NUMERO CHIUSO: IL NUMERO È CHIUSO?

Che significato attribuire al numero chiuso? Per rispondere è necessario contestualizzare la questione. Viviamo nell’epoca della sussunzione reale, di marxiana memoria, e della formazione di un capitalismo mondiale integrato, in cui anche le comunità locali e gli ambienti sociali sono messi in valore. I territori, in feroce competizione per la conquista di un posto al sole nel mercato mondiale, sono costretti alla mobilitazione totale del lavoro vivo, della sua creatività ed intelligenza, della ricchezza delle sue capacità intellettive e comunicative. Siamo di fronte ad un nuovo capitalismo ipertecnologico, ultraveloce, sempre più virtuale e globalizzato che costringe l’Università -e le altre agenzie della formazione- a diventare competitive.

Con ironia -ed il dovuto rispetto per Deodoro Roca- si potrebbe affermare, "Riforma sociale è lo stesso che riforma universitaria". Nei progetti di governo, Confindustria e sindacati non c’è più posto per la cattiva distribuzione delle risorse umane e l’invecchiamento di docenti e di programmi. Controllo e valutazione della didattica -della sua "produttività"-, oltre che un insegnamento più flessibile ed attento ai bisogni dello studente -perlomeno di quello costruito a tavolino- caratterizzano l’Università post-fordista.

Negli atenei irrompe la logica d’impresa: l’abbassamento dei costi attraverso l’eliminazione di ogni eccedenza - di spazio, di tempo, di persone - non giustificata da rigide ragioni produttive; tutto ciò mentre, fino ad ora, delegati a fare opposizione a queste prospettive mercantili sembrano essere solamente il paternalismo umanistico dell’Accademia e/o le posizioni più retrive e "stataliste" di Movimento.

Il numero chiuso, quindi, come strumento per aumentare relativamente il numero dei laureati diminuendo drasticamente il numero complessivo d’iscritti, per selezionare la massa di studenti in grado di laurearsi nel minore tempo possibile: questo sta accadendo. Nel mentre, il reclutamento del personale da situare nei gangli reali del potere - nelle agenzie di "definizione della realtà", nelle imprese di infoproduzione che delle società del controllo sono i potenti emblemi - viene destinata a soggetti e percorsi di formazione extrauniversitaria.

L’Università come impresa, la cultura come merce, gli studenti come utenti: "usagers". Usiamo il termine francese -reso noto dalle cronache del movimento sviluppatosi in Francia nel dicembre del ‘95- per indicare la nostra qualifica di coproduttori del servizio universitario, così come in Francia è usato nel dibattito intorno al senso ed allo sviluppo dei servizi di pubblica utilità. Lo studente come lavoratore immateriale, operaio sociale impegnato in un processo di formazione permanente, in spazi che non sono più quelli dell’Università di massa.

La proposta del ministro Berlinguer di smembrare i Megaatenei fa delle Università delle piccole-medie imprese, potenzialmente inserite nelle reti produttive; mentre la tecnica della teleformazione rende già possibile il contatto con nuovi soggetti da formare al di fuori della "classe discente".

A chi non si accontenta di opporsi a queste logiche perché intende rovesciarle, radicalmente, sono riservate altre possibilità. Ci resta la "forza-invenzione": chiudono le Università e noi costruiamo nuovi percorsi di formazione. Le libere Università e i centri di ricerca che sorgono in Italia ed in Europa, con intenti di critica sociale ed azione solidale, e più concretamente l’invenzione di nuovi lavori e nuove professionalità, per cui non sia necessario alcun diploma o laurea, sono ormai pratiche prossime a realizzarsi di alternativa e potenziale sabotaggio. Ma purtroppo non è così facile; la scienza istituzionale - regale, nel lessico di Deleuze e Guattari - non assiste in silenzio alle scorribande dei nuovi saperi "nomadi": nuovi diplomi, nuove lauree nascono per ricordarci che l’Università - la formazione e la produzione di linguaggio - è anche "il meccanismo con il quale avviene la selezione degli individui delle altre classi da incorporare nel personale governativo, amministrativo, dirigente" mentre per gli esclusi è "un moltiplicarsi di scuole professionali fin dall’inizio delle carriere degli studi". Così Antonio Gramsci.

POLITICA UNIVERSITARIA NAZIONALE: LA POLITICA UNIVERSITARIA È NAZIONALE?

Quest’avvio d’anno accademico è stato segnato, almeno qui a Torino, da molteplici iniziative contro il numero chiuso e il nuovo ordinamento didattico: ricorsi, assemblee, concerti organizzati da Collettivi ed altre realtà studentesche. Ma si possono affrontare queste problematiche - ed ogni altra questione universitaria - solo a livello locale?

È utile ricordare, a questo proposito, che da mesi è in corso una trattativa tra MURST - ministero per l’Università e la ricerca... - e rappresentanze studentesche in vista di una legge chiarificatrice in materia di "numero programmato". In seguito la discussione è stata estesa anche alle tasse, agli ordinamenti universitari, ad altro ancora. Il ministro Berlinguer sembra dunque intenzionato a riportare al centro - a Roma - il potere di decisione sugli affari universitari. Le deleghe richieste con la legge finanziaria del ‘96 permetteranno al ministro di operare con propri decreti, legittimati non più da leggi del Parlamento ma dalla concertazione con le organizzazioni degli studenti.

Ridotta la legge a mero simulacro, ad enunciazione di principio, è l’amministrazione, la procedura ad assumere un valore centrale. Ma per la messa in scena di questo modello socialdemocratico fuori tempo massimo - tutta qui la mitica ridefinizione del Welfare? - l’Ulivo necessita di un’adeguata controparte. Ed ecco sorgere organizzazioni come l’UDU - sindacato degli studenti universitari, vicino alla CGIL - , il coordinamento delle liste di sinistra, la rete studentesca, etc.: attori da inserire in organismi come il CUN, la Consulta Nazionale degli Studenti, etc.... A giustificare questa politica neo-centralizzatrice sono chiamate argomentazioni come la necessità di riequilibrare le risorse delle diverse Università italiane, per evitare la nascita di atenei di serie A e di serie B ed il relativo rischio di perdita del valore legale della laurea.

Ci interessa un discorso di questo tipo? è possibile rispondere ai bisogni degli studenti senza richiamare in causa l’interventismo ministeriale, che mina i già poveri strumenti dell’autonomia universitaria?

La risposta non può essere che affermativa, visto che lavoriamo per immettere disordine e sovversione in ogni superficie compatta, scienza regale compresa. Se il pensiero unico del Mercato va distrutto, con altrettanta forza sarebbe ora di disarticolare il pensiero consunto dello Statalismo. Il ministro vuole lo smembramento dei Megatenei per rispondere ad esigenze di efficienza e trasparenza di gestione?

Giusto, tant’è che noi vogliamo lo "smembramento" dello stesso per le medesime ragioni. La nostra è una proposta di Università autonoma, pubblica e federale; perché solo in un contesto di autonomia universitaria è possibile pensare ad un sindacalismo di base, ad uno scenario in cui sia identificabile, di volta in volta, il nemico con cui confrontarsi - Rettore, Preside, Impresa, etc. - e l’amico da cercare intorno a noi - le aree dell’associazionismo e della cooperazione sociale, i centri sociali, etc. -.

La crisi irreversibile del sapere centralizzato rende impossibile a chiunque - noi compresi! - agire e pensare per categorie astratte, universali. La via di una scienza nomade che non diviene mai Stato, la strada del sabotaggio e dell’autovalorizzazione, sono aperte. A noi percorrerle - nel rispetto delle differenze - per unificare e rendere operativo quel General Intellect - Intelligenza collettiva o intellettualità di massa, anch’esso di marxiana memoria - ora disperso nella società.

Quindi:

1. La separazione come metodo dell’agire politico per la riappropriazione di uno spazio pubblico universitario.

2. La lotta contro il numero chiuso per opporsi ad un odioso ed ulteriore meccanismo di segmentazione sociale, e per dimostrare la falsità della divisione tra tempo del lavoro, dello studio, della vita - almeno nella misura in cui tale divisione impedisce alla vita di liberare il lavoro ( e dal lavoro ), ed allo studio ed al lavoro di essere al servizio della vita- .

3. Il diritto al sapere in ogni fase della vita: la costituzione di un fondo per la formazione continua, nucleo di un futuro salario di cittadinanza.

Tutto questo è possibile, se lo vorremo "tous ensemble".