IX.  Secondo sogno – Il viaggio

 

Ho attraversato il fuoco. Nel bicchiere un liquido giallo oro. Piscio carico d’alcol. Una canzone americana nelle orecchie. Luci bisbiglianti. Persistente senso di vuoto. Un uomo ride allo sfottò del barman. La testa s’abbassa s’abbassa pesante pesante s’abbassa verso il tavolo segnato dai coltellini scemenze chiavi.

Lo sgabello al bancone ride di te della tua fuga perché di fuga si tratta. Puoi trovare decine di motivazioni tutte esatte incontestabili considerazioni intellettuali molto intellettuali intorno al viaggio alle sue valenze etiche e sociali o spingerti oltre considerare il viaggio come una rinascita, ci si ricrea aprendosi una vulva nello stomaco e da un nuovo utero il proprio riemergere. Attraverso il viaggio la possibilità di definire un nuovo essere in tutto sciolto dall’esistenza precedente. Cancellare ogni traccia. Ma è un viaggio che pretende un’estrema solitudine, che esclude ogni terrore speranza o consapevolezza d’un ritorno.

Ed eccomi qui seduto in un pub ch’è uguale meticoloso nello squallore a tanti che ho già pagato a bermi un whiskey irlandese come fosse un regalo. C’è tutto qui con me; indosso vestiti nuovi mai messi – già questo è un ricordo! – tutto è qui com’un’ossessione un battere ridondante circolare di sensazioni troppo vicine tutto mi passa davanti su questo tavolo com’una macabra processione osservata in una bacinella nel centro d’un incrocio dai bracci uguali – tre – in una notte di luna piena. La sgradevolezza di tutti gli errori compiuti consapevolmente trovando giustificazione in un’autoironia molto spicciola autocondiscendente il piacere vissuto e goduto ogni volta con avidità come se ce ne fosse penuria e la volontà di mortificare il piacere stesso arrischiandomi a cercarlo nel disgusto già sperimentato come mangiare una tavoletta di cioccolato fondente sapendo bene che si tratta di uno stronzo essiccato e spianato a cubettini.

Non c’è dolore che valga quanto quello che ho dentro.

Ah, presunzione insolente! Eppure il dolore l’ho cercato io e me lo sono conquistato a furia di forzature a sforzo come se avessi qualche colpa da espiare ad onta di tutte le espressioni d’innocenza della convinzione che a nessuno e in nessun caso avrei dovuto rendere conto del mio agire se non di fronte al mio giudizio e alla mia coerenza etica. Ma allora potrei dirmi che tutto ho determinato la costruzione di un’Ethica e coerenza conseguente e reiterate pratiche incoerenti solo ed esclusivamente per arrivare a dissacrare me e il mio smisurato amor proprio. Cos’è del resto la Metamorfosi se non il rifugiarsi nel bianco d’un arrocco ben distanti dal rito del sentiero e della pozza dal candomblé farsi roccia o monte amarsi tanto da umiliarsi per apprezzarsi di più sopra nessun altro.

È tutto banalmente semplice!

Cercavo un viaggio assoluto definitivo che mi perdesse chiudesse con la mia esperienza con le mie conoscenze mi desse la possibilità di ridefinirmi in essenza senza più costituire un referente per me per le mie lucubrazioni – un viaggio che fosse partenza ultima, razionale. A niente comunque è valso riflettermi nel vetro in corsa a niente il convincermi che la corsa non avesse partenza il biglietto stesso l’ho ancora in tasca con le sue indicazioni la sua precisione burocratica e ancora non mi risolvo a buttarlo o a usarlo come filtro.

Si rese conto di parlare ad alta voce e alzò gli occhi.

Di fronte aveva una donna, bronzo la sua pelle – una premonizione.

In lui non era ancora avvenuto il miracolo, non si sentiva ancora un’insegna appesa che oscilla al vento nelle notti d’inverno.

Duplice senso d’una successione di lettere. Duplice affanno: l’affanno del sé e dell’altro.

Ciao che vuoi?

Come Che vuoi?, sono la cartomente del pub, la cartomante pagata con una cena e una bevuta; sono qui per offrire una piccola gioia a chi ne ha bisogno o accrescere la sofferenza, come a te. E ne hai bisogno.

Perché?

Per la metamorfosi! Non è che un viaggio.

Scusa, un altro. rivolto alla cameriera tu? che bevi?

Niente, grazie.

La cameriera posò il bicchiere proprio sopra l’antico segno d’un altro bicchiere incrostato sul tavolo e dentro un fuck! come un rimprovero.

Posso darti quello che cerchi, anche se un viaggio per quanto definitivo non sarà mai assoluto; tutto torna come una malattia endemica che non si può debellare.

Benchè le tue crudeli sopracciglia ti conferiscano un’aria strana che non è certo quella d’un angelo ho voglia d’ascoltare quello che hai da dirmi anche se non ti crederò mai strega dagli occhi seducenti; ma divertiti pure alle mie spalle ché io mi divertirò alle tue.

Sii incantevole e taci!

No, parla pure. Non cambierà nulla, la mia meschinità il mio sano egoismo il mio autovampirismo.

La cartomante intonò una litania arabesca. Si ritrovò in un pozzo orfico immerso fino al petto appeso per i piedi. Non riusciva ad afferrare un appiglio sufficiente al respiro. L’odore troppo denso pregnante nauseante dell’incenso lo sbatteva indietro nel tempo. Ancora ricordi, dei più sgradevoli.

Devi liberarti di tutto se vuoi partire realmente!

Ma che vuole questa? Ma chi l’ha chiamata? Se ne sta seduta al mio tavolo offrendomi ostentatamente la vista della sua arrogante bellezza minacciandomi con lo sguardo fisso com’un indice intimandomi una profonda vergogna per tutto il mio vissuto. Il piacere di stare per ore allo specchio sentire con le mani instancabili la mia pelle e trovarla nuova ogni volta e tutto qualsiasi leccata carezza bacio ogni goccia di sudore versata o bevuta ogni lacrima il gusto minimo d’una pisciata ogni piacere rubato carpito agli altri – ogni carezza è un furto! – per questa smania costante di appropriarmi di qualsiasi atto vivo di ritrovarmi nel godimento nella gioia di altri corpi e altre menti non perché io non sia capace di godere di me e per me ma semplicemente perché godere del godimento di altri entrare nell’intimità più celata per violarla tradirla è immensamente appagante è l’appagamento e il godimento d’un ladro, un artigiano, che dopo il furto osserva beato il frutto del suo lavoro e dopo l’archiviazione del caso per mancanza del minimo indizio rende la refurtiva e si costituisce, per goderne ancora.

Vergogna di questo. E del resto.

La vergogna è solo tua, io non ti obbligo a niente. Ma a questo punto la tua e la mia volontà non hanno più senso, non contano niente.

Una violenta sensazione di vertigine gli si attorcigliò partendo dalla punta dei piedi addosso accompagnata da un’ondata di gelo, dentro. Vide per l’ultima volta quegli occhi il viso il bronzo, poi dimenticò, dimenticò tutto. Incenso sensazione di caduta vertigine.

Abbracciato a sé cominciò a rotolare lungo la scoscesa di una piaggia oscura. Un dannato che scivola senza lampada sull’orlo d’un abisso il cui sentore svela un baratro limaccioso. Sbattè la testa sul duro. Un rigagnolo.

Fuori uomini e donne soli scivolando come le gocce dentro condensate sul vetro gocciolanti.

Perché io cerco il vuoto il nero e il nudo!

Tentò a tastoni di trovare un sostegno, inutilmente. Decise di procedere carponi nel fango. Trovò una gradinata; non riuscendo ad alzarsi, salì i gradoni facendo il cane, a ognuno un latrato. In cima trovò un bicchiere pieno e una fontana che non gettava. Non bevve.

Davanti l’incanto della spuma visibile, riflesso di luna, fra uno squarcio di montagne. Il cielo come una grande alcova. Al solo pensiero subì delle contrazioni indescrivibili. Estasi solitaria. Venne, senza toccarsi.

Riuscì finalmente ad alzarsi. Si trovò nero alla luna. Con calma si avviò verso il mare. Nel pendio dolce trovò la forza di riflettere. Piegava le ginocchia con piacere quasi fosse stato costretto per lungo tempo in corsia – un’interminabile fila di letti vuoti – con un amplesso collettivo di barre d’acciaio conficcate nelle gambe. Camminava dolce scendendo verso la nebbia che padrona del buio rendeva fluorescenti scarafaggi e formiche. La lentezza dei lacci lo fermò. Si guardò intorno. Non gli riusciva di distinguere niente. Sentì il vuoto, fuori. Girò su se stesso accusò il freddo; ancora una sensazione di vertigine fastidio e disagio.

Riprese a camminare, la testa china, serbando rancore per chi con facilità apprezza, guardando la punta dei piedi. Avvertiva la presenza di occhi sui suoi passi, ma ormai aveva deciso: nessuno più darà un senso ai miei cammini – un alto proclama – non io, né persone come me così facili a prendersi sul serio e a ridere della serietà d’un vissuto che non sia il proprio.

Ma si sentì costretto a correre, a scappare. Non riuscì a dominare i processi biochimici del suo corpo, non c’era mai riuscito. Ora lo sapeva, lo stavano seguendo – erano in molti – creandogli come un cordone tutt’intorno. Un sasso una radice e si ritrovò per terra.

Ancora nel fango come fosse il letto di casa comodo molto comodo se non fosse per quest’umidità.

Si sentì spogliare legare i polsi le caviglie. Stretti i nodi, fu sollevato dalle gambe. Sentì il vuoto penetrargli nella carne come un vapore sottile. Fuori, un frenetico formicolare, angosciante; il camminare sulla pelle di migliaia d’insetti i più ributtanti, non più visibili. Nessun senso riusciva a percepire un qualcosa che fosse forma; sola esisteva la sostanza del pizzicorio che quei piccoli mostri provocavano nel mangiargli la pelle, a rendere più estenuante l’impotenza. Finché non giunse almeno per gli occhi il sollievo d’un punto bianco, sotto di lui. Mera illusione! Quel punto, in un attimo benedetto, non provocò che uno strazio maggiore: un’esplosione di bianco, lancinante. Con tutte le forze cercò di ritrovare il buio, alzando la testa, poi un dolore estremo attraverso gli occhi gli entrò nella carne squarciandola. Si sentì calare verso il bianco. Toccava prenderlo tutto, sentire il dolore fino infondo alle ossa oltre la paranoia e la coscienza necessaria alla sua comprensione. Ma in quei momenti non comprese: era un’anfora incolmabile priva di qualsiasi volontà cosciente, consapevole solo della propria schiavitù.

Si attenuò la luce. Sotto di sé l’abisso scheletrico di un volto che ha un nome. Fascino d’un nulla follemente agghindato. La sua essenza è data dal bianco: il sé è un riflesso.

Si svegliò bagnato dalla spuma, il senso di vuoto spiegatosi lontano. Era il crepuscolo, l’ora in cui lo sciame dei sogni malvagi torce i fianciulli bruni sui cuscini.

Completamente bagnato si toccò. Toccò la sua pelle, nuda. Più morbido al tatto il suo corpo si svelò completamente nuovo, sinuoso. Non aveva bisogno d’uno specchio, si guardò con le mani ricoperte di salsedine, si comprese.

Si toccò e si accarezzò estasiato da un piacere assoluto, un piacere che, ne era sicuro, più che certa, mai nessuno aveva provato: un corpo e una coscienza diversi nel genere, differenti, simili a due angeli che una febbre implacabile tortura, simbiotici.

Si alzò dalla spuma, nuda, decisa a perdere la sua nuova verginità col primo venuto, sicuro che sarebbe stato orribile, pronta a farlo.

Cominciò il suo cammino osservando soddisfatta le sue nuove forme la sua nuova ombra e una mano sulla spalla  
Scusa, ma dobbiamo chiudere.
Mhm, … ah, sì, … scusami. Quanto ti devo?
Niente, offre il Logica Pub.
Si alzò – i suoi fianchi toglievano il fiato! – e indossò il cappotto.
Buonanotte! le disse ammiccante il gestore.
Guardò fuori, era il crepuscolo. L’indaco si mostrava arrogante sopra il porto come un ghigno. Si guardò il seno sotto il maglione, tondo e sodo; sorrise di piacere desiderando nient’altro che godersi da sola, per ore. La mano nella tasca del cappotto, il cappotto dalle maniche troppo lunghe, raccolse un cartoncino completamente bianco; spiegazzato e bianco.  
Si voltò il suo viso luminoso e gaudente sorrise al gestore e prima d’uscire 
Buongiorno!

 

seconda sezione

IL CIMITERO