(Foto di Marc Pataut)
Ovviamente, su questa sponda
di Act Up - Paris"Potete espellerci, non ci farete sparire": oggi stiamo inventando qualcosa che somiglia al concetto di "orgoglio". Un "orgoglio precario", per citare le parole del collettivo d'occupazione della rue Vicq d'Azir, nello scorso luglio, a Parigi. Con rabbia, la gente prende la parola autonomamente, esce dalla marginalità cui è stata costretta da anni di inazione governativa, ipocrisia caritativa e discorsi compassati. Tutto questo ci rimanda alla nostra specifica storia politica: la visibilità contro gli appelli alla discrezione, la rabbia dell'immediatezza contro la ragione degli esperti, la conquista dei diritti contro l'attesa dei doni. Tutto ciò, ovviamente, ci fa piacere.
Ma questo movimento è davvero qualcosa di più: è nostro! Lottare contro l'Aids - lo ribadiremo sempre - è lottare contro le discriminazioni e ogni forma di dominio e ineguaglianza che lo alimentano. La precarietà fa il gioco dell'epidemia, allo stesso modo dell'omofobia, delle discriminazioni tra i sessi, della proibizione delle droghe o del controllo delle migrazioni. Nel primo semestre '97, il 69% dei nuovi casi di Aids riguardava persone che non frequentano regolarmente i servizi ospedalieri. Di questi, il 41% ignorava la propria condizione sierologica. Persone allontanate dal sistema terapeutico per scarsità di mezzi economici, per assenza dei diritti (di cittadinanza, n.d.r.) o per le pressioni della polizia - a causa insomma di tutte le impossibilità e le emergenze della sopravvivenza precaria, quelle che fanno mettere in secondo piano l'attenzione dovuta al nostro corpo. Ad ogni passo avanti della ricerca scientifica questa diseguaglianza diventa sempre più visibile: costose e impegnative, le famose "triterapie" sono socialmente selettive; per essere efficaci, esigono un'informazione molto precisa, una frequentazione regolare dei servizi ospedalieri e l'assunzione regolare dei farmaci; presumono quindi condizioni di vita stabili.
La precarietà accresce il rischio di non poter ricorrere alle terapie e favorisce lo sviluppo di resistenze insormontabili. "Con l'Aids, la precarietà uccide": il primo motivo del nostro impegno nella lotta dei disoccupati e precari, è il legame, che lo Stato si ostina a ignorare, fra stato di salute e condizioni sociali. Questo movimento è il nostro, anche perché amplifica una delle nostre più antiche rivendicazioni: la rivalutazione del sussidio per l'adulto portatore d'handicap (Aah). Preso dal panico per l'aumento del numero di beneficiari di un sussidio inizialmente concepito su misura per qualche caso clinico eccezionale (gravi handicap fisici o mentali), per la generalizzazione di un reddito slegato dal lavoro, lo Stato ha lasciato precipitare il livello di questo sussidio. Se nel '75, quando fu creato, rappresentava l'80% dello Smic (il salario minimo legale), oggi copre solo il 51%. Inoltre, il livello del sussidio è sottoposto alla progressione decrescente del "caso per caso" amministrativo: 3.470 franchi a tasso pieno, 2.500 franchi di media, 584 franchi in caso di ricovero per oltre due mesi, 517 franchi in caso di incarcerazione. Il percepirlo, infine, dipende da un esame sospettoso dei nostri corpi e delle nostre vite: quando la deficienza immunitaria non basta, ci tocca raccontare le nostre fatiche o i "disturbi del comportamento, dell'umore, della vita emozionale e affettiva" per poter raggiungere la soglia di invalidità prevista dalla Cotorep (uno dei servizi della Sicurezza sociale, delegatoa gestire i portatori d'handicap); ci tocca mentire sulla nostra vita di coppia per non superare il tetto massimo di reddito, oltre il quale i sussidi familiari non vengono più erogati. Tetto, razionamento, controllo: la violenza del minimo sociale sta senza dubbio nel suo carattere insopportabilmente minimo, ma anche nel tipo di potere - particolarmente coercitivo e esasperante - che viene esercitato. Rivendicare la rivalutazione del sussidio e di tutti i minimi sociali, quindi, è il contrario dell'assistenzialismo: è resistere alla microfisica dei poteri contabili, sanitari o amministrativi; è un'esigenza, molto semplice e molto politica, di autonomia. Vogliamo risorse non solo decenti, ma incondizionate, continue e affrancate da ogni forma di sorveglianza sociale.
Vogliamo il controllo intero ed esclusivo delle nostre vite. Con il movimento dei disoccupati e dei precari, la prospettiva di una tale liberazione viene aperta come raramente lo è stata per il passato. Non c'è dubbio che questo movimento rimette radicalmente in questione il sacro metro del lavoro, con il quale si cerca ostinatamente di misurarci. Per lo Stato, non ci sono malati, ci sono solo lavoratori impotenti o simulatori pigri. Dal '94, il conseguimento del sussidio Aah dipende da un certifcato medico di non idoneità al lavoro con criteri clinici rafforzatissimi: "Non sfuggirete al lavoro a meno che non siate veramente messi molto male". Col passar del tempo, il beneficio di una triterapia può compromettere il rinnovo di un part-time terapeutico: "visto che state meglio, tornate al lavoro!". Due ingiunzioni simmetriche, che costituiscono le due facce di una specie di biopolitica salariale, di un laborioso (in entrambe le accezioni del termine) sogno di Stato. Purtroppo, i nostri corpi non si inquadrano in questa logica. C'è un'intermittenza vitale con l'HIV - un continuo via vai dall'ospedale all'impresa, dall'energia alla stanchezza - restio all'opaca regolarità del tempo di lavoro; c'è anche un'attività del sieropositivo che non si può misurare con il metro dell'impiego: ottenere farmaci, informarsi sui trattamenti, resistere al potere sanitario, far valere i propri diritti. Tutte attività che, collettivamente, producono ricchezza politica e sociale, anche se stanno al taylorismo come la "checca" sta all'eterosessualità: informazione per i malati, controperizie terapeutiche, denunce di discriminazioni, ecc.
Questo è forse il nostro contributo più profondo al movimento dei precari: il sieropositivo in lotta è una di quelle figure sociali che mettono in crisi la bella centralità del lavoro, che costringono a pensare e agire fuori dal lavoro. E' seriamente possibile opporre lo spettro della "società dell'assistenzialismo" a noi che passiamo il tempo a praticare il self-empowerment ? E' possibile senza ironia vantare la "società del lavoro" mentre il nostro stato di salute ci spinge fuori del tradizionale lavoro salariato? Lionel Jospin spera forse di opporre l'impazienza dei disoccupati alla prudenza dei contribuenti, e la pigrizia dei beneficiari dei sussidi al lavoro sottopagato. Per quanto ci riguarda, la malattia ci vieta di scegliere fra la miseria e lo sfruttamento, la nostra durata di vita non ci permette di aspettare budget migliori. E neanche i nostri desideri. Ciò che ci spinge qui, è quindi qualcosa di diverso, ben più che la semplice solidarietà: è questo bisogno di diritti che si è espresso e che condividiamo - diritti garantiti, incondizionati e immediati, contro le concessioni col contagocce, la necessità di fornire prove e gli appelli alla pazienza.
Oggi, la sinistra ufficiale promette il pieno impiego ai disoccupati come si prometterebbe un vaccino ai sieropositivi, e stanzia un miliardo come se prescrivesse aspirina. La sinistra non è sicuramente stata mandata al potere per così pco. Lionel Jospin è di passaggio, come ha detto. Anche noi. Insieme, glielo ricorderemo.