DOSSIER:
LA LIBERTA' E' LA NOSTRA MALATTIA
Presentazione
Il 19 maggio, dopo la risposta del governo ai fatti di Sassari – aumento degli organici della polizia penitenziaria e apertura di nuove prigioni -, i centri sociali napoletani, insieme ad altre realtà dell’autorganizzazione sociale, organizzano una manifestazione e un concerto di solidarietà ai detenuti fuori al carcere di Poggioreale. "Liberiamoci dal carcere" è lo striscione d’apertura. Il popolo dei "dannati della terra" risponde con una battitura delle stoviglie che dura fino a tarda notte: è la prima iniziativa di protesta che parte da un carcere italiano.
Il 26 luglio 2000 a Roma il Comitato Liberiamoci dal carcere di Napoli ha incontrato il vertice dell'amministrazione penitenizaria, il presidente Giancarlo Caselli, per discutere dello stato del sistema penitenizario campano.
La nostra delegazione proveniva da un lavoro attento e continuo su questo tema: sin dalla manifestazione del 19 maggio abbiamo seguito il movimento dei detenuti che, oltre a rivendicare l'amnistia e l'indulto, denunciava le condizioni disumane e il clima di intimidazione vissute all'interno delle nostre carceri (cfr.all. 1,2,3,4). Abbiamo con frequenti visite, lunghe, attente, monitorato il carcere di Poggioreale e quello di Secondigliano, dimostrando al movimento dei detenuti che eravamo, e siamo, in grado di dare voce alle loro aspettative.
Così facendo, pur restando molto più alto il nostro obiettivo, il superamento del carcere come di tutte le istituzioni totali, abbiamo deciso di porre sul tavolo della discussione con Caselli solo quattro punti (cfr.all 2), un insieme minimo di questioni, senza le quali non è possibile pensare ad alcun miglioramento della vita delle persone recluse. Abbiamo chiamato Caselli e con lui tutta l'amministrazione a risponderci su questi punti (violazioni fondamentali, rispetto del regolamento di esecuzione, tutela della salute delle persone tossicodipendenti) perché riteniamo siano cose sulle quali è possibile e doveroso dare, ora e subito, una risposta concreta.
Caselli è il vertice di una macchina che gestisce, tra detenuti e agenti oltre centomila persone. E' lui il responsabile politico-amministrativo del personale dell'amministrazione penitenziaria, agenti inclusi. Se un direttore, come fa quello di Poggioreale, ritiene di potere trattare i detenuti in crisi di astinenza a base di docce fredde, se gli agenti, come fanno quelli di Poggioreale, ritengono di potere imporre ai detenuti regole umilianti e degradanti, se persino l'ora d'aria, come avviene a Poggioreale, si riduce, per motivi a noi oscuri, a poco più di mezz'ora, se tutto questo avviene responsabile, politicamente parlando, è il vertice, e dal vertice siamo andati. Non a chiedere favori, clemenze o indultini, ma il rispetto di un nucleo di diritti fondamentali che accompagna ogni individuo e che non può mai essere leso.
La nostra delegazione è stata per oltre tre ore a discutere con Caselli, a spiegare punto per punto le ragioni ed i motivi del nostro documento, ciascuno dei firmatari ha fatto sentire la propria voce.
Su tutti i punti del nostro documento Giancarlo Caselli ha preso un impegno, ha detto che avrebbe verificato, avrebbe controllato, che se le cose stavano in questo modo avrebbe preso i suoi provvedimenti. Ha detto, e noi lo sapevamo, che esistono specifiche circolari che obbligano i direttori di istituto a garantire ai detenuti il trattamento metadonico, la continuità terapeutica. Speriamo lo sappia anche il direttore di Poggioreale.
Abbiamo dato voce anche ad una cosa risaputa, ma che molti fingono di non sapere, a Poggioreale si cammina mani dietro al schiena ed occhi bassi, perché adesso nessuno potrà continuare a fingere.
Anche su questo Caselli ci assicurato che avrebbe preso i suoi provvedimenti. Noi non viviamo di promesse, siamo tornati a visitare l'istituto e torneremo ancora altre mille volte se sarà necessario.
Adesso però il vertice del sistema penitenziario campano sa che non potrà più nascondersi sotto quella coltre di silenzi ed omertà che ha permesso che tante violenze ed ingiustizie passassero sotto silenzio.
Caselli ci ha infine invitato a non promuovere ulteriori manifestazioni pubbliche, cortei, presidi ai cancelli e quanto potesse alzare la tensione e produrre "dannose" polemiche. Ma il Comitato si è costituito con l’obiettivo di funzionare da osservatorio sulla detenzione ed organismo di controllo dal basso di quanto avviene dentro, proprio a partire da una manifestazione. La cooperazione con i movimenti di lotta e con tutti i soggetti contrari alla riduzione dei conflitti sociali a questione di ordine pubblico, da "risolvere" militarizzando i territori e costruendo nuove carceri, e la promozione di dibattito e pensiero critico sull’istituzione carcere e sui meccanismi di repressione e di controllo in epoca di crociate forcaiole e di tolleraza zero, sono inscindibili dal nostro lavoro di inchiesta.
Il primo dicembre noi torniamo a presidiare Poggioreale e tutte le altre carceri campane, così come altri compagni presidieranno altre carceri in tutta Italia per ricordare che il processo è classista ed il carcere è discarica sociale.
1° dicembre, giornata mondiale di lotta contro l’Aids
LIBERTA’ E’ LA NOSTRA MALATTIA
PERCHE’ DI CARCERE NON SI MUOIA PIU’, MA NEANCHE SI VIVA
Lo smantellamento dei residui di stato sociale e di sanità pubblica, la precarietà diffusa, la criminalizzazione dell’immigrazione e il perdurare di una politica proibizionista sulle sostanze stupefacenti aggravano ed estendono le condizioni di esclusione sociale ed economica che quotidianamente conducono un numero sempre più elevato di proletari ad "affollare" le carceri.
L’istituzione carceraria tenderà sempre più ad essere luogo materiale e modello sociale di contenimento coatto delle diverse e crescenti forme di disagio, comprese quelle attualmente controllate con l’ospedalizzazione. Per questo gli interessi miliardari della sanità penitenziaria difendono con accanimento l’idea di cura intramuraria, impedendo di fatto l’applicazione del recente decreto legislativo 230 che prevede il passaggio delle competenze dal ministero di giustizia a quello della sanità. Il carcere deve essere anche un po’ ospedale, servizio per le tossicodipendenze, reparto psichiatrico, galera per senza fissa dimora ... Sulla carta tutto deve essere disponibile dentro le mura, e per uscire bisogna sottostare a un rigido meccanismo premiale grazie a cui la libertà è concessa in cambio di un forte controllo extramurario (arresti domiciliari, programmi terapeutici coatti, comunità, ...).
In realtà, sebbene non tutti lo dichiarino apertamente, il carcere non solo funziona da "discarica sociale", ma è il luogo deputato, oggi come e più di ieri, all’espiazione dei reati attraverso la sofferenza.
Ma chi ha stabilito che alla sofferenza della detenzione si debba aggiungere quella, a volte fatale, di una malattia non curata? In carcere il diritto alla salute subisce violazioni quotidiane. IN CARCERE MOLTE PERSONE SI AMMALANO, in carcere entrano persone afflitte da cardiopatie, epatite, tubercolosi e altre malattie che durante la detenzione si aggravano.
Il carcere non solo rinchiude la malattia, la tossicodipendenza, il disagio psichico, ma allo stesso tempo li riproduce, alimentando così il business della sanità penitenziaria (centri clinici, reparti sanitari, strutture psichiatriche e per le tossicodipendenze, personale medico e paramedico). Questo apparato, che gode tuttora di una gestione separata dal resto del sistema sanitario nazionale, si giustifica con l’elevata diffusione della malattia in carcere e con la presunta capacità delle strutture penitenziarie di gestire tale situazione. E’ un circolo vizioso che, lungi dal risolvere i problemi delle persone detenute malate, si autoalimenta e contribuisce a rinforzare l’intero sistema carcerario.
Il caso dell'Aids è paradigmatico rispetto all'incompatibilità tra malattia e stato di detenzione: eppure negli ultimi anni, a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale del ’95 che stabiliva l’incostituzionalità della scarcerazione automatica per gravi motivi di salute, le condizioni dei detenuti e delle detenute malate di Aids sono drammaticamente peggiorate.
Il carcere e la sua struttura sanitaria interna non sono infatti in grado di garantire:
Queste persone, indipendentemente dalla durata della condanna, non devono stare in carcere!
Va affermata con forza la possibilità di scarcerazione automatica per motivi di salute. E’ un principio di civiltà che deve precedere le cosiddette "esigenze di sicurezza" e deve avere un valore universale. Se non si introduce un automatismo nella scarcerazione delle persone che, in base a considerazioni mediche, sono giudicate in grave stato di salute, continuerà a vigere l’arbitrarietà che attualmente porta i Tribunali di Sorveglianza e le strutture sanitarie carcerarie a negare la possibilità di curarsi fuori dal carcere. Finchè la decisione sulla scarcerazione spetterà a figure del sistema penitenziario e giudiziario le esigenze di sicurezza continueranno a prevalere su quelle di salute.
IL CARCERE E’ INCOMPATIBILE CON LA MALATTIA!
LA DISCREZIONALITA’ IN MATERIA NON E’ PIU’ TOLLERABILE!
LA SALUTE NON PUO’ ESSERE UN PREMIO!
Anteporre il diritto alla salute significa che le persone detenute devono poter usufruire dello stesso servizio sanitario del resto della cittadinanza, devono potersi recare nelle stesse strutture sanitarie esterne senza interferenze da parte dell'autorità carceraria e giudiziaria sulla scelta del tipo di cura e nel rispetto del loro diritto alla privacy.
E’ necessario ribadire con forza inoltre il diritto alla continuità terapeutica per tutte quelle persone che prima dell'arresto hanno stabilito un rapporto con strutture sanitarie o seguono terapie che necessitano di costante controllo medico: la stessa direttiva emanata da Caselli (dir. DAP) inerente il diritto alla continuità terapeutica dei detenuti tossicodipendenti, infatti, rimane a tutt’oggi inapplicata nella maggioranza delle carceri.
Chiedere la scarcerazione automatica delle persone detenute malate non si limita a essere un’astratta rivendicazione umanitaria, ma è una proposta che va nella direzione di scardinare l’attuale processo di ristrutturazione penitenziaria che intende adeguare l’intero sistema penale a una crescente carcerazione della marginalità sociale: è per questo che COSTITUIREMO UN OSSERVATORIO PERMANENTE SUL DIRITTO ALLA SALUTE PER TUTTI I DETENUTI E LE DETENUTE E ATTIVEREMO CON TUTTI I MEZZI NECESSARI UN CONTROLLO DAL BASSO SUL PASSAGGIO DI COMPETENZE DALLA LOBBY DEI MEDICI PENITENZIARI AI SERVIZI SANITARI TERRITORIALI E SULL’EFFETTIVA ASSUNZIONE DI RESPONSABILITA’ DA PARTE DELLE ASL
Comitato Liberiamoci dal carcere - Napoli/ Liberiamoci del carcere - Roma/ Spazio Antagonista Newroz - Pisa/ CSOA Officina 99/ Lab. Okk.Ska/ Osservatorio sul carcere in Campania/ Redazione Vis 'a Vis/ Mov. Disoccupati autorganizzati - Acerra/ Cobas LSU Acerra/ Com. agitazione I.U.O. - Napoli/ C.S.A. Tempo Rosso - Pignataro Maggiore/ Redazione Infoxoa/ CSOA Forte Prenestino - Roma/ Slai cobas per l'autorganizzazione/ C.S.O.A Depistaggio - Benevento/ Cantieri sociali - Napoli/ C.S. ex canapificio - Caserta/ Ass. "La città invisibile"/ Coll. Antifascista Gramna – Avellino/ C..A.S "Zona d'ombra"/ Coll di lotta metropolitano – Napoli / Comitato "No alla centrale" - Orta di Atella/ Ass. Priscilla/Opera nomadi - Napoli/ PRC Federazione Napoli/ COA Transiti 28 – Milano/ LILA Nazionale/ Ass.Antigone - Napoli/ Ass.Antigone - Verona/ Gruppo Nazionale Persone Sieropositive Anlaids/ ANLAIDS Nazionale
SCHEDE CARCERE E SALUTE
Dal 1° gennaio al 30 settembre 1999 nelle carceri italiane sono stati registrati 9.794 casi di malattie infettive e 5.473 casi di malattie del sistema nervoso. L’Associazione dei medici Penitenziari (Amapi) stima in circa 8.500 i detenuti affetti da epatite. Nel carcere di Napoli Secondigliano su 1200 detenuti presenti i casi di epatite rilevati sono stati 150. Nel 1998 negli istituti di pena italiani sono stati segnalati, inoltre, 250 casi di tubercolosi.
Le condizioni di sovraffollamento degli istituti non consentono alcuna efficace opera di prevenzione della diffusione delle malattie infettive. Nei cameroni del carcere napoletano di Poggioreale si contano fino a 18 persone, con un solo bagno, dove, tra l’altro, ci si cucina anche:
nelle carceri di questo paese ci si ammala.
Nei 15 Centri Clinici penitenziari italiani lo scorso anno sono state ricoverate 5.827 persone. Le due strutture sanitarie carceriarie della città di Napoli da sole hanno assorbito quasi il 30% di questi ricoveri (1.131 a Poggioreale e 458 a Secondigliano). La spesa sostenuta per la gestione di questi due ‘ospedali’ è stata, sempre nel 1999, di 4.588.862.700 lire: la sanità penitenziaria è anche un importante affare.
Al contempo chi nel carcere è gravemente ammalato non riesce a curarsi adeguatamente o ad uscire. Dal 1998 il Ministero di Grazia e Giustizia ha istituito in alcune carceri, come il Centro Penitenziario di Secondigliano, reparti ospedalieri per malati di Aids. Una ricerca sullo stato della sanità penitenziaria condotta dalla Lila ha svelato che la "stragrande maggioranza dei detenuti in fase avanzata della malattia è ristretta nei normali raggi penitenziari e continua a non avere accesso alle nuove terapie anti-Aids". Ma anche per quanti riescono ad arrivare nei reparti ospedalieri carcerari la situazione non migliora di molto. Dal momento in cui viene visitato il tempo medio di attesa per avere disponibili farmaci si aggira intorno ai 30/40 giorni, causando "gravi ripercussioni cliniche per via dell’interruzione o della sospensione della terapia" Nelle carceri italiane, proseguono i ricercatori della Lila, "è possibile procurarsi l’eroina mentre è quasi impossibile procurarsi una siringa pulita; il risultato è scontato: il sistema penitenziario italiano è oggettivamente corresponsabile della diffusione del virus HIV tra la popolazione detenuta". (V. Agnoletto, ‘La società dell’Aids’).
In questa disastrosa situazione per un ammalato di aids detenuto è estremamente difficile ottenere le autorizzazioni per curarsi nelle strutture ospedaliere esterne. Sono tantissimi i casi di persone gravemente ammalate che non riescono ad arrivare alle strutture sanitarie pubbliche perchè la sanità penitenziaria e la magistratura di sorveglianza continuano a certificare che in carcere si è adeguatamente curati. Nelle numerose visite che il Comitato ‘Liberiamoci dal carcere di Napoli’ ha effettuato nei due istituti penitenziari della città (vedi allegati n.1,2,3,4) sono stati tanti i casi di persone in condizioni pietose che non riuscivano ad ottenere dal giudice di sorveglianza l’autorizzazione al ricovero ospedaliero. Segnaliamo, uno tra tutti, il caso di un ragazzo tossicodipendente di 28 anni detenuto nel Centro Clinico di Secondigliano, malato di aids e colpito da un cancro alla gola, al quale era stato prescritto un trattamento chemioterapico urgente, costretto da un provvedimento del Magistrato di Sorveglianza di Napoli a recarsi ogni giorno in ospedale, col furgone blindato e scortato dalla polizia penitenziaria, per poi ritornare in carcere appena finita la terapia.
Il carcere, oltre ad ammalare ed a curare poco e male, si mostra anche decisamente ostinato ad impedire l’esercizio pieno del diritto alla cura.
Probabilmente il business della sanità penitenziaria non è estraneo a questo ‘atteggiamento’ delle autorità penitenziarie (vedi punto C). Le tenaci resistenze che la burocrazia ministeriale sta opponendo al passaggio della medicina penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale sono probabilmente espressione di un forte aggregato di interessi che trova in queste cifre qualche spiegazione:
- stanziamenti per la sanità penitenziaria per il 1999 154 miliardi
- n. dei medici penitenziari incaricati 350
- n. medici di guardia 1.400
- n. medici dei Sert 203
- n. specialisti convenzionati 3.200
- n. infermieri 1.200
Di sanità penitenziaria non solo si muore, ma si vive anche.
B) Tossicodipendenze e carcere
Il 31 dicembre 1999 i tossicodipendenti nelle carceri italiane erano 15.097, circa il 30% della popolazione detenuta. 33.059 reati, ossia il 20% del totale dei reati ascritti alla popolazione detenuta, sono stati commessi in violazione della legge sulla droga. Per converso il numero complessivo di alcool-dipendenti, certificati come tali, è invece irrilevante: 671 detenuti, pari all'1,30% del totale dei detenuti, pur essendo questo fenomeno ancor più diffuso della dipendenza da sostanze stupefacenti. Il principale fattore dell’attuale stato di sovraffollamento delle carceri italiane è oggettivamente la normativa proibizionista sul consumo delle droghe.
Nel corso del 1999 soltanto il 34% delle persone entrate in carcere sono state sottoposte allo screening hiv:1.638 detenuti sono risultati positivi, pari al 3,17% del totale, 1.382 sono tossicodipendenti, cifra corrispondente all'84,37% del totale dei detenuti sieropositivi. Data la parzialità della somministrazione del test probabilmente il numero dei sieropositivi in carcere è almeno tre volte quello che risulta ufficialmente.
La Campania è la seconda regione in Italia per popolazione detenuta; sono circa i 6.000 i detenuti distribuiti per oltre il 60% negli istituti di Poggioreale e di Secondigliano (circa 2.000 nel primo e 1.400 nel secondo). Poggioreale è il carcere di primo ingresso, è l’istituto che chiunque abbia vissuto, anche per un solo giorno, l’esperienza detentiva non può non conoscere. La gran parte delle circa 10.000 persone che ogni anno entrano nelle carceri campane fa l’esperienza del primo carcere di Napoli.
Le visite effettuate dal Comitato Liberiamoci dal carcere di Napoli nei due istituti della città hanno appurato che, di fatto, nel carcere di Poggioreale è praticamente assente l’intervento del Sert per i tossicodipendenti che entrano dalla libertà; che per questi non è previsto l’utilizzo del metadone nel superamento delle crisi di astinenza, pur in presenza di una direttiva del Ministero che impone alle direzioni delle carceri l’uso di questa terapia; che il Direttore del carcere ha dichiarato ufficialmente che nel suo istituto, le crisi di astinenza si affrontano con il cosiddetto ‘lavaggio a secco’, cioè senza alcun sostegno terapico. La ragione di questo ‘indirizzo terapeutico’ sta evidentemente in quella sorta di moralismo trattamentale che molte direzioni di istituti penitenziari di sovente manifestano, senza spiegare, però, perchè questo stesso atteggiamento non viene applicato all’uso degli psicofarmaci in carcere. Una ricerca dell’Associazione Antigone ha infatti rilevato che "gli psicofarmaci sono la categoria di farmaci maggiormente somministrati negli istituti di pena" (in alcuni casi si arriva al 70/80% del totale dei medicamenti somministrati). Questo dato ci è stato confermato anche da alcuni operatori dei servizi pubblici che hanno lamentato l’elevato numero dei tossicodipendenti che escono dal carcere disasseufatti dall’uso dell’eroina ma fortemente dipendenti dagli psicofarmaci, una forma di dipendenza di più difficile rimozione rispetto a quella dipendente dalle droghe criminalizzate.
La situazione non è più esaltante nel carcere di Secondigliano, dove, pur essendo formalmente sulla carta assicurata la presenza del Servizio Tossicodipendenze della Asl, in pratica l’intervento si riduce alla presenza di tre opeatori un solo giorno a settimana che si limitano ad appore un visto di congruità in calce ai programmi di recupero che i tossicodipendenti stessi sono in grado di procurarsi.
A dieci anni dall’approvazione della legge sulle droghe (l. 309/90) che imponeva all’Amministrazione Penitenziaria ed alle Asl di approntare servizi adeguati alle esigenze di sostegno e recupero dei tossicodipendenti detenuti, nelle due maggiori carceri della Campania non c’è alcuna possibilità reale per un detenuto tossicodipendente di mettersi in contatto con un servizio pubblico che dia un aiuto concreto alla sua situazione.
La situazione appare ancora più disastrosa se si osserva la qualità dell’assistenza fornita dagli operatori penitenziari. In un recente documento presentato dagli educatori del carcere di Secondigliano si afferma che
"...a Secondigliano sono in servizio 900 poliziotti penitenziari e 9 educatori (su un organico previsto di venti unità); il rapporto operatore/utente per questi ultimi è di 1 a 170 (essendo due unità impiegate esclusivamente nel ‘raparto verde’). Gli psicologi sono appena 5, assunti con convenzioni che pagano 305 ore mensili di consulenza (circa mezzo minuto al giorno per utente). (vedi allegato n. 5)
La tolleranza zero vale evidentemente solo per chi viola le norme sul consumo delle droghe, non per le istituzioni pubbliche che ignorano l’obbligo di osservanza delle leggi.
Sulla delicata questione del passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale la nostra regione sembra essere destinata, ancora una volta, al ruolo di fanalino di coda dei processi di riforma. Un tavolo di consultazione istituito recentemente tra responsabili della sanità pubblica e rappresentanti dell’Amministrazione penitenziaria è stato più volte disertato da questi ultimi senza alcuna comprensibile spiegazione. In discussione vi è il trasferimento ai Sert, che dovrebbe già essere operativo, dei servizi per le tossicodipendenze attualmente presenti nelle carceri cittadine. I due direttori delle strutture di Secondigliano e Poggioreale non hanno ritenuto finora di doversi confrontare sui problemi riguardanti questo passaggio di consegne.
C) Medicina Penitenziaria
La sanità penitenziaria conta circa 5.000 addetti: 350 medici incaricati; 1.650 medici di guardia; 2.100 medici specialisti; 150 tecnici; 400 infermieri professionali di ruolo; 1.000 infermieri convenzionati puri; 300 infermieri professionali convenzionati con le Asl. La stragrande maggioranza di questo personale è impiegato con rapporto di lavoro convenzionato, cioè con contratti a termine che vengono stipulati con le singole carceri. La selezione di questo personale avviene a livello locale, cioè nei singoli istituti, attraverso una procedura di valutazione di titoli e prova attitudinale effettuata da commissioni presiedute dai direttori delle carceri.
Questo meccanismo di selezione assicura alle direzioni la più assoluta aderenza dei medici e degli infermieri penitenziari alle ragioni della sicurezza, prioritarie rispetto a quelle della cura e prevenzione. La classe dirigente del Dap non ha nessuna intenzione di perdere il controllo su questa parte del personale, e per questa ragione ha cercato di opporsi in tutti i modi, sin dalla fase di avvio del dibattito parlamentare, alle ipotesi di passaggio della medicina penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale. La battaglia che l’ex ministro della Sanità Bindi ha dovuto combattere perché questa legge andasse in porto è stata durissima, ed ha dovuto scontare la fortissima resistenza dei direttori delle carceri, dei titolari degli uffici centrali che gestiscono il personale, ed anche dell’associazione dei medici penitenziari.
Nel 1998, in occasione dell’approvazione al Senato di questa legge, l’associazione dei medici carcerari mise in scena una fortissima protesta. Il presidente dell’associazione dei medici penitenziari (Anapi), Ceraudo, si incatenò fuori dal carcere di Rebibbia per protesta contro la nuova legge.
Soltanto nel luglio 1999 un decreto legislativo stabilisce il passaggio della medicina penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, rimandando la concreta attuazione alla emanazione dei relativi decreti (d. lgs. N. 230, del 22.7.1999). Attualmente, come soluzione compromissoria allo scontro tra Sanità e Penitenziari, la riforma è in una fase di sperimentazione attuata su tre regioni, alla fine della quale dovrebbe avvenire il concreto passaggio.
Secondo la Cisl, che sostiene la battaglia corporativa di Ceraudo, "il compito di un medico penitenziario non è solo quello della prevenzione, diagnosi e cura, dell’’accertamento delle patologie esistenti, ma è anche quello della dimostrazione dell’inesistenza di alcune patologie…"; ed ancora "ciò che differenzia l’operato del medico penitenziario da quello di un medico del S.S.N. è la sua maggiore conoscenza della vita del penitenziario… che risulta indispensabile per assistere i detenuti e comprendere l’attività della Polizia Penitenziaria e le sue problematiche".
Allegato 1
Le prime visite a Poggioreale del Comitato Liberiamoci dal carcere
Napoli, 19 maggio 2000. I centri sociali e diverse realtà dell’autorganizzazione sociale e dell’antagonismo campano, organizzano un corteo che arriva al carcere di Poggioreale ed un concerto nella piazza adiacente alla casa circondariale: "Liberiamoci dal carcere" è lo striscione d’apertura.
Alle 17.30 una delegazione guidata da una parlamentare entra nell’inferno di Poggioreale. Uscirà 5 ore dopo.
Napoli, 23 maggio 2000, la medesima delegazione guidata dalla parlamentare ritorna in visita all’istituto penitenziario.
Cosa abbiamo visto
Diciassette persone rinchiuse in una cella di 5 metri per 4. Letti a castello fino al soffitto disposti in maniera tale da non poter neanche chiudere le finestre senza spostarli. Un solo bagno che funge anche da cucina, con fornellini, pentole e stoviglie accantonate negli stessi lavandini dove ci si lava.
L’acqua corrente scorre costantemente attraverso un rudimentale imbuto costruito dagli stessi detenuti per mantenere in fresco le bevande. Sette, otto persone rinchiuse in celle ancora più piccole dove si sta in piedi solo a turni di tre. Nelle celle in cui sono rinchiusi due detenuti la situazione non è migliore: lo spazio è quello di uno "sgabuzzino" privo di qualunque divisione tra gli annessi sanitari e il resto della cella. Tutti i bagni sono privi di acqua calda, di bidet o di lavapiedi, versano in condizioni strutturali e igieniche pietose, certamente non per disattenzione degli stessi detenuti che anzi ci sono sembrati molto attenti alla pulizia. Tutela della privacy: zero. Docce sporche e fatiscenti, di cui i detenuti possono usufruire solo due volte a settimana, a meno che questo loro diritto non combaci con la giornata di colloquio o di udienza, caso in cui automaticamente lo perdono. Tavoli rotti, che i detenuti appoggiano sulle ginocchia al momento del pranzo e della cena, sgabelli sgangherati più volte riparati con materiali di fortuna. Con dei pezzi di cartone hanno costruito pure un mazzo di carte da gioco.
Un caldo torrido, e siamo ancora a maggio, ma immaginiamo sicuramente un gelido inverno, visto che un intero reparto è privo di riscaldamento e nessuno dei reparti visti è dotato di asciugacapelli. Un anziano, con una gamba rotta, si lamenta steso sulla branda. In un’altra cella un ragazzo poco più che ventenne caduto dal letto a castello presenta un rigonfimento ad una gamba che trascina faticosamente. In un’altra ancora un ragazzo steso su una branda al centro di una cella che aspettava da ore la visita di un medico, dopo aver compilato una delle tante domandine depositate nella scatola di cartone (quella dello zucchero) appesa fuori alle grate della cella. Ad ora di pranzo e di cena la branda dell’ammalato viene spostata verso il cancello d’ingresso della stanza per lasciare posto ai tavolini in legno dove una decina di persone consumano il loro pasto.
Uno stato di abbandono delle persone alla perenne immobilità dei loro corpi ed alla più totale alienazione: 22 ore reclusi in queste condizioni e solo scarse due ore d’aria al giorno in passeggi angusti, nessun altro spazio a disposizione che non sia la cella, nessuno dei detenuti con cui abbiamo parlato che svolga attività lavorativa, scolastica o formativa e, tra questi, vi sono persone recluse in tali condizioni da anni.
Stranieri in condizioni ancora più disagiate degli italiani perchè ghettizzati in affollatissime celle comuni in cui il disagio è acuito dalle differenze culturali e principalmente linguistiche: sono assenti figure di interpreti e di mediatori culturali. Ma anche la difesa legale è quasi totalemte assente. Per gli immigrati, come del resto per tutti quelli che non hanno famiglia, la vita in carcere diviene ancora più intollerabile: è sulle famiglie che pesa, infatti, la responsabilità della difesa legale, dell’appoggio affettivo, materiale ed anche e soprattutto economico ai detenuti. Ma nessun sussidio è previsto per le tante persone, straniere e non, che non hanno famiglia o hanno la famiglia lontano.
Persone malate, anche gravemente, che necessiterebbero di adeguate strutture sanitarie e di adeguata assistenza, detenute invece in cella, e lasciate innumerevoli giorni ad attender visite specialistiche.
Persone immobili, in piedi, con le mani dietro la schiena e le gambe leggermente aperte... è una posizione da assumere durante la conta mattutina e serale, ma la forza dell’abitudine li costringe ad assumerla anche mentre parlano con noi. Ma quale norma penitenziaria prevede che i detenuti durante la conta notturna si debbono alzare in piedi, vestiti, e che debbono assumere questa posizione altrimenti possono incorrere in sanzioni disciplinari?
Su tutto questo troneggia in una bacheca che si intravede dallo spioncino del blindato un avviso di servizio alla popolazione detenuta: "è severamente vietato uscire dalla cella e recarsi a passeggio indossando pantaloncini corti". L’improbabile decoro che questa allucinante prescrizione cerca di assicurare è forse l’oltraggio più allucinante che si può perpetrare agli uomini che vivono nell’inferno del carcere di Poggioreale.
Alle 18.30 il corteo arriva davanti al carcere. Immediatamente dai vari padiglioni si leva la rabbia dei detenuti: battitura delle stoviglie sulle grate delle finestre, cori di protesta si levano dalle sezioni.
Cosa abbiamo ascoltato
La protesta si diffonde da un padiglione all’altro; si interrompe quando circola la voce che c’è una commissione in visita al carcere, per riprendere immediatamente quando lasciamo la sezione. Entriamo nelle sezioni accolti dagli inviti dei detenuti a visitare le loro celle. Hanno paura i detenuti di Poggioreale, hanno paura eppure in molti non smettono di ripetere, sotto lo sguardo attento di un ispettore e del vicedirettore, che a Poggioreale si rischia il pestaggio semplicemente per aver steso alla finestra un asciugamano, o per non aver abbassato lo sguardo e portato le mani dietro la schiena alla vista di un agente nei corridoi, o perché si è chiamato più di una volta l’intervento di un medico, o perchè non ci si fa trovare in piedi e sull’attenti, con le spalle al muro, alla conta mattutina, perché si è in astinenza e ci si lamenta a voce alta.
Ci invitano a visitare i reparti di isolamento e l’infermeria. Ci dicono ad alta voce i loro nomi e ci chiedono di scriverli, anzi, di ritornare a vedere se nel frattempo gli succede qualcosa… Ci dicono i soprannomi degli agenti che mantengono la sicurezza e la disciplina nelle forme e nei modi più brutali. Basti pensare all’utilizzo, quali surrogati di metadone e valium, di bastoni chiamati per l’appunto "metadone" e "valium". Oppure dell’applicazione, dopo percosse e isolamento, del "trattamento psichiatrico".
I detenuti sanno che per legge avrebbero diritto a 4 ore d’aria al giorno: a Poggioreale il tempo trascorso nel passeggio si riduce a meno di un’ora al giorno. Denunciano che le domandine vengono strappate, che "le scarpe non entrano" e che sono costretti a comprarle all’interno a prezzi triplicati, che prima di un colloquio i familiari sono costretti a estenuanti attese addirittura di 6/8 ore. Che "la Gozzini e la Simeoni non vengono applicate". Tutti fanno domanda per "partire" (da Poggioreale) e per lavorare: nessuna risposta.
Detenuti che scontano pene definitive accanto a ragazzi appena arrestati; sieropositivi e malati di epatite C che convivono in celle collettive che arrivano fino a venti persone; visite mediche specialistiche che arrivano anche dopo quattro mesi; medicine che non ci sono e medici che non entrano da anni nelle ‘corsie’. Un ragazzo ci consegna una lettera dove scrive frettolosamente: "vogliamo educatori, non manovratori". Psicologi, assistenti sociali, educatori: figure sconosciute alla maggior parte dei detenuti di Poggioreale. Del resto, i pochi operatori presenti quasi mai hanno la forza di denunciare pubblicamente quello che vedono e che sentono: "Qui se hai qualcosa da dire o da chiedere puoi soltanto sperare in un compagno che è meno disperato di te".
"Poggioreale è un lager", concludono.
Dall’esterno arrivano gli echi della musica, le voci dei cantanti, i saluti dei familiari; la battitura delle sbarre si armonizza con i ritmi dei gruppi che si alternano sul palco.
Siamo al Padiglione Avellino. La vice direttrice e il vice comandante delle guardie sono la nostra ombra. Si avvicina un ispettore e bisbiglia che al Napoli c’è una rivolta. Ci chiedono di uscire per motivi di sicurezza, ma noi siamo determinati ad andare proprio al Padiglione Napoli. Dopo una concitata contrattazione acconsentono a portarci al padiglione ‘in rivolta’. Quando entriamo nella rotonda che affaccia sui quattro piani di celle, separati da grate di ferro a maglie fitte, il rumore è assordante. Le battiture si accompagnano a cori di proteste che si confondono con le grida dei detenuti che si chiamano da un piano all’altro. C’è grande agitazione e gli agenti sono seriamente preoccupati. Ci vengono incontro quattro detenuti in rappresentanza dei quattro piani del padiglione. Improvvisamente si fermano le grida e i rumori delle pentole: i detenuti del Napoli vogliono parlare con noi.
Alle 22.30 la delegazione lascia il carcere e raggiunge i manifestanti a piazzale Cenni. Il concerto, i saluti, le battiture, gli accendini accesi nel buio, la rabbia, la commozione dei familiari, degli amici, dei tanti giovanissimi in piazza dalle 16.00, il ponte ideale dentro-fuori, invece, durano fino a notte.
Torniamo a Poggioreale
Napoli, 23 maggio 2000, alle ore 15,30 torna all’istituto la stessa delegazione guidata dalla parlamentare. Uscirà dopo 4 ore.
Questa volta, spinti dalle denunce dei detenuti, si decide di tornare nei due reparti già visitati, il Napoli e l’Avellino, di visitare un altro reparto, il Firenze, e di visitare il piano terra del reparto Genova ed il reparto Osservazione annesso Avellino, cioè i due reparti in cui vengono ristretti i detenuti in isolamento dalle attività in comune sia per motivi disciplinari che sanitari.
Nei due reparti già visitati nulla di nuovo emerge, anzi, le persone malate in attesa di visita o di essere trasferite in strutture più consone alle loro condizioni di salute, sono sempre lì, nelle celle dove le abbiamo incontrate durante la scorsa visita. Nessun medico si è visto, ma, per fortuna, anche nessuna ritorsione su i detenuti è avvenuta a causa della rivolta del 19 maggio scorso. La cosa non ci stupisce né ci rassicura molto dato l’atteggiamento assunto dalla polizia penitenziaria dopo i fatti di Sassari; in altri periodi alcuni di quei detenuti li avremmo ritrovati in ben altri reparti. Sicuramente anche l’atteggiamento assunto dai detenuti oggi è un po' diverso da quello di venerdì scorso, la rivolta dei vari reparti li aveva resi più forti e determinati nelle loro denunce.
"Non chiediamo la libertà" dicono, chiedono il rispetto dei loro diritti, non chiedono di non scontare la pena ma denunciano che la detenzione a Poggioreale si traduce in condizioni di vita inumane e degradanti.
Noi ci chiediamo come è possibile tenere delle persone recluse in questo modo, come avviene anche nel padiglione Firenze di Poggioreale, in cui le condizioni igieniche sono pessime, quelle sanitarie ancora di più, in cui non è consentito ai detenuti neanche di andare in bagno tutelando la loro privacy poichè non vi sono divisori tra la zona lavandino ed il wc, come non è consentito tutelare la propria salute (bene costituzionalmente garantito) visto che si viene reclusi insieme a soggetti affetti dalle più svariate malattie, in cui anche i detenuti sieropositivi, il cui stato di salute è incompatibile con la detenzione, vengono reclusi insieme agli altri, in cui infine le condizioni strutturali rendono oggettivamente le condizioni di vita inumane e degradanti per chiunque.
Ma con più forza chiediamo quale sia la norma dell’Ordinamento penitenziario che prevede che i detenuti in isolamento dalle attività in comune per motivi disciplinari o sanitari vengano reclusi in celle piccolissime, fatiscenti, in condizioni igieniche pessime e nella maggioranza dei casi prive di arredo tranne che di una branda sporca (c.d. celle lisce), come si incontrano all’isolamento del Genova o all’ Osservazione annesso all’Avellino?? Nessun motivo può giustificare le condizioni disumane di totale abbandono sporcizia ed incuria in cui abbiamo visto vivere i detenuti ristretti nei due citati padiglioni, nè quello disciplinare nè quello sanitario. Non si può pensare che il sovraffollamento possa giustificare la detenzione di un soggetto malato di mente o affetto da scabbia in tali reparti e non in delle infermerie, nè si può pensare che un soggetto che per disperazione abbia compiuto atti di autolesionismo in tali condizioni veramente sconfortanti non trovi il modo di ripeterlo.
Per quanto ci riguarda da questo momento in poi ci organizzeremo per attivare un presidio di controllo democratico sul regime disciplinare applicato nel carcere e sulle condizioni di vita quotidiane dei reclusi. Una commissione permanente di consiglieri regionali e parlamentari visiterà regolarmente la struttura per verificare il rispetto delle norme minime di sopravvivenza, perché purtroppo di questo si tratta. Chiediamo che la magistratura di sorveglianza eserciti con impegno il compito di vigilanza sulla legalità delle condizioni di detenzione che la legge penitenziaria gli affida; chiediamo che il Provveditore Regionale, i cui uffici sono ubicati nel perimetro del carcere, eserciti appieno i suoi compiti di indirizzo e vigilanza sulla rispondenza alla legge dell’operato dei suoi sottoposti.
Comitato Liberiamoci dal carcere di Napoli
Allegato 2
La visita del 2 giugno e i "quattro punti"
2 Giugno 2000: il Comitato Liberiamoci dal carcere, i promotori dei Cantieri sociali di Napoli e Rifondazione Comunista organizzano un nuova visita nel carcere di Poggioreale, che conferma per l’ennesima volta le condizioni di sofferenza e umiliazione nelle quali si trovano i detenuti, condizioni inimmaginabili per quanti non hanno la possibilità di verificarle con i propri occhi.
Alla delegazione partecipa Vittorio Agnoletto, medico e presidente della L.I.L.A., che denuncia in particolare la situazione dei detenuti sieropositivi e tossicodipendenti: nessuna continuità terapeutica, nessuna assistenza, nessuna volontà da parte del direttore Acerra di affrontare una questione secondo lui non urgente. Mai un’overdose nel "suo" carcere, e quindi niente metadone, ormai "superato"…(superato dunque dai bastoni chiamati "metadone" e "valium"? dalle docce fredde? dall’isolamento "terapeutico"? dalla massiccia somministrazione di psicofarmaci?…)
Il giorno dopo l’intera assemblea dei Cantieri Sociali, con le associazioni di volontariato, gli operatori, i soggetti sociali presenti, sottoscrive il seguente documento e la piattaforma di "sopravvivenza", presentati dal Comitato Liberiamoci dal carcere e dal cartello promotore della manifestazione del 19 maggio, sul caso Poggioreale.
I fatti di Sassari rischiano di far precipitare la situazione nelle carceri. Non è possibile che dopo lo scalpore e l’indignazione che il pestaggio ha suscitato nell’opinione pubblica i sindacati della polizia penitenziaria siano riusciti a tradurre in un loro vantaggio quello che è accaduto. Non è possibile che dopo l’arresto per il maltrattamento di 80 agenti, del loro comandante, del direttore e del Provveditore il governo abbia risposto con l’aumento dell’organico della polizia penitenziaria.
Ma in effetti di fronte alle condizioni attuali di sovraffollamento la scelta si pone tra il diminuire la popolazione detenuta (indulto/amnistia) o rendere le carceri più capienti (edilizia penitenziaria, rafforzamento della sorveglianza), e in un clima di tolleranza zero anche i fatti di Sassari possono essere utilizzati per rafforzare la tendenza all’ampliamento del circuito carcerario.
Quelle manifestazioni degli agenti fuori dalle carceri italiane e lo sciopero in bianco che hanno proclamato rimangono comunque una provocazione intollerabile. Prima gli scioperi dei direttori, che hanno bloccato i colloqui, le telefonate, gli acquisti dei generi alimentari; poi il pestaggio di Sassari; e per finire le proteste dei poliziotti penitenziari, come se fossero stati loro a subire i pugni in faccia e i calci nell’addome, proteste che ancora una volta sono ricadute e continuano a ricadere sulle famiglie in visita, costrette ad umilianti perquisizioni, sulle ore di passeggio, ridotte a fugaci boccate d’aria, sui pacchi che non vengono consegnati e le mille richieste non autorizzate.
Venerdì 19 maggio si è svolta una manifestazione fuori il carcere di Poggioreale, dalla cui esperienza è nato il Comitato ‘Liberiamoci dal carcere’. Una delegazione di questo corteo in visita all’interno dell’istituto ha potuto verificare che le condizioni di vita dei detenuti sono indegne.
L’angustia degli spazi e il sovraffollamento sono un problema serio ma troppo spesso usato come alibi per una situazione di abbandono, incuria, indifferenza e abbrutimento che lanciano un preciso atto d’accusa verso la direzione del carcere e coloro che sono preposti a vigilare e controllare gli istituti penitenziari. Le responsabilità della magistratura di sorveglianza e del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria sono altrettanto gravi di quelle del direttore dell’istituto.
Il clima di violenza e sopraffazione che si respira dentro è ormai insostenibile. Le denunce di maltrattamenti e di intimidazioni che i detenuti hanno affidato alla delegazione sono state precise e circostanziate, pronunciate senza timori reverenziali alla presenza del vicedirettore del carcere e degli agenti di polizia penitenziaria che l’accompagnavano.
Nel carcere di Poggioreale c’è una sistematica violazione del già affittivo ordinamento penitenziario, una evidente indifferenza della direzione verso le condizioni drammatiche di vita dei reclusi, un’assoluta mancanza di volontà di affrontare la situazione con una logica che non sia quella della repressione e del rigore disciplinare.
Il due giugno i promotori di quella manifestazione insieme ai promotori del Cantiere sociale di Napoli, da sempre impegnati sul fronte delle politiche della reclusione hanno effettuato una nuova visita nel carcere di Poggioreale. Questa visita ha nuovamente evidenziato i problemi già sollevati da detenuti alla prima delegazione, confermando che le condizioni detentive all’interno del più grande istituto campano sono ormai insostenibili.
Noi mettiamo in discussione la necessità stessa dell’istituzione carceraria, ma in questa condizione drammatica si tratta di ristabilire al più presto le condizioni di vivibilità minime che rendano l’esistenza dei reclusi meno insopportabili. Per questo intendiamo partire dai seguenti, elementari, punti, e su questo intendiamo tra un mese verificare la reale attuazione all’interno del carcere di Poggioreale delle seguenti richieste:
1-Diritto all’ora d’aria
In una situazione dove in una singola cella sono stipate fino a 20 persone è assolutamente indispensabile che venga assicurato questo diritto elementare stabilito dall’ordinamento penitenziario; le quattro ore di aria quotidiane. Attualmente a Poggioreale l’ora d’aria può durare anche solo 45 minuti. Non c’è carenza di organici della polizia o agitate ragioni di sicurezza che tengano: questo diritto elementare di ogni prigioniero deve essere assicurato.
2-Diritto alla tutela della salute
Chiediamo che i principi costituzionali del diritto alla tutela della salute valgano anche per quel pezzo di territorio chiamato Poggioreale, e che vengano utilizzate tutte le misure alternative alla reclusione affinché i malati, i tossicodipendenti, i sieropositivi, escano dal carcere. Ricordiamo ai responsabili della struttura che un muro di cinta non sottrae quello spazio alla sovranità della leggi. Diritto alla salute significa diritto alla cura e alla prevenzione delle malattie, significa predisporre tutte le cautele e le precauzioni affinché non si diffondano malattie a gravi, non costringere venti persone ad usare un solo cesso, o a cucinare nei lavandini dove ci si lava, o ad aspettare fino a 4 mesi la visita di una medico
3-Diritto al colloquio per i detenuti e i familiari
Per fare un colloquio a Poggioreale si aspetta fino a 8 ore, in stanze sporche e in stato di abbandono, senza neanche la possibilità di sedersi.
4-Rispetto della persona
Il clima di paura che si respira a Poggioreale non può essere assolutamente più tollerato. Per quanto ci riguarda da questo momento in poi ci organizzeremo per attivare un presidio di controllo democratico sul regime disciplinare applicato nel carcere. Una commissione permanente di consiglieri regionali e parlamentari visiterà regolarmente la struttura per verificare il rispetto delle norme minime di sopravvivenza, perché purtroppo di questo si tratta. Chiediamo che la magistratura di sorveglianza eserciti con impegno il compito di vigilanza sulla legalità delle condizioni di detenzione che la legge penitenziaria gli affida; chiediamo che il Provveditore regionale, i cui uffici sono ubicati nel perimetro del carcere, eserciti appieno i suoi compiti di indirizzo e vigilanza sulla rispondenza alla legge dell’operato dei suoi sottoposti.
Allegato 3
14 agosto 2000:Visita al carcere di Secondigliano
Lunedì 14 agosto ci siamo recati in visita presso l’Istituto penitenziario di Secondigliano (Na) . L’Istituto pensato per 730 persone ospita attualmente 1300 detenuti. Il carcere seppur di recente costruzione (1991) è stato oggetto di due inchieste della magistratura su presunti maltrattamenti da parte della polizia penitenziaria nei confronti dei reclusi. Da una di queste inchieste è nato un processo che vede attualmente imputati 20 agenti di polizia penitenziaria con l’accusa di maltrattamenti, sono dieci i detenuti parte lesa.
La nostra visita è cominciata dall’accettazione, nella quale oggi non troviamo solo i detenuti "in transito" verso altre sezioni, ma detenuti accolti stabilmente in quest’area dell’Istituto a causa del sovraffollamento.
E’ proseguita poi con il Centro Clinico. Su più di cento detenuti oltre un terzo (35) affetti da HIV. Le loro storie si somigliano, passato da tossicodipendente, piccoli reati, la scoperta della malattia (spesso fatta durante la detenzione). Abbiamo riscontrato la evidente incompatibilità di alcune patologie con lo stato di detenzione. Tra gli altri M.C affetto da HIV, costretto alla sedia a rotelle, L.M. costretto a letto da una violenta asma, entrato in carcere diciottenne, in sciopero della fame da oltre una settimana, gli manca un anno al fine pena e vorrebbe potere scontare fuori quest’ultimo anno di pena. In molti casi le condizione di salute dei detenuti affetti da Hiv sembrano incompatibili, ma il tribunale di sorveglianza non sembra pensare allo stesso modo. Nonostante ci sia in alcuni casi il parere favorevole degli stessi medici del centro clinico, il tribunale rigetta le istanze di incompatibilità, affidandosi ad un’interpretazione restrittiva della legge su Hiv e carcere (231/99).
Notiamo che comunque dopo questi mesi trascorsi in un clima di forte tensione dovuto alla aspettativa di un provvedimento di amnistia, i detenuti i sfiduciati, sono tornati alla "normalità carceraria". Cessato il clamore delle prime pagine il carcere torna alla sua quotidianità, ma c’è poco da essere soddisfatti. La normalità di Secondigliano è, a nostro parere, ben fotografata dal documento che gli educatori dell’istituto hanno letto al presidente Gian Carlo Caselli. E’ una lettera che esprime con chiarezza il senso di impotenza di chi ogni giorno si trova ad avere a che fare con una realtà che, nonostante ogni sforzo sembra immodificabile. Scrivono gli educatori "A Secondigliano sono in servizio 900 poliziotti penitenziari e 9 educatori (su un organico previsto di venti unità); il rapporto operatore/utente per questi ultimi è di 1 a 170 (essendo due unità impiegate esclusivamente nel ‘reparto verde’). Gli psicologi sono appena 5, assunti con convenzioni che pagano 305 ore mensili di consulenza (circa mezzo minuto al giorno per utente). I detenuti con posizione giuridica di definitivo, quelli per cui la legge impone di attivare la cosiddetta osservazione scientifica della personalità, sono quasi 900. L’ufficio educatori di Secondigliano nel 1999 ha ‘prodotto’ 6.073 relazioni di osservazione, 350 consigli di disciplina, 11.120 colloqui individuali. Oltre l’80% del tempo di lavoro di un educatore di Secondigliano è stato speso nell’espletamento di queste tre sole mansioni.
Per le richieste di intervento e di aiuto, tragicamente rappresentate dall’esplosione dei suicidi e degli autolesionismi, le domande di formazione ed orientamento, le aspettative di fuoriuscita anticipata dal carcere, le esigenze di informazione e ‘tutela legale’, i bisogni di assistenza sociale e sostegno alla dismissione, le necessità della programmazione dell’offerta di servizi e la conseguente valutazione della loro efficacia, le proposte culturali, di ricreazione e sport, il coordinamento degli interventi dei volontari e delle associazioni culturali, la cura degli interventi terapeutici-trattamentali, il raccordo con il servizio sociale penitenziario e con gli altri operatori del carcere, la mediazione culturale per gli stranieri, il sostegno per gli ammalati e per chi è in difficoltà a vivere, per tutto questo Secondigliano può garantire al momento meno di un’ora al giorno del tempo di lavoro di un educatore, a cui si aggiunge il mezzo minuto/utente degli psicologi.
Gli educatori di Secondigliano comunicano che non sono in grado di garantire null’altro oltre il formale adempimento delle richieste di relazioni che provengono dalla Magistratura di Sorveglianza, l’espletamento dei colloqui chiesti dai detenuti, lo svolgimento dei consigli di disciplina e gli interventi di sostegno verso coloro che si autolesionano o tentano il suicidio. Per il resto, non possiamo assicurare nessuna fattiva collaborazione"
Questo documento fotografa non solo Secondigliano ma la realtà peniteniziaria italiana. Dal 1990 ad oggi si è assistito ad un’ impennata dell’utilizzo dello strumento penale come risolutore di conflitti sociali. Nel corso di dieci anni il numero di reclusi è più che raddoppiato passando dalle 25.000 alle 54.000 presenze. Oltre un terzo di queste presenze è composto da immigrati e tossicodipendenti. Il numero di appartenenti alla criminalità organizzata non supera le 8000 persone. Il carcere è oggi discarica sociale osserva il presidente del Dap Caselli. Il carcere, aggiungiamo noi, è la misura di quanto sia classista in Italia il processo penale, di come i numeri tristemente smentiscano ogni ipotesi di uguaglianza sostanziale di fronte alla legge. Si tratta ora di pensare a modelli sociali che riducano l’utilizzo dello strumento penale per la risoluzione dei conflitti sociali, di modificare quell’intero apparato legislativo che ha di fatto condannato tossicodipendenti e immigrati a un perenne circuito di illegalità, si tratta di ricostruire, a partire da queste migliaia di vite recluse, una libertà che appartenga a ciascuno di noi.
Comitato Liberiamoci dal carcere di Napoli, Franco Maranta - capogruppo Regione Campania (Prc), Antigone Napoli
Allegato 4
29 SET. 2000, A "PASSEGGIO" PER LE CELLE DEL CARCERE DI POGGIOREALE: STORIE DI ORDINARIA BARBARIE
Alle 15.45 di ieri 29 settembre una delegazione formata da Mara Malavenda, parlamentare di Slai cobas per l'autorganizzazione, da Officina 99/L.O.S.K.A. e dall'Osservatorio sulla detenzione in Campania, tutti appartenenti al Comitato Liberiamoci dal carcere, varca la soglia della discarica sociale di Poggioreale.
E' l’ennesima visita organizzata dal Comitato in carcere: questa volta decide di entrare dopo aver avuto notizie di percosse nei sotterranei di Poggioreale luogo preposto all"accettazione" delle matricole, i nuovi arrivati.
Siamo conosciuti a Poggioreale, per la natura delle nostre visite e per la modalità in cui avvengono:
entriamo all'improvviso, questo grazie alla presenza di un parlamentare o di un consigliere regionale, e le nostre visite assumono il carattere della pedanteria per le guardie e il direttore perché durano almeno tre ore e sono minuziose.
Il direttore ci riceve con un'aria greve e preoccupata - sappiamo che le nostre precedenti visite, le innumerevoli manifestazioni sotto i cancelli e l'incontro che il Comitato ha avuto con Caselli il 26 luglio ha prodotto un po' di destabilizzazione ai vertici di quello che, come sosteniamo anche nel dossier autoprodotto "Da Sassari a Poggioreale e viceversa", rappresenta uno dei luoghi-simbolo della gestione della politica penitenziaria in Italia: l’inferno di Poggioreale, appunto.
Veniamo accompagnati dal vicecomandante, dal direttore, da un altro funzionario e da varie guardie, chiediamo subito di andare all'accettazione. Scendiamo giù, un corridoio lungo pochi metri con 4, 5 celle con le grate fitte che non permettono di visualizzare chi c'è dentro. 8, 9 detenuti con le facce da ragazzini, età media 24. Purtroppo arriviamo al momento di una perquisa e non vediamo altro.
Ci spostiamo e andiamo a visitare il reparto osservazione del padiglione Avellino. Un reparto anomalo, dove vengono detenuti in celle cosiddette lisce (solo con una branda) i detenuti che presentano disagi psichici e quelli che "danno fastidio". Prima di entrare sentiamo delle urla. Il direttore con un sorriso beffardo ci dice "Sì, lo stanno torturando, entrate, entrate". Le provocazioni sono continue ma non ci smuovono. Ad urlare un ragazzo che chiede di tornare a casa: è chiaramente in crisi, ci dice che è in carcere per aver rubato delle schede telefoniche. Nel reparto non c'è lo psichiatra, nè tantomeno uno psicologo.
In una cella un altro ragazzo che soffre di crisi depressive ha il corpo pieno di ferite da taglio. Ci racconta che si è procurato le ferite con una pietra tagliente, vuole andare via. Ha fatto una rapina, prima faceva il barista, per le troppe crisi depressive ha perso il lavoro. Il direttore improvvisa un atteggiamento paterno. Ci spostiamo al padiglione Avellino e cominciamo a vistare le celle ad una ad una.
La situazione complessiva è rimasta invariata: i prigionieri sono tutti molto incazzati, sia per le aspettative disattese di amnistia e/o indulto, sia per la mancata attuazione del nuovo regolamento penitenziario.
Poggioreale è una fogna: il sovraffollamento è solo l'aspetto più eclatante - continuano ad essere più di 16 i detenuti nelle celle, continuano a non avere diritti quali la visita medica (se c'è più di un malato in una cella è grazie alla solidarietà dei detenuti che si sceglie chi ha la priorità di una visita), continuano ad esserci malati gravi nelle celle (abbiamo visto trapiantati, cardiopatici e persone operate da pochi giorni restare in carcere senza alcuna tutela della loro salute). Ma soprattutto continuano le vessazioni, le umiliazioni: appena entriamo i detenuti sono tutti in piedi, occhi bassi, gambe aperte e braccia dietro la schiena, li invitamo a stare più rilassati: ci confermano che questa è la regola. Il vicecomandante delle guardie che non ci risparmia mai le sue infelici e provocatorie battute ci dice "Fanno così quando vedono le donne".
Alcuni ci dicono, a bassa voce, che non possono parlare. Hanno paura di essere percossi dalle guardie dopo la nostra visita. Altri, nonostante la presenza delle guardie e del direttore ci denunciano che alla richiesta di una visita medica o di medicinali vengono minacciati di essere picchiati.
L'impressione che ci ha fatto quest'ulteriore viaggio nel lager di Poggioreale è che poco sia cambiato. E' nostra intenzione ritornare da Caselli, come gli annunciammo circa due mesi fa, e fare in modo di incontrare il ministro Fassino affinché le richieste dei detenuti di Poggioreale non vengano disattese. La vertenza Poggioreale assume infatti un significato particolare - anche in questo momento dove vecchi e nuovi avvoltoi sono pronti a speculare nuovamente sulla pelle dei detenuti.
Comitato Liberiamoci dal carcere
Allegato 5
Lettera aperta al Direttore Generale del Dap dell’Ufficio educatori del Centro Penitenziario di Secondigliano
1 - I progettisti del carcere di Secondigliano hanno consegnato all’Amministrazione Penitenziaria un istituto pensato per 732 posti letto. Gli spazi per i servizi, le attività, i colloqui con i familiari, gli ambienti per la socialità, i cortili dell’aria, le strutture sportive sono evidentemente stati dimensionati su questa quota di progettazione. I detenuti ospitati a Secondigliano sono oggi oltre 1300; a questi si aggiungono 150 semiliberi. Successivamente all’apertura dell’Istituto la capienza tollerabile è stata fissata a quota 1440. Non abbiamo mai trovato in alcun documento ufficiale del Dap indicazioni sui criteri con cui è stata definita la tollerabilità dell’affollamento, nè, soprattutto, per chi quella capienza è ritenuta sopportabile. Di sicuro non certo per chi ci deve vivere e pernottare.
Detenuti comuni ed esponenti della criminalità organizzata, giovani alla prima esperienza detentiva e recidivi di lungo corso, due sezioni per i 41bis e due per i collaboratori di giustizia, un padiglione per l’alta sicurezza ed una struttura a custodia attenuata con 180 persone, tossicodipendenti, immigrati, nomadi, siropositivi e ammalati di Aids, un centro clinico con oltre 100 ricoverati, gente con forti sofferenze psichiche ed una marea di senza tetto nè legge, poveri che provengono dai bronks delle metropoli e marginali in fuga dalle periferie dell’occidente ricco.
Ecco, questo è il carcere di Secondigliano, questo è il carcere italiano degli anni novanta, il carcere esploso sotto l’onda d’urto delle infinite emergenze criminali dell’ultimo decennio. Nelle prigioni italiane gli esponenti del crimine organizzato non superano le 8.000 unità, i tangentisti si contano sulle dita di una mano. Dietro il clamore di questa stagione politico-giudiziaria si è consumato il più grande processo di incarcerazione che la storia contemporanea del nostro paese abbia conosciuto: i detenuti sono passati dalle 26.000 unità del 1990 alle 54.000 di adesso; ma in realtà, quelli che ruotano intorno al carcere sono più di settantamila, perchè nell’area penale esterna ci sono oltre 20.000 semiliberi e affidati. Il sistema penitenziario italiano ha risposto a questo devastante fenomeno sociale raddoppiando la capienza delle sue celle.
Dei 1300 detenuti che ospita Secodigliano 487 sono impegnati in una qualche attività di tipo trattamentale (lavoro, scuole, corsi di formazione). Ciò significa che nel nostro istituto ci sono 800 persone per cui la detenzione è fatta di 20 ore di cella e 4 di passeggio. Cosa restituisce alla società un carcere che tiene persone per anni in queste condizioni è la domanda che ci poniamo quotidianamente. Per troppo tempo il sistema penitenziario italiano ha esibito esperienze trattamentali innovative, come i reparti a custodia attenuata, lasciando intendere che le politiche penitenziarie si stessero muovendo verso quelle direzioni. L’area verde di Secondigliano è una di queste realtà. Per quanto ci riguarda non ci interessa più lavorare su progetti vetrina che coinvolgono una cinquantina di detenuti. 50 detenuti che vivono una forma nuova di punizione in un carcere che ospita 1300 persone non ha nessun senso. O queste esperienze hanno l’ambizione di diventare forma carcere generale, o rischiano soltanto di legittimare e nascondere il carcere così com’è.
La coltre di opacità che il nuovo carcere speciale (41bis) ha sparso intorno alle nostre galere in quest’ultimo decennio ha creato una forte regressione delle condizioni di vita negli istituti. Ad essere colpiti da questa ondata restauratrice non è stata soltanto la criminalità organizzata incarcerata. Il carcere ha subito un generale irrigidimento dei regimi disciplinari. Il sovraffollamento è certo un problema serio, ed un provvedimento indulgenziale che riduca, anche solo temporaneamente, i grandi numeri dei nostri tassi di incarcerazione è un’esigenza ormai ineludibile. Ma troppo spesso questo argomento è stato usato come alibi per nascondere un fondamentale disinteresse per le condizioni di vita dei detenuti. Le responsabilità della politica sono certo state enormi nel determinare questa situazione. Ma non sono da meno quelle dell’Amministrazione penitenziaria, noi compresi, rimasta spesso silente di fronte allo spettacolo di un quotidiano penitenziario sempre più povero e indecoroso.
Per capire ciò che è accaduto a Sassari bisogna partire da qui.
2 - Nel 1990 nelle carceri italiane c’erano 25.931 detenuti e 27.988 agenti di polizia penitenziaria. Oggi i carcerati sono quasi 54.000 e gli agenti poco meno di 44.000. Gli educatori, nonostante il raddoppio della popolazione detenuta, sono rimasti pressapoco lo sparuto drappello di allora (meno di 600). L’ultimo concorso espletato nel 1994 si è concluso con l’assunzione di un centinaio di operatori che qualcuno al Dap pensò bene di dirottare alla giustizia minorile. A partire dall’evidenza dei numeri il carcere italiano mostra una grande evidenza delle sue funzioni reali: esso prevalentemente custodisce e controlla e, residualmente, si predispone ad ascoltare e sostenere le persone recluse.
Ad una politica che pretende fondamentalmente un carcere sicuro e silente le politiche penitenziarie di questi anni hanno risposto con provvedimenti tesi esclusivamente ad adeguare il livello della sicurezza e della custodia alla crescita esponenziale delle carcerazioni, confidando sul protagonismo della società civile nel rispondere alle esigenze di umanizzazione della pena.
A Secondigliano sono in servizio 900 poliziotti penitenziari e 9 educatori (su un organico previsto di venti unità); il rapporto operatore/utente per questi ultimi è di 1 a 170 (essendo due unità impiegate esclusivamente nel ‘raparto verde’). Gli psicologi sono appena 5, assunti con convenzioni che pagano 305 ore mensili di consulenza (circa mezzo minuto al giorno per utente). I detenuti con posizione giuridica di definitivo, quelli per cui la legge impone di attivare la cosiddetta osservazione scientifica della personalità, sono quasi 900. L’ufficio educatori di Secondigliano nel 1999 ha ‘prodotto’ 6.073 relazioni di osservazione, 350 consigli di disciplina, 11.120 colloqui individuali. Oltre l’80% del tempo di lavoro di un educatore di Secondigliano è stato speso nell’espletamento di queste tre sole mansioni.
Per le richieste di intervento e di aiuto, tragicamente rappresentate dall’esplosione dei suicidi e degli autolesionismi, le domande di formazione ed orientamento, le aspettative di fuoriuscita anticipata dal carcere, le esigenze di informazione e ‘tutela legale’, i bisogni di assistenza sociale e sostegno alla dismissione, le necessità della programmazione dell’offerta di servizi e la conseguente valutazione della loro efficacia, le proposte culturali, di ricreazione e sport, il coordinamento degli interventi dei volontari e delle associazioni culturali, la cura degli interventi terapeutici-trattamentali, il raccordo con il servizio sociale penitenziario e con gli altri operatori del carcere, la mediazione culturale per gli stranieri, il sostegno per gli ammalati e per chi è in difficoltà a vivere, per tutto questo Secondigliano può garantire al momento meno di un’ora al giorno del tempo di lavoro di un educatore, a cui si aggiunge il mezzo minuto/utente degli psicologi.
Gli educatori di Secondigliano comunicano che non sono in grado di garantire null’altro oltre il formale adempimento delle richieste di relazioni che provengono dalla Magistratura di Sorveglianza, l’espletamento dei colloqui chiesti dai detenuti, lo svolgimento dei consigli di disciplina e gli interventi di sostegno verso coloro che si autolesionano o tentano il suicidio. Per il resto, non possiamo assicurare nessuna fattiva collaborazione. In questi giorni ci è stato comunicato che sono stati autorizzati e finanziati corsi ed attività per un totale di £. 901.347.525: il nostro ufficio non è in grado di garantire, stando le attuali risorse su cui possiamo contare, l’individuazione dell’utenza, il coordinamento, l’organizzazione e la valutazione dei risultati di questi interventi, nè tantomeno progettare quei percorsi di fuoriuscita dal carcere che questo impiego di risorse pubbliche dovrebbe comportare.
Il nostro non è il tentativo di proporre l’ennesima rivendicazione corporativa nella guerra tra categorie che paralizza oggi il sistema penitenziario italiano. Entrare come staffettisti o portatori d’acqua nello scontro di interessi tra ceto dei direttori e corpo di polizia penitenziaria sarebbe, a nostro parere, una scelta autolesionistica e suicida. Non è nostra intenzione, inoltre, speculare sulla sofferenza ed il disagio dei detenuti per riuscire a portare a casa anche noi il nostro piccolo trofeo di caccia. Chiedere che gli organici degli operatori sociali del carcere siano adeguati alla moltiplicazione dell’utenza avvenuta in questi anni non significa che ciò debba avvenire a decremento o contro altre figure professionali.
Ciò che però non riusciamo a comprendere è perchè a tutte le emergenze che si sono susseguite in questi anni si è prontamente risposto con l’assunzione di personale di polizia penitenziaria con provvedimenti d’urgenza, mentre, ancora oggi, la paralisi operativa degli operatori del trattamento debba attendere i tempi biblici dei pubblici concorsi.
Il dramma di Sassari è cominciato con uno sciopero indetto dal sindacato dei direttori penitenziari, ed è proseguito con i sit-in di protesta dei sindacati della polizia penitenziaria fuori le mura delle carceri. Le azioni di protesta civili, e le manifestazioni pacifiche che i detenuti italiani hanno messo in campo in questi ultimi due mesi dovrebbero aver ricordato qualcosa di importante a tutti noi: il carcere esiste soprattutto perchè ci sono i detenuti, noi stessi esistiamo perchè esiste il carcere.
Napoli, 25 luglio 2000
Gli educatori del Centro Penitenziario di Napoli Secondigliano