settanta, determinando dunque la "crisi dell'educazione", cioè la crisi delle strutture disciplinari della società fordista […]9 La rigidità dell'antagonismo studentesco, la capacità di autoridurre il "lavoro studentesco" e di non veder calare contemporaneamente i voti, è stato uno dei risultati più importanti delle lotte studentesche degli anni Sessanta e Settanta ed uno degli elementi che ha più contribuito a determinare la crisi della fabbrica sociale fordista». Ora non vogliamo certo sottovalutare il ruolo dei movimenti studenteschi degli anni passati. Ma qui ne viene affermata un'illusoria autosufficienza. In quanto viene meno, o si sfuma fino alla dissolvenza, la distinzione tra lavoro salariato e lavoro non salariato (come quello scolastico o quello riproduttivo svolto nelle mura domestiche), la soluzione di continuità tra lavoro salariato produttivo e improduttivo, la differenza tra il lavoro salariato produttivo inserito nei punti alti dello sviluppo capitalistico e quello inserito nei punti bassi, la struttura sociale diviene una gelatina informe in cui non esiste un centro e in cui tutti i punti possono assurgere ad una illusoria centralità.

Ecco dunque lo studente diventare un soggetto naturalmente antagonista: »Il lavoro scolastico svolto dallo studente, in quanto lavoro riproduttivo di rapporti di produzione, presenta tutti i caratteri di oppressione solitamente riconosciuti nel lavoro salariato. Nello studente, in quanto lavoratore riproduttivo, si è infatti già realizzata la scissione tra uomo ed oggetto di lavoro, tra uomo e oggetto della sua attività trasformatrice, l'alienazione dell'oggetto del lavoro, in cui "si riassume soltanto l'alienazione, l'espropriazione dell'attività stessa del lavoro" […] Il dispotismo dell'università, allora, non è soltanto un "attributo culturale", ma scaturisce dalla natura stessa del "lavoro scolastico", dall'imposizione allo studente di un potere esterno, rappresentato dalle sofisticate tecniche della disciplina scolastica»10. Senonché, l'essere sottoposti ad una norma sociale e alla relativa istituzione che la esprime non significa necessariamente essere antagonisti a quella norma. La norma sociale è per sua natura esterna all'individuo. Il tutto sta a vedere se e in che misura essa sia stato interiorizzata. Ciò dipende, per i fenomenti sociali che ci interessano, dalla propria posizione sociale. Uno studente che per provenienza sociale sia concorde con la finalità dell'istituzione formativa (la riproduzione dei rapporti sociali di produzione capitalistici) non trae alcun motivo di antagonismo nei confronti dell'imposizione esterna, tuttalpiù nei confronti di qualche norma specifica. Ciò non toglie ovviamente che possano essere fatte delle scelte individuali non dettate dalla propria provenienza sociale, ma questa non è una specificità dell'istituzione scolastica. Inoltre, bisogna considerare che, in un periodo in cui i rapporti sociali complessivi di un sistema sono in crisi, è più facile che venga percepita come alienante una cultura che tenta di perpetuare un mondo in via di dissoluzione, anche da parte di chi appartiene a gruppi sociali più o meno privilegiati.

Ma c'è di più. Non solo gli studenti non sono un soggetto spontaneamente antagonista. Anche quando si coagula un soggetto collettivo studentesco, esso non vive esclusivamente di luce propria. I movimenti studenteschi italiani degli anni Sessanta e Settanta hanno avuto, tra alti e bassi, una lunga vita. Lo stesso non è accaduto negli altri paesi occidentali. Lo stesso dicasi per la stessa Pantera, comparsa improvvisamente e, dopo un breve periodo di vita politica isolata, velocemente scomparsa. Dunque è plausibile sostenere che lo ìstudente-massaî si sarebbe sciolto come neve al sole, da un giorno all'altro, se non ci fosse stato negli stessi anni l'operaio-massa fortemente conflittuale ed antagonista, e se gli studenti non fossero riusciti a collegarsi, talvolta materialmente, talaltra idealmente, con gli operai.

4. Tutto questo non significa essere affetti da vetusto fabbrichismo o credere nell'esistenza della "rude razza pagana" o a qualsiasi altra variante iconografica della classe operaia, ma evitare l'indistinzione, cogliere la complessità e le molteplici articolazioni e quindi individuare o, meglio, porre, l'esistenza di una parte centrale; non si tratta di un frammento utilizzabile come cannocchiale per guardare tutto il resto, né di un paradigma, cioè parte che contiene il tutto, ma solamente del punto più critico, incarnato da quello spezzone di classe inserito nel cuore del processo di valorizzazione del capitale, capace di opporre un potere di veto, o comunque di contrastare, i meccanismi fondamentali dell'attuale modo di produzione che rimangono, comunque, i processi di valorizzazione del capitale; uno spezzone inserito in quel nucleo centrale della valorizzazione che continua a essere rappresentato dai luoghi del lavoro concentrato (di cui, al momento, non si vedono ancora forme diverse da quelle della fabbrica), per quanto questi siano stati trasformati in profondità da innovazioni tecnologiche e processi ristrutturativi. Luoghi che non si stagliano più con la nettezza di un tempo sul panorama circostante, che faticano, spesso senza successo, a continuare a imporsi come elementi cardine delle dinamiche sociali, come passaggi obbligati e imprescindibili, non solo per ogni trasformazione radicale, ma anche per uno sguardo globale, complessivo, sul mondo che ci circonda. E' all'interno di essi che i meccanismi dello sfruttamento rimangono più visibili che altrove e il lavoro fianco a fianco degli operai concentrati in grandi quantità rimane, comunque, un fattore fondamentale per lo sviluppo di una solidarietà di classe. Qualsiasi soggetto antagonista che non contenga questo spezzone è strutturalmente debole. Con ciò non vogliamo affatto negare (sarebbe folle!) le evidenti difficoltà che il presente ciclo pone all'agire di quei fattori che in passato hanno consentito ai lavoratori salariati di trasformarsi in soggettività antagonista, ma è altrettanto evidente che le difficoltà esistenti in questo senso, per i lavoratori di fabbrica, si presentano in modo amplificato per gli esternalizzati, i precari, i sottoccupati, i disoccupati ecc. Né vogliamo asserire che un soggetto antagonista può rimanere limitato alla realtà di fabbrica: esso deve infatti comprendere quei soggetti produttivi, caratteristici della cosidetta fase "post-fordista", che hanno assunto una certa importanza sia quantitativa che qualitativa.

E' proprio perché il panorama attuale appare così articolato e frammentato che non ci si può limitare a una semplice ricognizione dell'esistente, ma occorre prestare attenzione a incrinature e punti critici, individuare le sponde forti dentro i luoghi centrali della produzione, affinché anche il lavoro salariato non venga rappresentato come la notte in cui tutte le vacche sono nere.

1 Entrambi le citazioni sono tratte da Damiano Palano, Università, formazione, antagonismo, in "Vis-à-vis", n.5, inverno 97.

2 K.arl Marx, Il Capitale, Vol. I, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 800-801.

3 Ibidem, p. 590.

4 Ibidem, p. 201.

5 Damiano Palano, op.cit..

6 Ibidem, p. 16.

7 Ib.

8 Ib.

9 Ib., p. 13.

10 Ib., p. 11.