Trent’anni dopo…

Appunti su “Civil Disobedience” di Hannah Arendt

Nel 1970 Hannah Arendt pubblica “Civil Disobedience” (1) un saggio di una cinquantina di pagine frutto di un simposio - “Is the law dead?” - svoltosi nella primavera dello stesso anno presso la Bar Association di New York nel corso del quale l’autrice si era interrogata su: “La relazione morale dei cittadini con la legge in una società di consenso”. Il perché della tematica è evidente: gli Stati Uniti hanno alle spalle una stagione lunga un decennio di disobbedienza civile, condotta prima per i diritti civili delle popolazioni di colore e poi contro i reclutamenti di giovani per la guerra in Vietnam. Il fenomeno della disobbedienza civile in quegli anni aveva dimostrato un’effettiva capacità di produrre cambiamenti nel tessuto legislativo, in particolare in relazione alle rivendicazioni in materia di diritti civili.

Nel periodo in cui si svolge il simposio si riscontrano i primi sintomi di una chiusura al mutamento da parte del mondo istituzionale. L’intervento della Arendt si colloca dunque in questo contesto come richiesta di ulteriore e rinnovata apertura, motivata dal fatto che la disobbedienza civile, come espressione degli interessi del libero associarsi dei cittadini è perfettamente compatibile con il ‘framework’ costituzionale degli Stati Uniti e anzi rappresenta una potenzialità di rinnovamento legislativo, politico e sociale.

Trent’anni dopo, la disobbedienza civile ha acquisito una rilevanza planetaria, testimoniata da immagini, voci e scritti che si diffondono tramite i canali della comunicazione globale. Anche in paesi, dove questa tradizione non aveva in passato mai preso piede, d’improvviso, il fenomeno diviene visibile. Lo scritto della Arendt acquista, dunque, una nuova attualità e spinge a produrre alcune considerazioni riguardo il fenomeno.

I casi classici: Socrate e Thoreau

Secondo la Arendt i due casi classici di disobbedienza civile sono quelli di Socrate e Thoreau (2). Essi soffrono volontariamente le pene loro inflitte per esplicitare una contraddizione tra coscienza individuale e legge. Questi casi “sembrano provare che la disobbedienza può essere giustificata solo se colui che infrange la legge è disposto ad accettare la punizione per il suo atto”(pp.gg.51-52). Oltre a questo ”desiderio” di punizione i casi classici presentano, secondo l’analisi arendtiana, un processo di formazione della decisione di disobbedire che avviene solitariamente "in foro conscientiae” (pg.58). Il rifiuto di obbedire di Thoreau non viene dunque posto dal "cittadino Thoreau", ma esclusivamente sulle basi della propria coscienza individuale. “(Thoreuau) rifletté sul proprio caso non sulle basi della relazione morale del cittadino con la legge, ma sulle basi della coscienza individuale e degli obblighi morali della coscienza” (pg.60). Un atto di coscienza e quindi un atto non-politico: “La coscienza è apolitica. Essa non è primariamente interessata al mondo in cui l’ingiustizia viene commessa o alle conseguenze sul futuro corso del mondo che l’ingiustizia può provocare” (pg.60).

I casi classici sono dunque atti individuali, apolitici, di coscienza e accompagnati da un desiderio di punizione e, pertanto, differenti dalle forme attuali di disobbedienza civile (e da quelle a cui si riferisce la Arendt) che sono invece il risultato di processi collettivi, supportati da una visione generale del mondo, delle cause dell’ingiustizia e sicuramente non accompagnati da una accettazione passiva della punizione. Scrive la Arendt: “non ci troviamo piú a che fare con degli individui isolati o con fenomeni i cui criteri possano essere derivati da Socrate o Thoreau. Ciò che veniva deciso in foro conscientiae è ora divenuto parte della pubblica opinione”(pg.68). L’atto di disobbedienza civile si colloca dunque in uno spazio immediatamente pubblico e collettivo.

Il dualismo delle leggi ed il mutamento sociale

Agli inizi degli anni ’70 negli Stati Uniti era diffusa l’opinione secondo la quale la disobbedienza civile veniva incoraggiata dal dualismo in auge tra legge federale (ovvero nazionale) e legge dei singoli stati federati. “Il movimento per i diritti civili (…) ritiene in modo evidente che la disobbedienza a delle ordinanze o leggi del Sud possa essere compresa come un richiamarsi al sistema federale, alla legge e all’autorità della nazione contro la legge e l’autorità del singolo stato federato” (pg.53).

Paradossalmente questo dualismo della legge, con la crisi degli stati nazionali e con l’emergere di nuovi organismi di sovranità globale, si estende oggi in ogni luogo. Le leggi e le norme dei singoli paesi vengono adeguate gradualmente, tra ritrosie e resistenze, ad un contesto di sovranità ben piú ampio provocando numerose contraddizioni e incompatibilità: dalle decisioni economiche o finanziarie alle normative ambientali o sulla sicurezza degli alimenti. La disobbedienza civile oggi si confronta con una possibilità di innestarsi proprio su questo dualismo. Allo stesso tempo essa si può esprimere in sempre piú campi. Negli Stati Uniti la disobbedienza civile si estese nel corso degli anni ‘60 da un terreno di scontro con le leggi dei singoli stati su di un terreno di diretto confronto con la legge federale stessa, in particolare sul tema della legittimità della guerra del Vietnam.

Secondo l’autrice di “Civil Disobedience” il contratto sociale ed il consenso si basano sulla promessa: “le promesse sono l’unico modo possibile per gli uomini per organizzare il proprio futuro, per renderlo prevedibile” (pp.gg.92- 93). Secondo questa analisi un rapido mutamento del contesto sociale può causare l’impossibilità di mantenere quanto promesso: “esistono un gran numero di circostanze che possono provocare il rompersi di una promessa, la piú importante è il cambiamento” (pg.93).

E’ evidente che gli Stati Uniti si trovino, proprio nel periodo a cavallo tra anni ’60 e ’70, in un contesto di trasformazione epocale: gli accordi di Bretton Woods stanno per frantumarsi, il valore del dollaro sta per essere sganciato da quello dell’oro, la crisi petrolifera è alle porte, la guerra del Vietnam divide profondamente la nazione ed i conflitti sociali si estendono ovunque. In questo contesto di mutamento i cittadini iniziano a nutrire seri dubbi sulla legittimità del sistema di governo, perché esso mostra una sostanziale incapacità a funzionare in un modo propriamente democratico e ad adeguarsi a quanto avviene nella società. Per questo motivo i cittadini mettono in atto pratiche di disobbedienza civile.

Una domanda che oggi diviene d’obbligo è quella relativa alla natura del mutamento in atto: sono la globalizzazione economica, le nuove forme di comunicazione, le nuove tecnologie e forme di lavoro dei fattori che possono provocare una frattura nel consenso a livello mondiale? E’ prevedibile e controllabile il futuro nel presente quadro istituzionale oppure le spinte della disobbedienza civile divengono sempre piú necessarie per un riadeguamento di esso?

La democrazia statunitense

La Arendt è un’apologeta del sistema democratico statunitense. Ella ritiene che questo sistema si fondi su di una capacità di assumere il dissenso e la disobbedienza all’interno delle istituzioni. Conseguentemente viene posto il seguente interrogativo “se la disobbedienza civile è qui per rimanere, come molti hanno iniziato a credere, la questione della compatibilità di essa con la legge è di fondamentale importanza: la risposta che le sarà data sarà decisiva per decidere se le istituzioni di libertà sono flessibili abbastanza per sopravvivere sotto la forza del cambiamento senza guerra civile e senza rivoluzione” (pg.82). L’efficienza democratica del sistema politico americano, a parere della Arendt, oltre che su delle istituzioni aperte, si fonda anche sulla capacità associativa dei cittadini: “Tocqueville è stato il primo a parlarne. Con sorpresa, con ammirazione e con qualche timore. Egli riteneva che la forza peculiare del sistema politico americano fosse la capacità di associarsi dei cittadini – ‘in nessun altro paese del mondo il principio dell’associazione è stato applicato e usato per una moltitudine di oggetti ampia come in America ‘ “ (pg.94). Per l’autrice di Civil Disobedience dunque “i disobbedienti civili null’altro sono che l’ultima forma di associazionismo volontario e quindi in sintonia con le piú vecchie tradizioni del paese” (pg.96). Oltre ai gruppi della disobbedienza civile la Arendt inserisce in questo contesto associazionistico e di partecipazione dei cittadini al governo anche le lobby ed i gruppi di pressione. Tutte queste forme esprimono in modo diretto – senza la mediazione dei partiti, proprio come la disobbedienza civile - gli interessi di soggetti economici, sociali e gruppi particolari. Un modo di partecipazione al governo che sempre più sta diventando globale. Anche le lobby esprimono quindi la volontà di partecipazione dei cittadini, delle imprese e dei soggetti sociali al governo. Per la Arendt, dunque, la disobbedienza civile è compatibile con lo spirito della legge americana anche se appare estremamente difficoltoso inserirla nel suo sistema legale. Il passaggio fondamentale per la creazione di nicchie istituzionali che viene proposto dalla Arendt è il riconoscimento delle minoranze disobbedienti alla stregua delle altre minoranze e la messa a loro disposizione di strumenti tramite i quali influire sulle decisioni governative. La situazione della disobbedienza civile oggi è per molti versi simile: le istituzioni globali si caratterizzano per arroganza e chiusura, al contempo però, vengono espresse dichiarazioni d’intento per l’apertura di un dialogo.

Voci che non possono essere non ascoltate

Si diceva della nuova diffusione globale della disobbedienza civile. Dagli Stati Uniti all’India, dalla Nigeria alla Francia trent’anni dopo ritornano d’attualità le considerazioni della Arendt. Ci troviamo di fronte proprio a quanto precedentemente esposto: a) dualismo tra leggi locali e sovranità globale, b) rapido cambiamento del contesto sociale in conseguenza della globalizzazione e corrispondente incapacità del sistema di istituzioni ad adeguarsi al cambiamento e c) diffusione di un modello istituzionale di tipo americano, sensibile per motivi strutturali alle istanze della disobbedienza civile. L’associazionismo oggi assume caratteristiche globali e molte NGO e lobby divengono interlocutori privilegiati diretti o indiretti delle nuove istituzioni di sovranità imperiale. Eppure gli interrogativi posti dalla Arendt in questo nuovo millennio sono sostanzialmente irrisolti. Le tremende contraddizioni che attraversano il pianeta nell’era della globalizzazione non possono che obbligarci a porre all’ordine del giorno in modo urgente l’interrogativo su quali siano gli sbocchi per la disobbedienza civile.“Quello che spaventa il movimento degli studenti, il principale gruppo di disobbedienza civile, non è solo il vandalismo, la violenza, la cattiva tempera e comportamenti ancora peggiori, ma la crescente infezione del loro movimento da parte delle ideologie (...) che infatti dividono e dissolvono la loro associazione” (pg.98). Sulle basi di una sostanziale indifferenza dell´attuale movimento globale di moltitudine riguardo le ideologie è possibile affermare che le preoccupazioni della Arendt non sono più legittime. La disobbedienza civile è cresciuta e non è più strumentalizzabile. La questione degli sbocchi resta comunque fondamentale. Andrebbero ricercate risposte non univoche all´alternativa tra sbocchi istituzionali in apposite nicchie "à la Arendt" e il dispiegamento immediato di un potere costituente in grado di "andarsene costituendo"... e la risposta sicuramente non è semplice, ma senz´altro è urgente.

Note:

1- L’edizione cui si fa qui riferimento è quella pubblicata sulla raccolta di saggi di Hannah Arendt “Crises of the Republic” – A Harvest Book, Harcourt Brace & Company, New York, 1972. Il saggio “Civil Disobedience” venne originariamente pubblicato sulla rivista New Yorker. I passi citati sono stati tradotti dall’autore di questo articolo.

2- Il caso-Socrate è sicuramente noto a tutti. Il caso-Thoreau forse meno, il poeta e filosofo statunitense si rifutò di pagare la poll tax ad uno stato da egli ritenuto schiavista e venne imprigionato per una notte. Il giorno dopo venne liberato perché un suo parente aveva versato il pagamento delle tasse. Sulle basi di questa esperienza egli scrisse “On the Duty of Civil Disobedience”, libro nel quale per la prima volta appare il termine disobbedienza civile.