A volte ritornano (i corpi)

Judith Revel

Una citazione ed un evento: tra i due, venticinque anni e – forse – un cambiamento di paradigma politico al quale oggi bisognerebbe dare una formulazione adeguata. La citazione e’ di Michel Foucault e risale al 1975: “Il momento storico delle dicipline e’ quello in cui nasce un’arte del corpo umano che non ha soltanto per scopo l’estensione delle sue abilita’ o l’appesantimento della sua soggezione, ma la forma di un rapporto che, nello stesso meccanismo, lo rende tanto piu’ obbediente quanto sara’ utile e viceversa. Si forma allora una politica di coercizioni che sono in realta’ un lavoro sul corpo, una manipolazione calcolata dei suoi elementi, dei suoi gesti, dei suoi comportamenti. Il corpo umano entra in un meccanismo che lo perquisisce, lo disarticola e lo ricompone” (Sorvegliare e punire, Terza parte: “Corpi docili”). L’evento, invece, risale alla fine del mese di gennaio 2000 e viene raccontato da un noto quotidiano: “La tattica: camere d’aria come scudi. (...) Ha fatto il suo debutto la tattica delle camere d’aria: enormi gomme applicate sul corpo come scudo, mani alzate per evidenziare l’atteggiamento pacifico, tute bianche in segno di visibilita’ e di non-violenza. Cosi’ bardati, i giovani dei centri sociali hanno conquistato metri di strada fino a via Corelli, nonostante le intimidazioni degli agenti”. Tra la citazione ed il fatto di cronaca, ognuno di noi puo’ inserire le proprie immagini, la propria memoria: a Pechino, un corpo eretto che blocca un carro armato sulla Pizza Tien An Men; a Parigi, migliaia di corpi in movimento durante lo sciopero generale dei trasporti del ’95: pedoni ciclisti, sciatori (c’era anche la neve), cavalieri, pattinatori; a Parigi ancora, davanti al centro Beaubourg, centinaia di corpi distesi sul piazzale a mimare la morte per protestare contro i laboratori farmaceutici che si arricchiscono con le triterapie anti-AIDS; a Seattle, corpi come statue di sale, che vengono portati via di peso, come se fossero barricate umane da rimuovere; a Berlino come a New York – e forse presto a Roma -, corpi siliconati, rifatti, aumentati di seni da sogno e di sederi da ballerina, truccati, dipinti, esposti, ricoperti di piume e paillettes, posti in cima a zatteroni vertiginosi, ballanti e traballanti, corpi da Gay Pride come un invito al gioco e all´invenzione di se’... E allora ci si chiede: qual’e’ oggi il nostro corpo? Quanto puo’ oggi il nostro corpo? E perche’ oggi non si puo´ parlare di biopolitica se non si capisce che si tratta innanzitutto di una politica dei corpi?

Torniamo a sentire Foucault. “C’e’ stata, all’epoca moderna, tutta una scoperta del corpo in quanto oggetto e obiettivo del potere. Sarebbe facile trovare segni di questa grande attenzione rivolta allora al corpo – al corpo manipolato, coniato, ammaestrato, al corpo che obbedisce, che risponde, che diventa abile, o le cui forze si moltiplicano. Il grande libro dell’Uomo- Macchina e’ stato contemporaneamente scritto a due livelli: quello anatomo- metafisico di cui Cartesio aveva scritto le prime pagine e che i medici e i filosofi hanno continuato; e quello tecnico-politico, che fu costituito da tutto un insieme di regolamenti scolastici, ospedalieri, e da procedimenti empirici pensati per controllare o correggere le operazioni dei corpi” (ibid.). L’intuizione forte del filosofo francese e’ che il problema del rapporto al corpo – cio’ che se ne fa’, la maniera in cui se ne parla, come lo si gestisce e lo si usa – e’ in realta’ l’effetto di giochi di verita’ che sovradeterminano allo stesso modo sia il campo del discorso che quello dell’azione, sia quello dell’introspezione che quello del sapere scientifico, sia il rapporto a se’ che il rapporto agli altri. In altri termini, il corpo e’ una delle possibili modalita’ di un dispositivo di conoscenze e di pratiche che, ad ogni grande scansione storica, ad ogni episteme’ direbbe Foucault, riformula diversamente il modo in cui viene gestito il problema del potere. La nostra modalita’ di rapporto al potere, apparsa circa tre secoli fa sotto il segno di una visibilita’ assoluta sia dell’istanza che controlla – il potere – che di cio’ che viene controllato – l’uomo nel suo essere- visibile, dunque il corpo -, si articola interamente attorno ad una nuova economia della corporeita’: il corpo diventa allora la posta in gioco della pedagogia e della giustizia, della medicina e della “correzione”, ma anche, al contrario, di tutte le tecniche di se’ che appaiono o ricompaiono nello stesso momento; in effetti, questi sono soltanto il tentativo di riappropriarsi di un corpo ridotto allo statuto di mera superficie di iscrizione del potere: l’igiene, la sessualita’, lo sport, la moda, che cercano disperatamente di strappare il corpo alla disciplina prima di dover ammettere il loro fallimento, essendo stati a loro volta assunti dal potere come nuovi meccanismi di disciplinarizzazione dei corpi.

A volte pero’ la storia fa strani scherzi: precisamente nel momento in cui scrive Foucault, quella determinazione epistemologica e storica che viene descritta – il potere come disciplina, il corpo come superficie di visibilita’ del potere – sta cambiando. In primo luogo perche’ scompare un dato essenziale: il privilegio assoluto del visibile nei giochi di potere. Il potere non ha piu´ bisogno di assumere le sembianze di un grande occhio per essere efficace; il potere non ha piu’ bisogno di vedere, cioe’ di identificare, per funzionare; e, simmetricamente, i corpi non hanno piu’ il dovere di essere leggibili, trasparenti, inequivoci: il controllo, che sostituisce i vecchi meccanismi disciplinari, non lavora piu’ a distanza (il paradigma della visione), neanche a voler fare di quella distanza un contatto (quando la visione diventa tatto: per esempio la forma classica dello scontro, del “corpo a corpo”). Il controllo lavora ad una altro livello: non piu’ sui corpi ma sui desideri, non piu’ sullo spazio (la visione a distanza, il contatto ravvicinato) ma sul tempo, non piu’ sui saperi e sulle abilita´ ma sulla vita stessa, non piu’ sulle popolazioni ma sugli individui... Di fronte a quel cambiamento, che Foucault comincia a percepire negli anni ’70, si puo’ capire per esempio l’esplosione di espressioni e di segni corporali che precisamente festeggiano il ritrovamento del corpo proprio, o l’abbandono almeno parziale da parte del potere del corpo come luogo di espressione: il corpo torna ad essere corpo, ed e’ la soggettivita’ a poter finalmente segnare le tracce della sua esistenza sulla lavagna che rappresenta la pelle: dal primo “punk movement” londinense allo spettacolo che la strada ci offre oggi, quanti capelli colorati, capelli rapati, capelli intrecciati, tatuaggi, anelli, piercings, scarificazioni, trucchi, protesi, cicatrici, decorazioni, a testimoniare del reinvestimento soggettivo del corpo proprio. Corpi scomparsi dalla scena politica, corpi nuovamente appropriati in un movimento di reinvenzione di se’.

Ora quello che ci dice oggi l’attualita’ sembra segnare un’altra tappa di questa storia complessa dei rapporti tra potere e corpi. Non si tratta piu’ soltanto di riappropriazione soggettiva. Si tratta, quasi a contrario, di strappare il corpo risoggettivizzato all’unica dimensione del linguaggio privato, cioe’ del segno estetico, per farlo entrare di diritto in quella del gesto, dell’atto, dell’evento, cioe’ del comune, del politico. Meglio: si tratta di farlo entrare in una dimensione in cui dire, fare ed essere non sono piu’ separati ma coincidono in un unico meccanismo di produzione di soggettivita’ allo stesso tempo singolare (ma non individuale) e collettivo (ma non per questo normalizzante): si tratta di inserirlo nella dimensione della biopolitica, della politica della vita, della politica dei corpi. Via Corelli, Milano. Compagni bardati di camere ad aria. Sbaglia il giornale a parlare di scudi, cioe’ di un armamento difensivo. Scudi, magari, lo erano anche; ma quello che colpisce e’ il tentativo di interporre tra i corpi – corpi di manifestanti, corpi di agenti di polizia – un elemento che blocchi sia la visibilita’ che il contatto, cioe’ che affermi il proprio spazio politico come biopolitico e non piu’ come disciplinare. Biopolitica e’ quella forma di politica, che dall’interno del paradigma post-disciplinare del controllo, ricostruisce la possibilita’ di un’agire collettivo. Il pericolo, allora, sarebbe semmai di sbagliare epoca, tornando all’unico agire collettivo che crediamo di conoscere, quel vis-a-vis, quel fronteggiamento cosi’ chiaramente definito da appartenere ormai completamente alla vecchia forma-scontro della disciplina. I copertoni applicati sui corpi dei compagni significano invece il passaggio ad un’altra grammatica del politico. Ma l’errore del giornale non si ferma qui: “...le tute bianche in segno di visibilita’ e di non-violenza” dice in effetti l’articolo, tentando di ricondurre l’evento a qualcosa di noto. Peccato che le tute bianche siano state fin dall’inizio rivendicate come il segno della loro “invisibilita’” (come dire: siamo oltre la disciplina), peccato che non si tratta di non- violenza (la violenza oggi esiste ovunque la si neghi: se loro hanno inventato le guerre umanitarie e le play station che assomigliano a bombardieri – o il contrario? -, perche’ una tuta bianca non sarebbe una bandiera rivoluzionaria?). Siamo di fronte a qualcosa di nuovo.

Seattle, contestazione del WTO. I corpi sono portati via. Subentra sulla scena politica la materialita’ dei corpi, il loro peso, la loro ingombrante presenza. Il potere se ne era appropriato la superficie. Oggi, la soggettivita’ biopolitica ne riscopre la materialita’, la profondita’, la carne. I corpi, piu’ efficaci dei sampietrimi del ’68: sanpietrini dotati di gudizio, sanpietrini fatti soggetti, soggetti diventati barricate di vita.

I corpi? A volte ritornano.