I LAGER DELLA PSICHIATRIA
(a cura del "Comitato di base contro la psichiatria" di Messina)

  • Il manicomio Mandalari, i reparti psichiatrici, le cliniche private, gli ambulatori
  • La psichiatria a 13 anni, un’intervista a chi ne è uscito fuori
  • Ricovero coatto e ricovero “volontario”
  • Il reparto psichiatrico del “Piemonte”
  • 8 ottobre 1990
  • 27 ottobre 1990
  • Dal nostro comunicato stampa:
  • Dal quotidiano “La Sicilia” di Sabato 10 novembre 1990:
  • Dal quotidiano il “Giornale di Sicilia” di giovedì 1 novembre 1990:
  • Dal nostro comunicato stampa:
  • Un “caso interessante”
  • Il manicomio Mandalari, i reparti psichiatrici, le cliniche private, gli ambulatori

    A Messina la psichiatria può contare, oltre che sul manicomio, tristemente famoso e ripetutamente oggetto di indagini giudiziarie, dei due reparti ospedalieri degli ospedali Margherita e Piemonte, del reparto del Policlinico universitario, nonché di numerosi studi privati di psichiatria e di ambulatori gestiti da sedicenti “specialisti in malattie nervose e mentali” che non si capisce mai se sono psichiatri o neurologi, e viene sempre il sospetto che l’ambiguità sia voluta per farsi credere specialisti in due campi che dovrebbero essere abbastanza distinti, quello scientifico delle malattie fisiologiche del sistema nervoso, e quello para-scientifico (o forse sarebbe meglio dire fantascientifico) delle “malattie mentali”, entità astratte che gli stessi psichiatri non definiscono se non in una maniera molto vaga.

    Sul manicomio c’è ben poco da dire di nuovo e di originale rispetto alle cronache che si leggono periodicamente sui giornali rispetto a tali strutture in vari parti d’Italia per cui eviterò di soffermarmi sulla qualità dei pasti, la sporcizia delle lenzuola o l’inadeguatezza delle strutture; queste cose, pur se a conoscenza di tutti, non hanno mai messo in discussione la psichiatria e gli psichiatri. Piuttosto preferisco segnalare vicende come quella di una certa signora che è stata rinchiusa perché ha rifiutato di diventare monaca (come le voleva imporre la famiglia), o di quelle persone, magari figli di ricoverate, entrate in manicomio in tenera età e rovinate, fatte letteralmente uscire pazze da una struttura che la pazzia pretende di curarla. O la vicenda di Pippo, un signore anziano rinchiuso perché affermava di avere ucciso il padre e di dovere andare in carcere; in realtà non è un assassino, semplicemente, come lui stesso dice quando glielo chiedo, si sente colpevole di avere fatto morire il padre di dolore, e ha sente di dovere espiare la sua colpa. Questa è la sua “pazzia”, ed io mi chiedo se non sarebbe meglio che il mondo fosse pieno di “pazzi” come lui, di uomini che sentono sulla coscienza il peso del dolore provocato agli altri in un mondo dilaniato dalla violenza e dalla sopraffazione. I mafiosi non sonopazzi, i politici corrotti e criminali nemmeno, Pippo invece sì, soffre di “disturbi dell’ideazione”. E intanto quando si lamenta con noi che le medicine gli fanno male, che gli causano dolori e sofferenze e ci chiede una mano per fare pressione sui dottori, l’unica cosa che otteniamo è che la sua dose di farmaci viene aumentata: come punizione per lui che frequenta degli “elementi pericolosi” (cioè noi) e come avvertimento per noi che non serve a niente mettersi dalla parte dei pazienti. Certo dava tanto fastidio agli psichiatri del Mandalari la presenza di quei cinque o sei ragazzi che parlavano coi pazienti, li “istigavano” a valersi dei propri diritti, che volevano aiutarli ad uscire da lì.

    O forse è meglio dire che la tanto celebrata “abolizione dei manicomi” in realtà sembra una presa in giro perché se in teoria nessun nuovo paziente può essere più ammesso in quella struttura, è altrettanto vero che uno dei reparti è stato trasformato in day-hospital e che lì la gente sta molto più delle due settimane massime previste dalla legge, a volte anche mesi (situazioni queste spesso imputabili anche alle famiglie che non vogliono più riprendersi il “paziente”).

    Solo un’ultima cosa è da ricordare, che secondo un’analisi degli stessi dottori del Mandalari fra i degenti di tale istituto un certo numero di ricoverati ha bisogno solo di assistenza geriatrica; che vuol dire questo, che la malattia mentale è scomparsa (e da quanto allora)? Che forse non l’hanno mai avuta? Che ormai sono condannati a vivere in quel posto perché gli è impossibile ormai rifarsi una vita da un’altra parte? Da notare che per la psichiatria la “malattia mentale” non si può curare definitivamente, ma se ne possono solo mitigare gli effetti.

    Del reparto psichiatrico del Piemonte parlerò più diffusamente in seguito, degli altri due reparti ospedalieri cittadini non ho molte notizie, ma quello che non si può mai immaginare è quello che succede, al di fuori di ogni possibile controllo e sorveglianza, negli ambulatori degli psichiatri o nelle cliniche private. L’unica cosa certa riguardo a queste ultime è che nessun “malato” gradisce molto la reclusione, tant’è che qualche tempo fa (nel 1991) un ragazzo ventenne è morto congelato durante la fuga disperata da una di queste strutture.

    Di quello che succede negli ambulatori privati l’unica cosa sicura è invece che ormai psicologi, neurologi e psichiatri sono sempre più accomunati dalla pratica di prescrivere psicofarmaci (e non sarebbe meglio parlare di droga chimica?) a tutto spiano. Ma nonostante il segreto e la riservatezza che in genere caratterizza le storie delle persone che passano per questi luoghi, ogni tanto capita di conoscere qualcuno che le ha vissute in prima persona, e allora le supposizioni prendono consistenza nell’orrore della realtà.

    La psichiatria a 13 anni, un’intervista a chi ne è uscito fuori

    D: “Quando sei andato per la prima volta da uno psichiatra e perché ti ci hanno portato?”

    R: “La prima volta sono andato a tredici anni e il perché è difficile da capire tuttora. Semplicemente ho avuto un periodo in cui ho rifiutato la scuola, ero arrivato tardi a un esame perché ero stato male e ho avuto un periodo di nervosismo, mia madre penso mi abbia visto che tremavo sul divano un pomeriggio a causa dello stress nervoso e ha pensato di portarmi dalla psichiatra, una mentalità molto diffusa. Sono andato da uno psichiatra e non è che mi abbia detto qualcosa di particolarmente preciso, mi ha dato subito degli psicofarmaci da prendere.”

    D: “Quello psichiatra ti ha dato una diagnosi?”

    R: “No, mi ha dato una cura più che una diagnosi, perché quello che interessa loro è soprattutto la cura. Comunque ho cambiato molti psichiatri, all’inizio presi il Serenase e questa cura mi rimase per un periodo molto lungo di tempo e mi ha portato molti problemi a livello fisico. Dopo di che ho cambiato e sono andato anche da uno psicologo il quale non mi ha prescritto psicofarmaci; però a questo punto bisognerebbe parlare di un altro aspetto che emerge in certe questioni, e cioè la tendenza a fregare i soldi allungando anche le visite. Questo psicologo stava facendo tutta una sua analisi su quelli che erano stati i problemi miei nel rapporto coi miei genitori, e dei miei genitori fra di loro quando hanno deciso di mettermi al mondo, andando molto indietro nel tempo e praticamente allungando il brodo, però non è che lui così stesse arrivando a niente di particolare. Mi è capitato di uscirne in qualche modo con una reazione nei confronti della psichiatria e in ogni caso del fatto di essere analizzato, cosa che mi creava ulteriormente una situazione di malattia; perché il fatto di essere continuamente considerato un malato alla fine me lo faceva pure credere, tanto più che prendevo quelle sostanze che avevano una serie di reazioni particolari. Ero condizionato praticamente nella mia vita giornaliera.”

    D: “E tutto questo è durato per quanto?”

    R: “Questo è durato per poco più di un anno.”

    D: “E a parte lo psicologo, c’erano degli psichiatri che facevano qualcos’altro oltre a prescrivere medicine?”

    R: “C’era anche chi dava delle diagnosi, uno psichiatra mi ha detto che ero ciclotimico, quindi che era normale che attraversassi questi cicli di depressione, però non mi ha spiegato effettivamente cos’era questa malattia, anzi anche lui mi ha detto che non aveva le cognizioni precise di questa malattia. Allora bisogna vedere fino a che punto queste malattie che loro dicono di identificare sono vere e proprie malattie e qual è la base scientifica dei loro discorsi, perché la malattia per quanto mi concerne è basata su dei dati riscontrabili in maniera molto precisa all’interno dell’organismo di una persona. Si può chiaramente stabilire se una persona ha una lesione cerebrale, però definire una persona schizofrenica, paranoica, ciclotimica, maniaco-malinconica ... sarebbe molto interessante sapere un poco a cosa corrispondono queste definizioni.”

    D: “Accennavi prima ai danni che ti causavano gli psicofarmaci ...”

    R: “Sì, lo psicofarmaco che io prendevo era quello più diffuso, il Serenase, e delle altre gocce di calmanti, le EN mi pare, comunque i danni maggiori me li procurava il Serenase ed erano danni connessi alla mia capacità di muovermi, sia nel camminare, sia nel parlare a causa del fatto che mi si bloccava la lingua, e poi non riuscivo bene a identificare dove mi trovavo, cosa facevo, chi ero ... una spersonalizzazione completa che è quella che si vede in tutti i cosiddetti luoghi di cura come i reparti di psichiatria degli ospedali, i manicomi, eccetera.”

    D: “Le pillole le prendevi spontaneamente o ti forzavano?”

    R: “Io le prendevo perché, vista l’età, venivo convinto in qualche modo che queste pillole le dovessi prendere, la dipendenza dai genitori, più che naturale a quell’epoca, mi convinceva a prendere queste pillole come una qualsiasi altra cura che veniva dal medico. Il problema è che molte persone sono condizionate dall’autorità dello psichiatra come medico, cioè viene fatto passare uno psichiatra come medico, cosa che non è assolutamente vera.”

    D: “Che giudizio dai dei vari psichiatri che ti hanno seguito?”

    R: “Io dico che c’è qualcuno in giro che ha un minimo di professionalità nel non approfittare delle situazioni. C’è stato pure uno psichiatra che ha detto a mia madre che fondamentalmente il mio problema era lei che era troppo apprensiva. Comunque in linea di massima quello che interessa agli psichiatri è diffondere alcuni medicinali, mi ricordo ancora quella visita e la fretta con cui lui ha prescritto quel medicinale che poi ha continuato a darmi nonostante tutti gli effetti negativi che causava; in realtà il Serenase è una medicina che presenta (come si può leggere nel foglietto allegato alla confezione) degli effetti collaterali tali da sconsigliare assolutamente la sua diffusione in farmacia.”

    D: “Com’è poi che sei riuscito a uscire da queste storie?”

    R: “Ne sono uscito volontariamente come di può uscire, che so, dall’eroina, anche se penso che con l’eroina sia peggio. Semplicemente mi sono rifiutato di prendere quei farmaci e sono andato anche contro mia madre che era la persona convinta che quelle medicine dovessi prenderle, mio padre era invece più o meno dalla mia parte.”

    D: “Ci hanno poi più provato a farti prendere degli psicofarmaci?”

    R: “Ogni tanto è capitato in qualche momento di stress o di esaurimento, perché quando il concetto di psichiatria all’interno di una famiglia viene accettato è difficile per le persone pensare che appunto in tali momenti non bisogna ricorrere alla psichiatria.”

    D: “C’è altro che vorresti dire?”

    R: “Sì, ultimamente quando ho avuto delle crisi di nervi ho preso delle medicine omeopatiche, che si basano sicuramente su tutt’altri principi. E poi vorrei dire che se mi sono impegnato in questi anni a lottare contro istituzioni come il manicomio o altre cose simili devo certamente “ringraziare” la psichiatria, nel senso che il rendermi conto di come possa essere ridotta una persona quasi completamente normale, diciamo così, di come possa essere ridotta quasi a una larva umana come stava succedendo a me, mi ha fatto capire che bisogna intraprendere delle azioni vere e proprie di forza contro questi luoghi e contro la psichiatria, che per me è più un’ideologia che una medicina, è uno strumento di controllo, di sopraffazione della personalità.”

    Ricovero coatto e ricovero “volontario”

    In un reparto psichiatrico ci si può entrare, almeno in teoria, in due modi differenti, che poi nella pratica si assomigliano molto. Ci si può entrare volontariamente, firmando un apposito modulo “di propria spontanea volontà”, o perché portati a forza tramite i vigili urbani (o altri agenti delle “forze dell’ordine”) in seguito ad un provvedimento di “Trattamento Sanitario Obbligatorio” (in sigla TSO, detto anche ricovero coatto). In realtà le persone che in un reparto psichiatrico entrano “volontariamente” sono molto spesso portati, con le buone o con le cattive, da familiari che non sanno più che fare con loro (nel caso migliore) o che addirittura vogliono liberarsene almeno per un po’ di tempo per poi eventualmente riprenderli con sé quando sono stati “addomesticati” per bene. Per quanto riguarda il ricovero coatto poi bisogna precisare che (sempre in teoria) sarebbe necessario a rigore di legge che, prima di emettere un provvedimento di TSO, venga eseguita una visita psichiatrica con tanto di referto e che venga apposta pure una firma del sindaco o di un apposito funzionaria. Va da sé che troppo spesso “non c’è tempo” per sbrigare queste pratiche e si decide di ricoverare subito il paziente per poi provvedere a ”fabbricare” un referto retrodatato e sbrigare le altre formalità. E, come se non bastasse, per chi si ricovera volontariamente c’è sempre la possibilità di trasformare su parere dei medici, il trattamento volontario in trattamento obbligatorio (possibilità che spesso funziona come meccanismo di ricatto dei pazienti volontari che chiedono di essere dimessi), e quindi se anche entri di tua spontanea volontà (o quasi) in realtà non esci se non quando lo decidono i medici e i tuoi familiari. Il caso di S. raccontato più in là è a dir poco emblematico.

    Il reparto psichiatrico del “Piemonte”

    Chiamare lager il reparto psichiatrico dell’ospedale Piemonte è certamente un poco esagerato, ma pensare ad esso come ad un qualsiasi reparto medico è ancora più sbagliato, la cosa a cui si avvicina di più è senza dubbio una prigione. Certo in una prigione per certi versi c’è meno libertà, ma almeno ti è assicurata ogni giorno la tua ora d’aria e se ti vuoi drogare almeno è una scelta tutta tua; nel reparto psichiatrico invece non c’è modo di evitare i cocktail di medicine prescritti dai dottori che sono in grado di ottundere il cervello per una giornata intera. Certo, in teoria per i ricoverarti volontari ci sarebbe il diritto di scegliere la cura desiderata (compresa la psicoterapia), ma solo in teoria, l’unico diritto realmente riconosciuto è quello degli psichiatri di sperimentare le interazioni fra i vari farmaci; va infatti ricordato che gli psicofarmaci presentano tutti numerosi effetti collaterali e controindicazioni e che non esistono ancora precisi studi sugli effetti della somministrazione contemporanea di psicofarmaci diversi.

    Il reparto psichiatrico del Piemonte è a tutti gli effetti una prigione, con sbarre alle finestre, porta che si apre solo con le chiavi di infermieri e dottori e con i pazienti-reclusi che chiedono in continuazione ai dottori e ai propri parenti: “Quando posso uscire?”. Ed anche qui essere donna è uno svantaggio, perché nel salottino del reparto maschile c’è la televisione, in quello femminile no.

    Quello che segue è il resoconto di una serie di visite a quel reparto interrotte bruscamente dalla cattiva coscienza dei medici psichiatri, visite effettuate poco tempo dopo che il Tribunale dei Diritti del Malato era riuscito a “liberare” con le sue pressioni alcuni pazienti “volontari” che i dottori non volevano fare uscire nonostante le loro insistenti richieste; secondo la legge italiana questo è sequestro di persona, ma figuriamoci se si apre un’indagine su certa gente, loro lo fanno “per il nostro bene” (senza però chiedere mai il nostro parere). Le visite sono state effettuate da alcuni ragazzi del “Centro di Iniziativa Antipsichiatrica” di Furci siculo e del “Comitato di base contro la psichiatria” di Messina. Va notato che in tutta questa vicenda il già citato Tribunale dei Diritti del Malato ha assunto dopo la nostra denuncia una posizione molto morbida nei confronti dei medici del Piemonte; e non poteva essere diversamente, noi eravamo “troppo radicali” e fra i membri del Tribunale c’erano troppi psichiatri “democratici”.

    Va da sé che i dialoghi sono riportati con una certa approssimazione non essendo stati registrati ma semplicemente annotati dopo l’uscita dal reparto; quello che si è cercato di fare nel redigere il diario di quelle visite è di ricostruire correttamente il senso dei discorsi più che le parole in sé stesse.

    8 ottobre 1990

    È mezzogiorno e mezzo, ora di visita, entriamo nel reparto psichiatrico del Piemonte con l’intenzione di riportare a Furci L., una nostra vecchia conoscenza che è stata ricoverata in quel luogo per l’ennesima volta. Appena varchiamo la soglia del reparto qualcuno ci chiede una sigaretta, poi una persona sui trent’anni si avvicina e mi chiede: “Come va?”

    “Bene - dico io - e tu? Come mai sei qua dentro, ti hanno fatto un ricovero coatto?”

    “Sì, mi hanno preso a casa mia a Enna e mi hanno portato qua.”

    “E ora sei in TSO o sei volontario?”

    “Non lo so.”

    “Ti hanno fatto firmare qualcosa?”

    “No.”

    “E allora devi essere in TSO, ma se fossi volontario potresti andare a casa quando vuoi.”

    “Ma io voglio andare a casa, io sto bene, che ci faccio qui?”

    “Ma chi ti ha fatto rinchiudere qui, i tuoi?”

    Il ragazzo si presenta, si chiama F., anch’io mi presento, ci stringiamo la mano, poi lui dice: “Ma che ci faccio io qua? In questo posto si entra sani e si esce pazzi.”

    “Hai ragione, ti danno molte pillole?”

    “Ma che ne so, ogni giorno cambiano, aumentano, riducono, come se facessero un esperimento, ma che siamo animali noi? Io non ne voglio prendere medicine!”

    “Le medicine fanno male.”

    “Lo sai come funziona il mio umore? Con le medicine ... che ore sono?”

    “L’una meno dieci.”

    “Ecco, fra dieci minuti arriva l’infermiere col cocktail, ora li chiamano così, se tu restassi ancora un po’ vedresti che mi succede dopo, mi stendo sul letto e buona notte! Tempo fa mi hanno dato del carbolitium, sai che effetto fa? Stavo rincoglionito tutto il giorno, come un deficiente.”

    “Ma come è iniziato, com’è che ti hanno messo dentro la prima volta?”

    “Per un incidente, ho battuto la testa e mi hanno portato in una clinica psichiatrica.”

    “E che senso ha, per un incidente, posso capire se ti portavano dal neurologo per accertare eventuali danni al cervello ... sono pazzi!”

    “Sì hai ragione, i veri pazzi sono loro.”

    A questo punto giro lo sguardo verso la persona che occupa il letto accanto a quello di F. e lo riconosco: “Ma, ma tu non sei il fratello di Tonino? - dico io - Che ci fai qua?”

    Sul letto di fronte G., un ragazzone semiaddormentato visibilmente intontito dagli psicofarmaci, con cinque anni di ricoveri e altre “cure” psichiatriche alle spalle, si riscuote un poco e dice: “Che ci faccio, che vuoi che ci faccia?”

    “Ti ci hanno portato?”

    “Sì, mi ha portato mia mamma, ho avuto una crisi.”

    “Una crisi?”

    “Sì, sono stato male, ho preso delle gocce di EN e mi hanno fatto un brutto effetto, poi mi hanno portato qua, ma adesso voglio uscire.”

    “Ma quante pillole ti danno?”

    “3 di Serenase e altre due che non mi ricordo.”

    “5 pillole al giorno?”

    “No, 5 la mattina, 5 a mezzogiorno e 5 la sera.”

    “15 al giorno?”

    “15.”

    La cosa d’altronde è più che ovvia conoscendo il modo di agire di certi dottori: G. è un ragazzone enorme, con una forza incredibile, e i medici hanno paura dei suoi scatti di rabbia (più che giustificati vista la sua situazione di recluso) e lo addormentano con dosi massicce di farmaci. Però lui continua ad essere furioso.

    “Io voglio uscire di qua!” grida.

    “Ma tu sei in TSO?”

    “No, non sono in TSO.”

    “E allora se vuoi uscire per legge puoi farlo quando vuoi.”

    “Ma non mi fanno uscire!”

    Nel frattempo arriva sua madre.

    “Signora perché non se lo porta a casa?” domando io.

    “Ma i dottori dicono che sta meglio, ancora un paio di giorni e se ne può andare.”

    “Ma io me ne voglio andare ora!”

    “Signora se suo figlio è volontario e lei se lo vuole riprendere a case può farlo quando vuole.”

    “Ma i dottori dicono che deve stare ancora qua, non me lo fanno portare. E poi le pare che è facile portarselo a casa, e se gli viene un’altra crisi? E poi si deve curare.”

    “Ma se è stato male per delle medicine lei pensa che deve stare qua a curarsi con delle altre pillole? Lei lo sa che ne prende quindici al giorno?”

    “15? Vorrà dire 5!”

    “No, mamma, me ne danno quindici, cinque, cinque e cinque.”

    “Oddio, ma sono pazzi!”

    “Eh e lei crede che le pillole facciano bene, fanno solo addormentare.”

    “Mamma, ha ragione lui, come te lo devo fare capire?”

    “Hanno paura di lui perché è grande e grosso ed è nervoso che vuole uscire, e lo addormentano coi farmaci.”

    “Sì, però deve capire che lui ha pure rotto un vetro l’altro giorno!”

    “Lei che farebbe signora se la rinchiudessero senza ragione qua dentro, non urlerebbe ai quattro venti che vuole uscire? Non si arrabbierebbe mai?”

    “Eh sì mamma, vorrei vedere te qua al posto mio, è facile parlare.”

    “Signora, lo sa che vuol dire stare qua dentro? - dice F. - Lo sa che mi hanno rovinato i migliori anni della mia vita, undici anni signora, ne avevo venticinque!”

    “E io che devo dire? Ho ventitré anni ancora!”

    Nei giorni seguenti torniamo più volte in quel reparto a fare visita a G. e a F. e nel frattempo conosciamo anche altri ospiti di quella struttura ospedaliera; in genere sono loro che si presentano, che si avvicinano, magari con la scusa delle sigarette o del caffè che vogliono portato dal bar (come ho già detto a loro non è permesso uscire se non sotto scorta). Hanno bisogno di amicizia, di un contatto con il mondo esterno che non sia quello di una famiglia spesso troppo ambigua nei loro confronti; e così dopo pochi minuti che li hai conosciuti sono capaci di raccontarti le loro vicende e di chiederti quindi se è giusto che debbano ancora restare chiusi là dentro. Così facciamo conoscenza con M., una ragazza ventenne ricoverata in TSO che si rende benissimo conto della dannosità delle pillole che le vengono date e quando può fa finta di ingoiarle per poi farle finire nello scarico del bagno: “Con quelle punture e quelle pillole non posso neanche leggere - ci ha detto lei stessa - solo i caratteri grandi riesco a distinguere, per il resto mi balla tutto sotto gli occhi, le parole danzano davanti a me come le onde del mare. Ora mi vedete un po’ addormentata, ma in fondo sono sveglia; appena arrivano coi farmaci ... buonanotte.” E in effetti la sua espressione come quella di quasi tutti gli altri ricoverati era quella di una persona semiaddormentata.

    E così conosciamo S., ricoverato “volontario” che non vede l’ora di uscire, portato al Piemonte per farsi disintossicare da una iniezione che gli aveva fatto male (a quanto pare questa è una scusa molto frequente per portare i figli al reparto psichiatrico). Appena ci vede si presenta e ci parla della sua passione per le moto osteggiata dai genitori, ci fa capire che ha combinato qualche brutto scherzo in famiglia (non è molto preciso, ma pare che alluda ad un incendio in casa provocato da lui), ma dice che fra un paio di giorni ormai lo riportano a casa, così almeno gli hanno detto.

    27 ottobre 1990

    Entriamo al reparto, “C’è M.?” chiediamo.

    “Sì sono qua, sto facendo dei test, aspettate cinque minuti.”

    Nel frattempo si fa vedere S.

    “Ciao S., che ci fai ancora qui, non dovevi andare a casa?”

    “A casa? No, e chi l’ha detto? Però io voglio uscire di qui, non ce la faccio più!”

    “Ma se sei venuto qui volontario te ne puoi andare quando vuoi, basta che glielo dici ai dottori e te ne puoi andare quando vuoi.”

    “No no, i dottori non mi fanno uscire, me ne vado solo quando loro dicono che sto bene.”

    “Che c’entra, per legge se ci sei venuto volontario puoi uscire quando vuoi.”

    “Ma sei sicuro?”

    “Certo, tu sei venuto qui da solo o ti hanno portato a forza?”

    “No, sono venuto da solo.”

    “Allora te ne puoi andare quando vuoi.”

    “Mannaia a mia madre, ma allora mi ha ingannato, non è vero che devo stare qui per forza, ma sei sicuro?”

    “Cero, è così per legge.”

    “Mannaia alla miseri, ma io spaccherei tutto, mi hanno preso per il culo, ma ora glielo dico, appena arriva mia madre, magari torno a casa con lei.”

    “Te lo ripeto, se tu te ne vuoi andare ti devono lasciare andare.”

    “Lo senti quello che dicono di là i medici?” dice poi S. abbassando il tono della voce.

    “No, cosa?”

    “Dicono: chi è quel ragazzo coi capelli lunghi e quell’altra ragazza, che ci fanno qui, ma chi sono venuti a trovare. Tutte queste cose dicono.”

    “Come se noi a parlare con te e con gli altri vi facciamo del male.”

    Suonano, l’infermiere apre, entrano la mamma e la nonna di S.; S. mi presenta ai familiari, poi: “Mamma, questo ragazzo mi ha detto che posso uscire perché sono entrato volontario - dice - è vero?”

    “Bisogna parlare coi medici, vediamo se stai bene.”

    “Ma tu lo sapevi che io potevo uscire?”

    “Forse si sbaglia.”

    “No signora, non mi sbaglio, la legge dice così.”

    “E lei è sicuro al cento per cento? Non crede che si può sbagliare?”

    “No signora, su questo sono sicuro, conosco la legge, l’ho letta.”

    ”Mica uno può uscire così, senza che lo dice il dottore non se ne può andare.”

    “Mamma, io qua mi sento come un leone in gabbia, quando sono entrato stavo male, ma adesso sto peggio, qua dentro sto impazzendo!”

    “Aspetta ora, che dobbiamo comprare le medicine per la nonna, sennò la farmacia chiude, ci vediamo fra dieci minuti, qua c’è il budino per te.”

    “Sì, mi addolciscono col budino, ma io voglio uscire, qua mi sento un leone in gabbia.”

    Madre e nonna escono. “Non c’è giustizia - dice dopo un poco S. - l’unica giustizia che c’è è quella dei mitra e dei carabinieri.” Nel frattempo riappare M. che ha finito coi test ed entriamo nel salottino del reparto femminile; quattro sedie e un tavolo. C’è pure il ragazzo di M., anche S. entra su nostra insistenza (in realtà pare che gli sia vietato andare nel reparto femminile peraltro comunicante, mah ...)

    Parliamo del più e del meno, poi arriva il padre di M. e la figlia subito gli chiede: “Papà, gli dici se posso farmi una passeggiata con te ora?.”

    “No, non è possibile l’hai già fatta stamattina”

    S: “Ma lei si rende conto che sua figlia l’addormentano coi farmaci?”

    “E certo, deve stare tranquilla.”

    “Tranquilla? - dico io - non mi sembra un buon metodo questo!”

    “Certo, deve stare tranquilla, e non pensare per un po’ di tempo.”

    “Ma questi farmaci addormentano il cervello, non curano niente, a che serve addormentare?”

    S: “Ma a lei pare giusto? Neanche Gesù Cristo addormenterebbe i suoi figli coi farmaci è un’ingiustizia.”

    “Eh, ma voi avete fatto i cattivi e ora così imparate la lezione.”

    Seguono alcuni discorsi più a meno futili dai quali apprendiamo che il padre di M. lavora in caserma (in seguito sapremo pure che è un nostalgico del fascismo che fa collezione di spillette e gadget vari con fasci littori, croci celtiche, volti di Mussolini).

    Poi d’improvviso delle voci concitate a pochi metri da noi, una dottoressa entra nel salottino. “Scusate - dice rivolta a noi - Ma voi siete parenti, amici di qualche ricoverato?”

    “Siamo amici” rispondiamo entrambi.”

    “Amici di fuori o vi siete conosciuti qui?”

    “Ci siamo conosciuti qui quando siamo venuti a trovare L., e ora siamo amici.”

    “Ma siete amici riconosciuti dalla famiglia? Lei che è il padre, le sembra giusto che vengano qui?”

    “Beh, io veramente non c’entro” dice il padre di M.

    “E poi le sembra giusto - continua la dottoressa - che possano andare in giro a dire che sua figlia è rinchiusa qui? E poi noi abbiamo il nostro segreto professionale da rispettare, non crede?”

    “Ma io non capisco, finora siamo sempre entrati come tutti gli altri durante l’orario di visita, non capisco cosa sia cambiato oggi.”

    “Siete gentilmente pregati di accomodarvi fuori.”

    “Non capisco, ma c’è una circolare in proposito? Voglio sapere se c’è una circolare.”

    “Qua possono entrare solo i parenti e gli amici intimi, e lei è pregato di uscire. Forza usciamo!”

    “Io non mi muovo, se non mi fa vedere una legge o una circolare in base alla quale non posso stare qua.”

    “Se vuole può reclamare alla direzione sanitaria, ora però se ne vada.”

    La dottoressa esce, entrano due infermieri, guardacaso uno dei due è il più impostato del reparto. “Siete pregati gentilmente di uscire di qui” dicono loro. * *

    Io guardo l’orologio, è quasi l’una e me ne devo andare; “Beh, in ogni caso me ne dovrei andare perché si è fatto tardi, per questa volta diciamo che me ne vado perché è tardi. Ma non finisce qui.”

    Così il lunedì seguente andiamo alla direzione sanitaria per protestare, ma lì se ne lavano le mani: “Non possiamo dirvi niente.”

    Due giorni dopo diffondiamo alla stampa e alle televisioni locali dei comunicati stampa per denunciare l’accaduto e poi ripassiamo davanti al reparto psichiatrico e chiediamo agli infermieri che ci vengono ad aprire: “Possiamo entrare?”

    “Ma chi cercate?”

    “Siamo venuti a trovare S.”

    “Ma siete parenti? Noi possiamo fare entrare solo i parenti.”

    “Ma c’è una circolare che è stata fatta in proposito?”

    “Qui solo i parenti possono entrare.”

    Un signore arriva dietro di noi. “Perché cercate S.? Chi siete voi?”

    “Beh, siamo suoi amici, volevamo parlare con lui ...”

    “Io sono il padre di S., e voi non parlate con nessuno!”

    La porta del reparto si chiude alle spalle del padre di S., ormai non ci sono più dubbi, la sua famiglia lo vuole tenere prigioniero nel reparto psichiatrico, “volontario” ovviamente.

    Passa qualche giorno e si organizza un sit-in di protesta davanti all’ingresso del reparto che ha un riscontro del tutto particolare sulla stampa cittadina e in occasione del quale si è potuta notare la solerzia delle forze dell’ordine che invece di indagare sui crimini da noi denunciati hanno ben pensato di prendere i nostri nominativi e di chiedere informazioni sulla sede dell’associazione di Furci.

    Dal nostro comunicato stampa:

    (...) “Non accettiamo che si perpetuino gli abusi sugli utenti e che i medici si rifiutino di fornire informazioni (anche agli stessi pazienti) sui tempi e sulla natura del ricovero e sui motivi che giustificano il prolungamento delle degenze anche contro il parere degli utenti “volontari”.

    Dal quotidiano “La Sicilia” di Sabato 10 novembre 1990:

    (...) “Vorrei precisare alcune cose in merito - dichiara il medico - visto che questa sedicente associazione non permette di effettuare serenamente il nostro lavoro di cura dei pazienti. Noi siamo vincolati dal segreto professionale e non possiamo informare chiunque delle cure. I pazienti però, sanno cosa prendono e che terapia affrontano. È falso che noi tratteniamo i ricoverati “volontari” in reparto. (...) Noi vogliamo solo lavorare in pace e non capiamo le accuse di persone che non hanno nessun titolo specifico in questo campo.”

    Dal quotidiano il “Giornale di Sicilia” di giovedì 1 novembre 1990:

    (...) Lo scandalo dei ricoverati “volontari”, che vengono trattenuti arbitrariamente dal primario del reparto, era già stato segnalato del Tribunale dei diritti del malato che alcuni giorni fa ha imposto le dimissioni di alcuni pazienti.

    La situazione è abbastanza complessa ed ingarbugliata ma la spiegazione del primario del reparto non aiuta a sciogliere la matassa: “È vero che molti ricoverati sono volontari ma è anche vero che spesso hanno bisogno di una adeguata terapia intensiva. In questi casi li trattengo per evitare che possano nuocere a sé stessi e agli altri.”

    Dal nostro comunicato stampa:

    (...) Da più di un secolo gli psichiatri sperimentano su cavie viventi non consenzienti e non informate “terapie” di una violenza inaudita. Tutto ciò per dimostrare l’esistenza della malattia mentale. Sacrificando così i cervelli (sezionati dalla lobotomia, attaccati dall’elettroshock e dagli psicofarmaci) e le esistenze dei loro pazienti rinchiusi nei reparti psichiatrici e nei manicomi.

    Quando gli psichiatri del Piemonte si lamentano di non poter lavorare in pace per il bene dei loro pazienti noi ripensiamo a come i loro colleghi sono stati lasciati in pace a distruggere centinaia di migliaia di persone nei manicomi. E ancora oggi per loro il rifiuto della cura è un sintomo di malattia mentale.

    Un “caso interessante”

    Autunno 1992, un ragazzo ventenne vuole provare l’ebbrezza del decotto di stramonio (erba allucinogena e fortemente tossica) e il giorno dopo avere assunto quella bevanda si sveglia in preda alle allucinazioni: vede infatti insetti tutto intorno a sé, li vede salire sul suo corpo, comincia a gridare e fare gesti come per scacciarli. Viene così portato al pronto soccorso dell’ospedale Piemonte dove si pensa che i medici possano fare qualcosa per disintossicarlo, magari una lavanda gastrica se è il caso. Ma questi sono veramente pii pensieri, pura utopia, poiché i “medici” del pronto soccorso non trovano di meglio da fare che spedire il malcapitato giovane al reparto di psichiatria.

    Per fortuna le persone che hanno accompagnato il giovane D., e che sul momento erano state prese alla sprovvista, si danno poi da fare per rintracciare altri loro amici per cercare di porre rimedio a quell’assurdità, e nel giro di un’ora una decina di persone fa “irruzione” nel reparto sconvolgendo i “poveri” dottori; questa volta i “nostri” fanno valere con decisione e determinazione i diritti di D. (che ovviamente non aveva nessuna intenzione di restare in quel posto) e riescono a tirarlo fuori da quel carcere.

    Dopo la “liberazione” si verrà a sapere dallo stesso D. che in quel breve lasso di tempo i dottori erano riusciti a convincerlo a mettere la firma per essere ricoverato “volontario” (e ci vuole molto a convincere una persona sotto gli effetti di una sostanza allucinogena), gli avevano propinato un paio di psicofarmaci che lo avevano rintontito ulteriormente, e ne avevano parlato fra di loro come di “un caso interessante, mai studiato prima”. Pare quindi che volessero tenerlo con sé non tanto per “curarlo”, quanto piuttosto per “studiare” il suo caso; ad ogni modo non si capisce cosa potesse fare per D. quella psichiatria che pretende di curare le “malattie mentali” dato che ci si trovava di fronte ad un fatto puramente fisiologico, cioè l’assunzione di una sostanza psicotropa che aveva momentaneamente alterato il funzionamento del suo sistema nervoso.

    Vogliamo chiudere questo opuscolo con questa storia che per quanto inquietante almeno è a “lieto fine”, e dà l’idea di come ci si possa opporre all’invadenza della psichiatria quando si ha una chiara coscienza della sua pericolosità.

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