il manifesto - 24 Febbraio 1998
Reddito minimo o lavoro?
LO. C. - ROMA 

E IN ITALIA, che si fa?". Trent'anni, disoccupata, ha riempito un quadernetto di appunti e non si è persa una sola parola degli interventi di Laurent Guillotteau, il rappresentante di Ac! (Agire insieme contro la disoccupazione), uno dei capi dei chomeurs francesi. Come a dire: in Francia siete bravissimi, vi siete organizzati, avete costretto il governo Jospin a ricevervi e qui da noi non riusciamo a combinare niente: "Qual è la vostra ricetta?". "Non abbiamo la bacchetta magica", sorride Laurent, ma una storia di lotte dei disoccupati che dura da almeno 10 anni. E in più, aggiunge Ludovic Prieur, francese trapiantato nel nordest e animatore dei centri sociali dell'Italia del miracolo, mentre in Francia la disoccupazione è "spalmata" in modo omogeneo in tutto il paese, qui le cose vanno in modo diverso. C'è il nord, che ha praticamente la piena occupazione ("faremmo un buco nell'acqua se puntassimo sui disoccupati cronici, dunque lavoriamo sul precariato") e c'è il sud, dove non un solo giovane trova un posto di lavoro. Dunque, bisogna agire nel territorio, nei territori, come pesci nell'acqua.

Un dibattito teso, caldo, quello che ha visto un pezzetto di sinistra romana a confronto con l'esperienza dei disoccupati francesi. Nella Libreria del Manifesto, su un punto tutti sono d'accordo: la straordinarietà della lotta dei chomeurs, anzi del loro esistere in forma organizzata, di essere un nuovo soggetto sociale, un interlocutore per chiunque faccia politica in Francia e che ha trovato un consenso di massa, in una popolazione che ha come "inquietudine maggiore" la disoccupazione.

Acquisito questo punto comune di analisi, le domande, i dubbi, mettono in risalto le differenze. Il rapporto tra la lotta per l'aumento del Rmi (reddito minimo d'inserimento) e quella per la riduzione d'orario, per Guillotteau c'è "fino a un certo punto. E comunque questa lotta può coinvolgere gli occupati, non noi che chiediamo reddito". La lotta è "contro la cultura lavorista della sinistra e la risposta falsa del Ps alle nostre rivendicazioni: la piena occupazione". Semmai, "l'unica condizione perché la riduzione d'orario non sia un inganno, cioè incentrata sulla decurtazione dei redditi e sulla flessibilità, è il reddito a tutti, aumentato ed esteso ai giovani tra i 18 e i 25 anni". Non siamo al rifiuto del lavoro tout-court ma "del lavoro salariato".

Questo taglio non convince completamente gli interlocutori italiani di Laurent e Ludovic. E qualcuno chiede se non si debba almeno intrecciare la lotta per il reddito alle lotte del movimento operaio. Laurent è secco, nel rispondere a chi gli domanda se non sia fondamentale anche per i chomeurs la battaglia per il lavoro degli operai Renault di Vilvoorde, o dei minatori delle Asturie, o dei dockers di Liverpool: "Certo, il legame c'è ma quelle sono lotte difensive mentre la nostra è offensiva. Comunque, le esperienze fallimentari non ci interessano".

Insiste un giovane dal pubblico: "Ma il reddito per tutti non è una soluzione, può essere necessario per una fase ma poi l'obiettivo dev'essere il lavoro". Non è d'accordo Ludovic: "Una politica neokeynesiana non è possibile in epoca di globalizzazione. E poi, cosa sarebbe, l'Iri2? Costerebbe comunque di più far lavorare la gente sensa un senso e una ragione che non scegliere una politica del reddito garantito a tutti". La tradizione lavorista, aggiunge Laurent ricordando "14 anni di Mitterrand e i primi mesi di Jospin", ha prodotto soltanto più disuguaglianza sociale. Parliamo di diritto alla vita, prima che di diritto al lavoro". Per concludere: l'Italia e la Francia sono diverse, ma l'unica via è "il reddito minimo. La riduzione dell'orario in Francia c'è già, è un imbroglio". Ma una cosa in comune tra i due paesi c'è: i padroni al di qua e al di là delle Alpi sono scatenati contro le 35 ore. Vorrà dire qualcosa? 


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