XIV.  L’omicidio

Finalmente nella mia stanza. E solo.
Fuori, la pioggia.
Il sole era ancora accecante, sentivo una determinazione e una durezza mai vissute prima. Avevo ripetuto a mente ogni gesto. Presi a preparare tutto con la solita cura minuziosa. Calmo mi vesto scegliendo la camicia più adatta al mio umore, al mio compito. A destra la tracolla. Nella mano sinistra il mio dolce strumento traslucido e ben comodo nella custodia foderata di velluto vinaccia. Uscii di casa ripetendo i passi le strade i vicoli gustandomi le facce ignare ostentando saccenza.
A una svolta, subito appresso a una fontana gocciante, fricchettoni,
ce l’hai una sigaretta?, con la prosopopea della loro ascesi, e la magnificenza vuota dei poteri che da pulpiti contrapposti arringano una folla strusciante fra le ottuse vetrine del tempio. Fino a raggiungere il luogo che avevo individuato come il più adatto all’assolvimento del mio dovere.
Tutto come previsto. Macchine corredate di lampeggianti. Commesse poggiate agli stipiti con l’ozio che divora le unghie. Un boxer col pelo come un rivolo da una gronda sforacchiata lungo un muro che scorre fino alla coda, ritto. Una vigilessa circuisce un’ignara bambina con l’ausilio d’un demone morbido che dietro grandi orecchie tonde nasconde bavanti fauci.
Tre gradoni alla mia destra. Un’ottima base logistica. Posai la custodia col solito affetto e mi appoggiai ad aspettare, senza mai distogliere gli occhi – un libro di canti per dissimulare l’attesa – dal luogo dell’appuntamento.
A non più di cento passi si fronteggiano la farmacia e il chioschetto di succhi e frutti esotici. Poco più in là, il palazzo Piti irride con la sua scalinata appiccicosa di piscio gassato il rigor mortis del Tribunale e del suo funereo portale, sorvegliato da un inutile basco azzurro-cielo.
Dal mio comodo appostamento vidi uscire ridicoli gorilla premuniti di auricolari e magica polvere bianca.
È giunto il tuo momento e il mio, sconosciuto e distante amico.
Non una goccia di sudore, nessun fremito.
È qui a due passi da me. Ha gli occhi venati di verde, occhialetti alla moda, un po’ stempiato, naso leggermente curvo e lungo, orecchie grandi, lineamenti nel complesso gradevoli.
Sento agitazione intorno a me, qualcuno urla altri scappano. Tutto questo mi ha sempre procurato una sensazione di godimento. Nulla mi turba. È un attimo.
Metto con calma lo strumento nella sua custodia e mi avvio, fingendo tranquillità.
Sembra che i gorilla non si siano accorti di nulla, tantomeno il basco azzurro.
I lampeggianti accesi piano vanno verso il belvedere; si fermano a delle strisce, un gruppo ordinato di turisti, poi svaniscono al mio udito.
Non riesco a vivere la presenza del mio indice, quello che non si è mosso.
Provo un’estrema vergogna.
Cammino a testa bassa mentre mi viene incontro una divisa in borghese spalluccia con un sopracciglio come a dirmi
ma ‘ndo vai! e passa oltre.
Sudo freddo – sono completamente bagnato.
Decisi di ritornare attraverso l’intrico dei vicoli bui che si dipanava per il pendio dolce della collina per evitare sguardi indagatori per venire a nascondermi sulla poltrona nella mia stanza.
Io e la mia sconfitta impressi su quella poltrona aspettavamo che ci venissero a prendere sorseggiando dalla bottiglia che avevo preso per festeggiare. Io ero stanco.
Ero sicuro. Questa volta sarebbe successo.

 

IL COCITO