Sul reddito di cittadinanza

di Andrea Fumagalli

Il seguente contributo vorrebbe inserirsi nell'attuale discussione che faticosamente si sta aprendo in Italia sulla distribuzione del reddito ed in particolare sul reddito di cittadinanza. In particolare, vorrei soffermarmi su alcune obiezioni che vengono mosse all'idea di reddito di cittadinanza: la prima nell'ambito dei gruppi antagonisti e del sindacalismo di base (monetizzazione dei servizi sociali a scapito del welfare), la seconda esplicitata soprattutto da Rifondazione Comunista (cfr. Mazzetti: Quel pane da spartire, Boringhieri, 1997) (il reddito di cittadinanza disincentiva il lavoro, quindi la produzione, quindi la disponibilità di merci, impoverendo la società). Una premessa: sull'esigenza del reddito di cittadinanza, mi permetto di rimandare ad altri due miei scritti, anche al fine di definire meglio che cosa si intende per reddito di cittadinanza: "Reddito di cittadinanza e riduzione dell'orario di lavoro", in Derive & Approdi, n. 9/10, pag. 31-34 e "Pensiero economico, accumulazione flessibile e reddito di cittadinanza", in: Aa.Va., La democrazia del reddito universale, Il Manifesto Libri, Roma, 1997.

Le principali obiezioni al reddito di cittadinanza sono di due ordini.

1. Rapporti con l'erogazione dei servizi sociali e praticabilità della proposta

L'obiezione consiste nel ritenere che esista sostituibilità perfetta o quasi tra reddito di cittadinanza ed erogazione di servizi sociali, favorendo in tal modo un approccio di tipo individualista a scapito di istanze di solidarietà collettiva e favorendo, implicitamente, in tal modo uno smantellamento del "welfare state" tramite la monetizzazione dei servizi sociali di base.
La risposta può essere articolata su due livelli: teorico e pratico.

A livello teorico, è necessario osservare:

  1. Così come si sono sviluppati nel paradigma fordista, i servizi sociali venivano e vengono erogati sulla base di una contribuzione corrispondente alla prestazione lavorativa lungo tutto l'arco della vita lavorativa. I servizi sociali sono quindi una componente del salario dei lavoratori, è salario differito o di vita, oggetto dello scambio tra mondo del lavoro e l'organizzazione sociale (stato). In altri termini, i servizi sociali non sono reddito, cioè potere d'acquisto di merci reali e/o potenzialità di risparmio, bensì parte integrante della remunerazione del lavoro.
  2. Quando si parla di reddito di cittadinanza si intende far riferimento al potere d'acquisto e alla domanda di beni e servizi solvibili ad esso associabili. Esiste una differenza "stellare" tra reddito di cittadinanza e salario di cittadinanza nelle sue diverse forme (minimo, garantito, temporaneo, ecc.). Il primo è indipendente da qualsiasi prestazione lavorativa e relativa contribuzione sociale e/o fiscale e quindi non è assimilabile al concetto di "lavoro"; il secondo, invece, dipende in modo subordinato dall'esistenza in qualche modo di una prestazione lavorativa nel corso della durata complessiva dell'arco di vita. Al riguardo, occorre riflettere sul fatto che:
    • salario significa remunerazione del lavoro. Se si parla di salario di cittadinanza si intende una remunerazione sganciata solo temporaneamente dalla prestazione lavorativa: concetto innammissibile per il paradigma fordista in quanto è il lavoro a garantire l'inclusione sociale, ma riconosciuto possibile nel paradigma dell'accumulazione flessibile (postfordista), nel momento in cui il lavoro non essendo assicurato non garantisce più l'inclusione sociale (e i relativi diritti di cittadinanza, cfr. gli homeless, gli extra-comunitari, i cosiddetti working poor). Ed è in quest'ottica che si muovono i progetti di riforma stabiliti dalla commissione Onofri.
    • il reddito di cittadinanza è un concetto universalistico, mentre il salario di cittadinanza è per definizione parziale. In altre parole, il reddito di cittadinanza è sganciato dal processo di accumulazione (offerta), è tutto all'interno della domanda, mentre il salario di cittadinanza dipende ancora una volta dalle modalità di organizzazione della produzione di reddito, cioè è tutto all'interno dell'offerta.
  3. Sulla base di queste osservazioni, l'erogazione dei servizi sociali e il reddito di cittadinanza non possono essere sostituti tra loro, sono bensì complementari. I primi hanno a che fare con la remunerazione del lavoro, il secondo con il potere d'acquisto di beni e servizi solvibili (cioè mercificabili, dotati di un prezzo e contrattati sulla base della proprietà privata).
  4. Occorre tuttavia essere realisti e ricordare che sicuramente nel momento stesso in cui i propone il reddito di cittadinanza si chiederà come contropartita la monetizzazione dei servizi sociali e quindi la loro solvibilità all'interno del mercato privato. Tuttavia, il processo di privatizzazione dei servizi sociali si sta realizzando indipendentemente da qualsiasi richiesta di reddito di cittadinanza. La possibilità di opporsi a tale dinamica dipende dal potenziale di resistenza e di conflittualità che le forze antagoniste sono in grado di mettere in campo non dalla messa sul tappeto della problematica di una redistribuzione sociale del reddito (intendendo con ciò il reddito di cittadinanza). Le politiche sociali della commissione Onofri vanno proprio in questa direzione: privatizzazione dei servizi sociali e, come contropartita, introduzione di una sorta di salario minimo a scalare nel tempo, limitato per fasce di età e solo per coloro che non arrivano a disporre di un certo livello di reddito pur essendo parte integrante della forza-lavoro (una sorta di sussidio di disoccupazione più che un salario minimo). Se esiste una capacità di resistenza contro la proposta di riforma della commissione Onofri, allora esisterà anche per impedire che la proposta del reddito di cittadinanza sia sostitutiva all'erogazione dei servizi sociali primari (istruzione, salute, casa, giustizia, ecc.). Purtroppo, il problema sta molto più a monte del reddito di cittadinanza
  5. La capacità di organizzare capacità conflittuale si scontra con la tendenza oggi in atto del predominio della contrattazione individuale sulla contrattazione collettiva. Si tratta di un processo di individualizzazione dei rapporti sociali ed economici (americanizzazione della società) che può avvenire grazie a:
    • flessibilizzazione dei rapporti di produzione;
    • scomposizione e frammentazione del mondo del lavoro e delle tipologie del lavoro;
    • perdita di rilevanza del lavoro salariato e, parimenti, intensificazione della subordinazione del lavoro al capitale anche nelle mansioni più propriamente definite intellettuali nel fordismo (taylorizzazione del "general intellect").
Si possono sviluppare diversi momenti di conflittualità, ma nessuno di questi è in grado di inceppare il meccanismo di accumulazione. È necessario un processo di ricomposizione delle diverse soggettività del lavoro, oggi scomposte e frammentate e troppo spesso in lotta fra loro. Questa scomposizione non può basarsi solo sulle singole condizioni di lavoro, perché troppo diverse e non riconducibili ad un modello di oranizzazione produttiva unico con una figura (soggettività) lavorativa dominante. In secondo luogo, il ricatto del bisogno e la subalternità diretta del lavoro che non viene mediata da forme di rappresentatività intermedia (crisi del sindacato) soprattutto in un ambito di contrattazione individuale, non consente che generici e demagogici richiami alla solidarietà di classe (quale classe, o meglio quale segmento di classe?) possano essere ascoltati. Un processo di ricomposizione sociale in questa fase così magmatica può avvenire lungo coordinate esterne alle modalità del processo produttivo ma che comunque lo delimitano e ne sono conseguenti: il reddito ed il tempo. Permettere una maggior disponibilità di reddito in un ambito di contrattazione individuale porta ad un maggior potere contrattuale perché meno dipendenti dal ricatto del bisogno e quindi con più possibilità di incidere almeno parzialmente sulle proprie condizioni di lavoro (in primo luogo, il tempo di lavoro). La questione viene dunque rovesciata. Non è il reddito di cittadinanza a favorire il processo di "individualizzazione" dei rapporti sociali e di produzione, bensì l'opposto. La possibilità di disporre di un reddito maturato al di fuori dei rapporti di lavoro e quindi sganciato dal "ricatto del bisogno" potrebbe, almeno da un punto di vista teorico, favorire lo sviluppo di forme di resistenza e di conflittualità antagonista in quanto possibile elemento di ricomposizione sociale delle diverse soggettività oggi sparpagliate e impossibilitate a tradurre in lotta e conflitto sociale le proprie frustrazioni e alienazioni lavorative.

A livello pratico, l'obiezione fondamentale riguarda le forme di finanziamento di un processo di redistribuzione sociale del reddito che sia complementare e parallelo al mantenimento del principio del "welfare state". Al riguardo sviluppiamo le seguenti osservazioni:

  1. La proposta di reddito di cittadinanza si inserisce in un processo di riforma fiscale dello stato, basato sui seguenti punti principali:
    • tassazione di tutti i redditi indipendentemente dai cespiti tramite un'unica imposizione fortemente progressiva sui redditi ma con aliquote minori di quelle attuali (da lavoro, da impresa, da capitale => salari, profitti (utili), rendite finanziarie private e pubbliche);
    • eliminazione dell'Irpeg e sua sostituzione con una patrimoniale delle imprese (tassa sul capitale): riforma della contribuzione sociale, procedendo all'eliminazione della fiscalizzazione degli oneri sociali in cambio di una riduzione dei versamenti ed equiparazione tra lavoro salariato e lavoro autonomo eterodiretto, con obbligo di partecipazione anche dei committenti:
    • prevalenza dell'imposizione diretta su quella indiretta;
    • semplificazione del sistema fiscale e controlli incrociati per quanto riguarda i servizi al consumo onde minimizzare l'evasione fiscale.
    • introduzione di una sorta di tobin-tax sulle transazioni finanziarie di tipo speculative intermediate dalle istituzioni finanziarie (banche e Sim), sia nazionali che internazionali;
    • mantenimento e/o introduzione di una patrimoniale sulle ricchezze mobiliari e immobiliari (con l'esclusione della prima casa).
  2. Sul lato delle spese è necessario procedere ad una semplificazione del bilancio pubblico: mantenimento ed allargamento delle spese sociali, riduzione delle spese militari e di difesa e di ordine pubblico (l'unica voce in forte crescita negli ultimi anni), eliminazione dei sostegni ed agevolazioni economiche alle imprese. Occorre tenere presente che una seria politica di riduzione della disoccupazione (tramite riduzione d'orario) e una politica di sostegno della domanda (reddito di cittadinanza), pur rivelandosi strumenti di riformismo radicale, hanno un duplice effetto sul bilancio pubblico: riduzione degli oneri della disoccupazione (soprattutto indiretti, in termini di cassa integrazione, lista di mobilità, prepensionamenti, agevolazioni alle imprese - cfr. rottamazione - ecc.), oggi ammontanti a circa 24.000 miliardi all'anno in modo diretto e a circa 100.000 miliardi in modo indiretto (fiscalizzazioni, prepensionamenti calcolati sull'arco della durata media di vita, ecc.) e quindi riduzione dei costi del settore pubblico (gli unici costi che i padroni si guardano bene dal citare), da un lato, e incremento delle entrate fiscali, in seguito all'accresciuta domanda interna, dall'altro (un aumento di un punto percentuale di domanda, significa un aumento dell'1,3% del Pil - a parità di condizioni - e un incremento fiscale dello 0,6%, pari a circa 15.000 miliardi all'anno).
  3. Da un punto di vista empirico, i problemi sono rilevanti ma non insormontabili; i margini di finanziamento esistono: occorre lavorarci sopra e non lasciarsi sopraffare dal pessimismo. Certo occorre controbattere una vulgata economica molto diffusa sull'impossibilità a sostenere qualsiasi tipo di spesa sociale e pubblica che non vada in direzione di una presunta razionalizzazione economica e del contenimento del deficit: è questo forse l'aspetto più difficile più che la presunta non praticabilità dell'obiettivo della distribuzione sociale del reddito. Al riguardo due sono gli ostacoli da affrontare:
    • i provvedimenti di reddito di cittadinanza e di riduzione d'orario di lavoro sono due facce della stessa medaglia che si complementano a vicenda e non si autoescludono come troppo spesso a torto si sostiene negli ambienti dell'antagonismo politico e sociale (vedi PRC) dove l'etica del lavoro è ancora molto presente. Non vi è infatti riduzione d'orario senza sostegno al reddito e molti lavoratori guardano con dubbio la riduzione d'orario non solo perchè applicabile ad una categoria ristretta di lavoratori (i salariati di imprese con più di 15 addetti, circa 8,4 milioni pari a 1/3 della forza-lavoro complessiva dell'Italia) ma soprattutto perchè temono che venga loro a mancare una entrata suppletiva di reddito in seguito al possibile venire meno degli straordinari (ammesso ma non ancora concesso che la riduzione avvenga a parità di salario).
    • Certo chiedere contemporaneamente riduzione d'orario e reddito di cittadinanza può sembrare politicamente esagerato considerato il livello estremamente penoso del dibattito politico ed economico italiano. Tuttavia, occorre considerare che qualunque richiesta, seppur minimale, che vada contro alle compatibilità di breve periodo che regolano la profittabilità immediata delle imprese viene valutata come irrealistica, seppur all'interno di un processo di riformismo economico, che non modificano le caratteristiche strutturali dell'impresa. Ma proprio per questo è necessario alzare il tiro, proprio tenendo conto che non viene messo in discussione il rapporto capitale-lavoro (non si tratta cioè di richieste rivoluzionarie, nel senso vero del termine), ma solo di modificarne l'essenza senza intervenire strutturalmente. Non abbiamo nulla da perdere; si tratta, in definitiva, di proposte e obiettivi minimali, che in presenza di concertazione subalterna sindacale, crisi di rappresentanza sindacale, assenza totale di conflittualità, subalternità culturale e complicità economica del centro-sinistra e del sindacato confederale con le esigenze del capitale appaiono formalmente rivoluzionarie.

2. Il reddito di cittadinanza è una misura che incide totalmente sulla domanda di beni: chi provvederà alla loro produzione? Non vi è il rischio di favorire una segmentazione tra chi lavora e chi no? Chi farà i lavori pesanti, ecc.?

La risposta a questa domanda è molto breve. Da un lato credo che sia opportuno richiamare il concetto latino di otium, dall'altro il libello di Paul Lafargue, genero di Marx, ("Il diritto all'ozio"). In secondo luogo è necessario invertire l'approccio tipico dell'etica borghese del lavoro secondo cui la remunerazione del lavoro dipende anche dal "prestigio" sociale della prestazione lavorativa e non dalla fatica. In conclusione: non credo che l'uomo, se sottratto dal ricatto del bisogno, smetta di lavorare: al limite avrà una maggior possibilità di scelta su quale lavoro effettuare e ciò porterà alla lunga alla scomparsa dei lavori più faticosi e alienanti. Il progresso tecnologico potrebbe finalmente essere a disposizione della liberazione dal lavoro e non dell'efficienza capitalistica. Se questa è un'utopia (ma sono le utopie a muovere la storia), nel frattempo ci si potrebbe limitare a creare un sistema di incentivi monetari e non, per coloro che si sottopongono a svolgere mansioni più faticose e dure ma necessarie. Ma la discussione su questo punto richiede ulteriori approfondimenti.

Aprile 1998, Andrea Fumagalli


Breve bibliografia sul redito di cittadinanza