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Umanità Nova, numero 32 del 17 ottobre 2004, Anno 84

Fuga dall'Iraq?
USA: il pantano iracheno e le presidenziali




L'allungamento oltre ogni previsione delle operazioni belliche in Iraq sta iniziando a produrre effetti impensabili fino a pochi mesi fa all'interno dell'amministrazione americana e, per contagio dal momento che il governo italiano è il più coinvolto insieme a quello inglese nell'avventura mediorientale, anche in quella Berlusconi.

L'approssimarsi della scadenza elettorale del 2 novembre e la vistosa rimonta nei sondaggi effettuata dallo sfidante democratico Kerry sull'onda dell'improvviso "coraggio" con il quale ha iniziato ad attaccare il Presidente sulla questione della guerra, ha scatenato la ricerca del capro espiatorio interno alla squadra di governo, cioè colui al quale lasciare il cerino in mano della responsabilità pubblica della pessima conduzione della guerra e dell'incapacità USA di venirne fuori in modo dignitoso. 

D'altra parte Bush e i suoi hanno già dato mostra di questa attitudine con il clamoroso siluramento del direttore della CIA al quale sono state addossate tutte le responsabilità per l'attentato dell'undici settembre al momento di avviare la commissione parlamentare di inchiesta che, guarda caso, ha ratificato tale scelta accusando i servizi segreti più famosi del mondo di aver peccato per negligenza davanti al pericolo rappresentato dalla galassia che per comodità tutto il mondo riassume nel nome di Al Qaeda. 

In quel caso il soggetto prescelto deve aver avuto il suo tornaconto a permettere che l'amministrazione repubblicana lo prendesse a calci nel posteriore davanti al mondo perché al contrario di quanto fatto da altri collaboratori della presidenza Bush non ha minimamente reagito a tutto il battage negativo nei suoi confronti né ha affidato alla penna di un diario post licenziamento la sua versione dei fatti.

Il polverone alzato negli ultimi giorni dalle parole di Rumsfeld, ministro della Difesa e principale artefice della teoria dell'attacco e dell'occupazione dell'Iraq con meno soldati possibile (la guerra just in time), e le successive esternazioni dell'ex console americano a Baghdad, Bremer, e il negativissimo rapporto della CIA sulla situazione nel paese asiatico segnalano che in questo caso i capri espiatori non hanno alcuna intenzione di farsi sacrificare per la maggior gloria del Presidente Bush.

Rumsfeld viene infatti dato da alcune settimane in sicura partenza anche in caso di secondo mandato Bush. Il ministro della Difesa pagherebbe infatti il vistoso insuccesso nella pacificazione del paese con la propria testa. Bremer da par suo è già stato silurato perché alla fine del suo mandato in Iraq non ha fatto seguito la nomina ad ambasciatore nello stesso paese. Questa carica andata al vecchio terrorista Negroponte, organizzatore della guerra a bassa intensità messa in opera negli anni ottanta dagli USA in Centro America, è oggi quella chiave per il mantenimento del controllo assoluto degli Stati Uniti sull'Iraq di Allawi. Il fatto di esserne stato escluso ha quindi il significato di una vera e propria strombatura per l'ex uomo forte degli USA nel paese. La CIA infine è in via di un pesante ridimensionamento sulla scia della commissione di inchiesta sull'undici settembre, a favore di un nuova organizzazione dei servizi di informazione che favorirebbe gli eterni rivali dell'FBI.
I motivi per lo scoppio dello scontro all'interno dell'Amministrazione e dell'intero apparato statale USA in una logica di mantenimento del potere acquisito non mancano quindi. Ciò nonostante siamo convinti che le convulsioni di queste ultime settimane siano fortemente legate anche alla strada senza uscita nella quale si sono venuti a trovare gli Stati Uniti nella loro avventura irachena. La prospettiva di altri anni di combattimenti, morti e instabilità del paese non arridono certo alla presidenza Bush e ai suoi uomini, non certo per motivi umanitari ma per banalissimi motivi finanziari. La guerra in Iraq, infatti, sta costando troppo in armi, forniture, uomini e relativi stipendi e la situazione di forte instabilità non permette nemmeno di godere delle ricchezze del paese visto che i continui sabotaggi alla rete degli oleodotti non permette una reale ripresa del commercio del greggio locale. Greggio che, nei progetti degli Stati Uniti sarebbe dovuto servire a pagare i costi dell'occupazione. La stessa architettura politico-economica all'insegna dell'iperliberismo costruita dal console Bremer per favorire l'acquisto a prezzi stracciati del paese da parte delle corporation americane è sulla strada del fallimento: le multinazionali non amano investire anche a costo zero laddove i propri dirigenti rischiano la vita e risulti impossibile operare efficacemente sul territorio.

La questione dei costi e quella dei mancati profitti delle corporation USA in Iraq sono il vero e proprio tallone d'Achille della macchina bellica più potente del mondo. Serve a poco avere la capacità teorica di annientare tutti gli altri eserciti del mondo quando il costo di una simile macchina bellica quando la messa in moto non è sopportabile da un paese la cui ricchezza dipende in ultima analisi dai flussi finanziari indirizzati verso di esso dal resto del mondo. Ricchezza immensa ma scarsamente disponibile e, soprattutto, legata alla capacità di garantire profitti agli investitori. E questo gli USA stanno iniziando a garantirlo di meno a causa dei molti incidenti di percorso in Medio Oriente.

Di fronte a questi problemi non è strano che Rumsfeld rilanci il suo vecchio piano di ritiro di parte consistente delle truppe di occupazione e contemporaneamente di costruzione di un certo numero di basi militari dalle quali gli USA continuerebbero a sostenere il regime instaurato a Baghdad senza doversi sporcare direttamente le mani.

Si tratterebbe del piano di vietnamizzazione del conflitto sul quale alla Casa Bianca non è ancora stato trovato un accordo perché tale piano prevede di imbarcare nel governo dell'Iraq il numero massimo possibile di opposizioni locali che non abbiano scelto in modo definitivo la lotta armata contro gli americani. In sostanza si tratterebbe di trovare un accordo nazionale che escluderebbe solo gli appartenenti alle alleanze tribali più vicine all'ex dittatore Saddam Hussein e gli islamisti legati al network internazionale del fondamentalismo. Il difficile accordo raggiunto tra il governo Allawi e Moqtada al Sadr riguardo alla fine degli scontri nel quartiere di Sadr City e al "rientro nella legalità" del leader sciita radicale deve essere letto in questo quadro. D'altra parte lo stesso Allawi ha rilasciato durante il viaggio in Italia dichiarazioni molto chiare sul fatto che un ritiro delle truppe della coalizione non potrebbe che favorire la pacificazione nazionale. 

Così le truppe americane non intervengono più contro gli sciiti e invece avanzano nelle città del triangolo sunnita facendone tabula rasa e distruggendo ogni possibile resistenza massacrando migliaia di civili non "per errore" ma per dare una lezione agli abitanti di tali città ribelli. Lo scopo è chiaro: circoscrivere il tiro contro gli irriducibili non disposti a rientrare in una logica di scambio e di condivisione del sotto potere che gli USA sono disposti a concedere e rendere le truppe il meno visibili possibile dopo lo svolgimento delle elezioni di gennaio il cui risultato è stato già deciso da tempo. 

In questo quadro sostanzialmente condiviso non solo dall'Amministrazione ma anche dallo sfidante democratico si è aperta, come dicevamo sopra, la caccia al capro espiatorio, e il prescelto ha mostrato di non gradire rivendicando la paternità di tale piano. Le altre voci, da Bremer alla CIA, si sono inserite nella strada aperta da Rumsfeld e hanno iniziato una guerriglia di dichiarazioni che certo non terminerà prima delle elezioni americane.

In Italia questa polemica ha avuto un suo riscontro con le dichiarazioni di Fini, Martino (il più americano dei ministri di Berlusconi) e di Frattini, il nostro grottesco ministro degli Esteri completamente tagliato fuori dalla gestione del rapimento delle due volontarie di "un ponte per…". Tutti e tre in contesti diversi hanno fatto eco alle dichiarazioni provenienti da oltre Atlantico proponendo l'avvio del disimpegno delle truppe occidentali, il recupero di Moqtada al Sadr e il rispetto della data delle elezioni irachene. In Italia la logica è più immediata: il governo Berlusconi sa che la guerra e l'occupazione sono fortemente impopolari nel paese e non vuole correre il rischio di restare intrappolata in un conflitto al quale non ha mai veramente aderito nel momento in cui gli USA hanno iniziato a configurare una strategia per l'uscita dal paese. Infatti il corollario principale della tesi per cui gli USA hanno difficoltà crescenti a sostenere i costi dello sforzo bellico è che il pagamento di questi ultimi deve essere sempre più lasciato agli alleati che sono tenuti a concorrere con denaro e con truppe alle avventure di Washington. La guerra in Iraq è stata la prima in cui gli USA hanno avuto serie difficoltà a mettere in atto questo modello a causa del rifiuto franco-tedesco all'arruolamento della NATO tra i combattenti. Anche l'accordo recente per il quale l'Alleanza Atlantica addestrerà poliziotti e militari iracheni del governo Allawi sembra più un contentino concesso agli americani per raffreddare la tensione che non una vera e propria adesione. L'Italia in questo quadro inizia a temere di trovarsi con il proverbiale cerino in mano, costretta ad accollarsi costi militari ed economici della guerra ben superiori a quelli preventivati. A questi si va ad aggiungere il problema rappresentato dalle crescenti difficoltà di rapporto nel mondo arabo, difficoltà particolarmente pesanti per un paese come l'Italia che negli ultimi cinquant'anni ha avuto relazioni privilegiate con gli esponenti di questo mondo e che da esso dipende fortemente per l'approvvigionamento energetico. Un insieme di motivi più che validi per i quali è del tutto normale che gli esponenti più avveduti del governo Berlusconi siano alla ricerca del modo migliore per ritirarsi dall'Iraq al momento giusto senza rischiare di trovarsi a svolgere lo scomodo ruolo di ascari degli Stati Uniti.

Giacomo Catrame






















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