XVI.  L’ergastolano

Quando smisi di farmela addosso
ero già su pensieri obbligato
troppo grandi per me ed esposto
agli applausi mi sentivo un pagliaccio
di buoni cristiani per il mio genio.
Mi nascondevo a recitare
sotto il tavolo ovale del salotto.
Scorticavo l’incavo dei gomiti
sperando un aiuto e pigliavo sberle.
Scelsi la solitudine e il silenzio.

Poi cominciai a camminare.

Camminavo ragazzino da solo.
Andavo per terre che costeggiano
terre gonfie di girasoli e grano.
Mi piegavo a salutare ogni incontro
perché così m’era stato insegnato,
ma buona educazione trasgredita
mi piegavo al villano e alla carrozza.
Perennemente assetato vagavo
fra slanci fanciulleschi e impeti di rivolta.
Odiavo il furore tecnologico
e le ordinate opere degli uomini.
Presupponenza del potere.
Imparai sulle barricate
quanto sanno essere forti le mani,
più belle delle macchine o d’una catena.

In una vita differente
seguivo le donne i loro occhi
bevevo profumi aprivo le porte
i loro letti erano senso
d’estrema sofferenza –
m’innamorai dell’illecito
di immagini splendide dell’orrido,
il mostruoso e l’infimo tracciavano
la sottile trama d’un vivere
intricato e sensuale –
bellezza spoglia di fronzoli.

Stanco un giorno del cappio che obbligava
movimenti e mente mi misi in viaggio
cercando strade che obliassero
questo vivere immobile in un tempo assente.

Tornato vivo presi a combattere
immerso in una ragione tenace
tentai d’affermare l’indicibile.

Poi, come un eretico criminale
sono stato costretto a camminare
fra gli scherni e la derisione,
accusato d’assassinii che legalmente
compie il potere, quasi con candore.

Legato impedito al volo ho comunque alzato
la testa per trovare qualcosa di meglio
da vivere e patire sopra la merda.

E ora, assenza. Niente, in nessun luogo.
Libertà, dea meschina.
                       Guardo il mare.
Ci concedono di spaziare
con gli occhi su questo mare immobile.
Perché anche noi meritiamo rispetto!
Ci dicono di amare il mondo
la natura civile e uniformarci,
avere pietà di noi,
ubbidire e comprare.
E naturalmente sgobbare.
È per il nostro bene,
ne va della nostra salute.
Così ci permettono di guardare il mare.
Perché anche qui siamo liberi!

Di là dal muro sembra un gatto.
Ne ho conosciuti molti, denudati.
S’aggirano vuoti per il corridoio.
Aspettano sorrisi o un perdono.
Si prendono bonari pacche
dalle guardie sullo stomaco
e sulle spalle, alternativamente.
E aspettando abiurano. Silenziosi
e inerti zombie. Maschere squallide.

Il mio compagno ronfa. Sembra un feto.
Ai sogni s’agita come un bambino.
Dovrebbe evadere, lui può riuscirci.

Ci sono uomini che sanno varcare
confini osano i fiumi il tempo
nuvole viaggianti in intime migrazioni.
Sono uomini che sanno parole
e non le sanno usare
non ne conoscono il potere.
Ci sono uomini che sanno
nebbie addensate su un ritorno.
Terrore angoscia squagliata ansia.

Sfiora la notte un sogno
che agita in alto i bracci
chiara e senza vento
narra d’un assassinio –
nottola cupa e nera
scura una luce fioca.
Morta è la vita, morta!
Nessun istante vivo
non una sweet pressione
più cupa del deliquio del peccato
più molle di qualunque suono o odore.
Fiaccata mente sveglia!
vegliare queste notti non ha senso.
La vita è morte viva.

Ormai ogni vicolo, vuoto, tace.
Dai tetti gronda una pioggia sottile,
muta, ch’è difficile ricordare.

 

XIX LA FUGA