unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n. 40 del 20/12/98

La voce dei lettori:
La risposta del Gatto al Grillo. La replica del Grillo

Vorrei approfittare di quanto scritto e suggerito dal fantomatico "Squit Squot" nell'articolo "Il gatto e la volpe" di UN n.ro 39 per fare alcune precisazioni nel merito dell'incontro torinese fra alcuni militanti del Gabrio e il viceministro di polizia La Volpe, nonché sulle presunte "scelte nei confronti dell'apparato statale" intraprese dal Gabrio stesso.

Ricordiamo che l'arrivo di La Volpe a Torino venne preceduto da una serie di uscite pubblicitarie del neo-ministro degli interni Jervolino intese ad offrire una veste più "populista" della gestione del Viminale, meno autoritaria e più aperta ai "probblemi della ggente", giusto per recitare quella parte di "una ministra fra noi" che piace tanto agli italiani, alle mamme e ai loro figli "gaggioloni".

Secondo questa linea nazional-popolare era naturale, dopo gli incontri della ministra con le famiglie di squinternati a Napoli e con i super emarginati dello Zen a Palermo, che si tentasse di mettere in scena l'abbraccio materno con i "figliol prodighi" "squatter" di Torino. Bisognava però preparare bene il terreno. La prima mossa fu quella di rilasciare un intervista "clamorosa" al Corriere della Sera, in cui la ministra esprimeva la propria disponibiltà a discutere su tutto anche con gli squatter torinesi. La seconda mossa fu quella di mandare in avanscoperta un uomo con un nome buffo (Alberto detto La Volpe), per verificare la possibilità concreta dello storico "abbraccio" ed evitare pubbliche "figure di merda" della neoministra.

Dal punto di vista mediatico si passava il messaggio della grande apertura della Jervolino a cui si rischiava di contrapporre la consueta e bofonchiante chiusura degli "squatter", incomprensibile ai più.

Come Gabrio ci siamo subito posti il problema di far saltare quella che risultava essere con tutta evidenza una trappola ben congeniata dall'avversario: da una parte si correva il rischio dell'omologazione ad un fronte del rifiuto produttivo solo di ulteriore isolamento politico e sociale a causa di una povertà argomentativa stereotipata (del genere: con gli assassini non c'è dialogo, con le istituzioni non si tratta, lo stato è una merda, i politici sono una merda), dall'altra di finire per accettare un incontro che rompesse si l'isolamento, ma al prezzo di reggere la coda della ministra o del volpacchiotto di turno ricoprendo, noi, la parte dei "bravi e coglioni" (del gatto, appunto).

In altri termini occorreva smascherare il gioco della Jervolino senza cascare nell'isolamento, piuttosto cercando di aprire una qualche forma di dialogo con quei settori sociali della metropoli che fra la primavera e l'estate del '98 ci videro più come un "problema" che come una risorsa nella lotta quotidiana contro l'esclusione, l'oppressione e lo sfruttamento.

Scegliemmo dunque di giocare la carta dell'evento, cercando di stravolgerlo dall'interno, imponendo noi luogo e contenuto dell'incontro. Volemmo l'incontro in corso Brunelleschi per denunciare all'"opinione pubblica", tramite i giornalisti, cosa fosse un lager in costruzione, obbligando La Volpe ad esprimersi pubblicamente sul problema di fronte a quella che ci sembrava l'evidenza dei fatti.

La Volpe cercò di usarci da sfondo per pubblicizzare la linea del ministero per Torino: più polizia nelle strade, apertura del lager, politica severa con gli immigrati, lotta alla microcriminalità. Dal suo punto di vista, l'apparenza dell'incontro doveva servire a tranquillizzare i benpensanti facendogli credere che nel mentre la polizia acquista più potere e capacità di controllo sul territorio, non chiude il terreno al dialogo anche con i soggetti virtualmente più pericolosi.

Dal canto nostro ci limitammo a discutere solo di centri di detenzione e di immigrazione, non di altro; le nostre dichiarazioni dure finali servirono a far capire che non credevamo alla possibilità di un qualsiasi dialogo, a meno che la ministra non si dimostrasse così concretamente "disponibile" da chiudere tutti i centri di detenzione per immigrati. Difatti quell'incontro fu un incontro fra sordi, e le dichiarazioni finali lo dimostrano, malgrado i flash dei giornalisti.

Da allora la ministra non ha più parlato di incontri "a Torino" con gli "squatter" per discutere dei "loro problemi", bensì di essere disponibile a discutere "anche con gli squatter" se questi la dovessero cercare.

Ciò che ci ha sorpreso di più è che mentre da una parte squatter e autonomi ci scomunicavano come "traditori" o "cacciatori di poltrone", con l'ausilio di false interviste e calunnie, dall'altra molti compagni "senza bandiera", amici e conoscenti dei centri sociali ci plaudivano.

E' dunque in tale contesto che andrebbe letta la scelta dell'incontro (rispetto al quale credo non ci sarà seguito) da parte del Gabrio, non certo per novelle simpatie bertinottiane o per infatuazioni irrefrenabili nei riguardi della Carta di Milano.

Al Gabrio siamo ben consapevoli che l'anno a venire e quello del Giubileo saranno più duri dei passato (basta solo vedere il cambio della guardia in Questura): proprio in vista del bussines di fine secolo a Torino si sta sperimentando la pacificazione del conflitto fra repressione diretta di piazza e dialoghi virtuali.

Per questo, ultimamente, ci siamo posti il problema di "uscire dal ghetto", cercando nuove alleanze sociali fra immigrati, studenti, precari e disoccupati, rompendo quella sorta di accerchiamento che si è creata intorno a noi a partire dall'estate del '98.

Quanto tentiamo di fare non si chiama "istituzionalizzazione", ricerca della mediazione politica tout-court, come ha asserito qualche nostro simpatico detrattore. Bensì strategia di costruzione, elaborazione del conflitto (anche per vie artificiali, non spontanee) contro lo Stato e le sue articolazioni, che può trovare come passaggi intermedi dei momenti di "mediazione", "compromesso", "tregua" o "trattativa", ma sempre e solo da rapporti di forza.

Conflitto che intendiamo come materiale processo di liberazione dei comportamenti e delle coscienze, come contemporanea costruzione di parziali rapporti sociali "emancipati". Forse questo modo di vedere è ancora troppo "marxista", poco adatto a modi di pensare di principio, da emotivi superivoluzionari (col nemico non si tratta), ma è sempre meglio essere dei rivoluzionari che si sporcano le mani nella merda che degli innoqui predicatori di sani principi.

Marco Prina



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