WELFARESTATESTATODIBENESSERE

contributo per l'Assemblea costituente del movimento dei cittadini - lavoratori - utenti del Nordest per la difesa del welfare e la conquista di nuovi diritti sociali

a cura del Centro Sociale Autogestito Morion di Venezia

Con la manifestazione per l'Europa sociale, contro la secessione ed il razzismo del 13 Settembre a Venezia si e' aperto un nuovo spazio politico, mettendo in comunicazione una pluralita' di sinistre che fanno delle diversita' una rinnovata forza.

Un nuovo spazio politico che si disloca in una dimensione "globale" - perlomeno europea, come Amsterdam ci ha insegnato -, ma che deve innervarsi nel "locale" del territorio della produzione sociale. Un nuovo "ambiente" sociale dove costruire non solo l'opposizione alla deriva dell'esclusione e del razzismo, ma anche nuovi conflitti, lotte di massa che riconquistino la maggioranza dei settori di classe sul nodo autunnale della Finanziaria e della riforma del Welfare. Lotte e conflitti che non si limitino alla difesa, alla resistenza, ma che alludano ad una nuova progettualita', alla prefigurazione di nuovi assetti societari.

Tutto e' cambiato e molto sta cambiando ancora nella sfera della produzione sociale e nella sfera della riproduzione della forza/lavoro. Le forme e i modi del lavoro sono stati rivoluzionati, l'assetto "sovrastrutturale" delle istituzioni statuali sta per essere trasformato, i modi e le forme della riproduzione stanno per essere riformati.

Non possono trattare la riforma del Welfare sulla testa di milioni di persone senza trovare nuove forme e modi del conflitto sociale.

Quando parliamo di riforma del Welfare siamo convinti che questa non interessa solo quell'insieme di protezioni sociali, dalla sanita' alla previdenza, dalla scuola alla residenza popolare, ecc. che hanno caratterizzato in Italia questi ultimi cinquant' anni.

Protezioni sociali che in se' hanno racchiuso un triplice aspetto, proprio di quello che qualcuno chiama compromesso fordista:
1) risultato di formidabili cicli di lotta, vero e proprio salario indiretto, sociale, strappato a suon di conflitto di classe;
2) contemporaneamente vero e proprio controllo sociale, terreno comunque (quello del Welfare) dentro al quale la forza/lavoro si riproduceva per essere pronta all'inferno del lavoro nella grande fabbrica tayloristica
3) frutto del compromesso per evitare l'assalto al cielo del Palazzo d' Inverno.

Quando parliamo di riforma del Welfare non ci riferiamo solo al fatto che queste protezioni sociali, questi diritti universali, saranno merci, valori di scambio da comprare nel mercato e che chi non potra' farlo sara' destinato alle assistenze alle nuove poverta'.

Riformare il Welfare significa entrare nel merito della nuova costituzione materiale, del nuovo statuto del lavoro postfordista.

Il nodo dello Stato sociale e' strettamente legato al nodo dell'occupazione, del lavoro/non lavoro, al nodo della globalizzazione - perlomeno nello spazio europeo -, al nodo della riforma istituzionale, della costituzione formale quindi.

E in questa fase cruciale di grandi innovazioni/trasformazioni capitalistiche, che per il nostro territorio, per il nostro "locale" - da cui sempre e comunque dobbiamo partire -, in questo ricco Nordest, significa addirittura capitalismo diffuso socialmente, popolo dei produttori che ha assunto a religione l'etica del lavoro e del profitto, assistiamo ad un panorama desolante di mancanza di lotte e di conflitti; o meglio i conflitti hanno il segno contrario delle lotte egoistiche per il mantenimento di veri o presunti privilegi. Tutto dentro l'incapacita' per le sinistre di leggere le trasformazioni nella composizione di classe.

Partiamo dal manifesto/programma dei "35 intellettuali" francesi per tentare un approccio ad una nuova stagione di lotte di massa

La crescita economica non corrisponde piu' alla crescita dell'occupazione. Il circolo virtuoso sviluppo/occupazione/benessere non puo' piu' essere dato nell'epoca della globalizzazione che permette la delocalizzazione produttiva in aree sempre piu' a sud del sud conosciuto, nell'epoca della rivoluzione informatica, dove, con le nuove tecnologie, il tempo di lavoro necessario a produrre merci e servizi diminuisce sempre piu'. Il risultato e' un aumento dei disoccupati, o meglio dei non occupati regolarmente: lavoratori precari, intermittenti, in affitto, flessibili, atipici, che si "arrangiano per vivere" tra uno stage, un contratto di formazione e un lavoretto in nero.

Solo qualche illuso neokeynesiano puo' sognare il ritorno alla piena occupazione e quindi ad una contribuzione sul lavoro che sostenga le prestazioni del Welfare.

Il tempo del posto fisso per tutta la vita, del lavoro a tempo indeterminato del capofamiglia, protetto da assegni familiari, sanita', scuola per i figli, previdenza e quant' altro, e' finito; anche il Welfare cosi' come lo conoscevamo e' finito, perche' il lavoro come lo conoscevamo e' finito

E diciamolo pure che comunque quel lavoro (salariato) e quel Welfare (dei garantiti) ci faceva pure schifo. Il problema e' che ora, in assenza di grandi conflitti, sta andando pure peggio.

Il manifesto/appello dei "35 intellettuali francesi" attorno ai nodi strutturali - produzione, lavoro, reddito - della societa' postfordista, rappresenta per noi un importante punto di partenza.

- 1. Riduzione generalizzata della giornata sociale lavorativa: si puo' distribuire il lavoro, riducendo drasticamente l'orario, fino a ridurre tendenzialmente il lavoro coatto a contorno della vita sociale. Riduzione della giornata lavorativa, non solo degli orari di lavoro - non e' piu solo il lavorare meno/ lavorare tutti degli anni '70 - anche perche' aumentano quelle figure lavorative atipiche che non hanno orari di lavoro normati tradizionalmente.

- 2. Reddito sociale di cittadinanza; per mettere in primo piano il diritto all'esistenza di tutti gli esseri umani, rispetto all'etica del lavoro, della produttivita', il mito assoluto del mercato; non e' piu' solo il salario garantito degli anni '70, e' un idea/forza che deve vivere dentro alle lotte per garantire un reddito a tutti, anche indipendentemente dal lavoro (salariato), sotto forma monetaria e/o di un pacchetto di valori d' uso e servizi.

- 3. Sviluppo della cooperazione dal basso, sostegno allo sviluppo di un settore "pubblico non statale", sottratto alle regole di mercato, non finalizzato alla supplenza, al ribasso, di prestazioni non piu' garantite dalle strutture pubbliche, ma orientato a rispondere a nuovi bisogni, attraverso anche sperimentazioni locali; non e' piu' - o non solo - il "ghetto alternativo" di fricchettona memoria postsessantottina.

Questi tre aspetti vanno presi assieme in un unico corpo progettuale.

Preso da solo, ognuno di questi elementi, non ha alcun significato dal punto di vista dell'antagonismo per conquistare un "benessere" per tutti, anzi forse potrebbe avere un uso capitalistico controproducente.

- 1. Non ha senso - ad esempio - la riduzione dell'orario di lavoro da sola, quando tra l'altro - tendenzialmente - la maggioranza della f/l non sara' piu quella classica con orari e tempi rigidi: si puo' far lavorare anche trenta ore settimanali i lavoratori della fabbrica madre, se poi nell'indotto della fabbrica in rete se ne lavora 12 al giorno, con straordinari od altro. Si puo' ridurre l'orario di lavoro su base settimanale, ma se poi si aumenta il tempo di lavoro in tutto l'arco della vita, con l'allontanamento dell'eta' pensionabile, come sta succedendo da Amato a Dini in poi ?

Si puo' anche (e si deve di sicuro) conquistare nel contratto nazionale dei metalmeccanici le 35 ore pagate 40, per far lavorare meno i 1.300 lavoratori della Fincantieri di Marghera - con nuove assunzioni magari -; ma gli altri 3.500 che lavorano nello stesso cantiere, fianco a fianco, ma con i contratti i piu' vari, e che gia' ora lavorano notte e giorno, di sabato e di domenica ? Si tratta di operai che lavorano in appalto, con commesse, a prestazione d' opera da lavoro autonomo o con partita IVA, o addirittura con contratti della Bulgaria o della Romania da dove questa nuova figura di operaio flessibile multinazionale, sovrannazionale o globalizzato che dir si voglia proviene.

Dobbiamo articolare e costruire vertenze, lottare per ridurre l'orario di lavoro a parita' di salario: far passare questo per legge, dentro i contratti, nella pratica dell'obiettivo (chi non ricorda il contropotere operaio nei reparti della grande fabbrica, prima delle grandi sconfitte dell'operaio-massa, quando delle otto ore alla catena in realta', tra pause ed altro, ritmi contrattati, se ne lavorava ben che vada quattro ?).

Ma ora, perlomeno nella fabbrica diffusa del Nordest, dove i reparti dell'ex fabbrica tradizionale sono stati dislocati per ogni campanile, nello scantinato dell'ex operaio che lavora contoterzi con partita IVA, cosa vuol dire ridurre l'orario di lavoro ? E per il giovane che si e' inventato il lavoro mettendosi in proprio, che non ha neppure un padrone con il quale scontrarsi, perche' e' "padrone di se' stesso" e che autoridursi l'orario vorrebbe dire scomparire dagli interstizi di mercato che si era conquistato e che per questo e' disposto all'opposto a lavorare 14 ore al giorno (o a bruciare la Fenice perche' si rischia la penale per ritardo nella consegna - come gli elettricisti presunti colpevoli del rogo di Venezia), cosa significa lavorare meno/lavorare tutti ?

Anzi, la riduzione dell'orario puo' essere funzionale alla ristrutturazione, all'imposizione del massimo di flessibilita'; gia' ora c'e' la tendenza a stipulare solo contratti a part-time, sia nel privato che nel pubblico, magari costringendoti poi a lavorare in nero per altre ore, o contratti week-end, o contratti in coppia.

La riduzione degli orari di lavoro non puo' essere che a parita' di salario, naturalmente.

- 2. Ma per chi in realta' non ha un vero e proprio orario di lavoro e non fa poi neppure lavoro salariato, perche' e' un lavoratore autonomo eterodiretto, di prima o seconda generazione che dir si voglia? Per coloro i quali, finti lavoratori autonomi in realta', di ore ne fanno tantissime, non arrivando neppure ad avere l'equivalente di un salario operaio, cosa vuol dire lavorare meno/lavorare tutti? Se invece questi lavoratori autonomi, prestatori d' opera, possessori di partita IVA, potessero far conto su un reddito minimo di base, potrebbero o no decidere di lavorar meno ogni tanto per riprendersi un pezzo di vita ? Un reddito minimo garantito comunque darebbe potere contrattuale, potere e possibilita' di scegliere quali lavori ad esempio accettare o meno, alla forza/lavoro flessibile e precaria (autonoma o dipendente che sia).

Dobbiamo cominciare una battaglia politica e culturale di grande spessore etico e umanitario dentro la societa' - in questo Nordest di merda intanto e soprattutto -, una grande battaglia contro il lavoro, contro l'ideologia lavorista, contro l'amore tossico per il lavoro e per quei consumi indotti da un assetto societario che non ci va bene, per imporre poi con la lotta il fatto che si deve lavorare per vivere, non vivere per lavorare.

"... Una strana follia possiede le classi operaie in cui domina la civilta' capitalistica. E' una follia che porta con se' miserie individuali e sociali che da due secoli stanno torturando la triste umanita'. Questa follia e' l'amore per il lavoro, la passione esiziale del lavoro, spinta sino all'esaurimento delle forze vitali dell'individuo e della sua progenie ...". Con queste parole comincia "Il Diritto all'Ozio" scritto da Paul Lafargue nel 1880. Dopo 120 anni il livello raggiunto dalle forze produttive, dallo sviluppo scientifico e tecnologico, consentirebbe di lavorare tutti poniamo per due ore al giorno, con un reddito decente per vivere, non per sopravvivere; ed il resto della giornata ? Lasciato per le libere attivita' creative, cooperanti, di solidarieta', alle attivita' volte alla socialita', alla cultura e allo studio, alla produzione sociale non di profitti, ma di valori d' uso, beni da gestire collettivamente in modo solidale; potremmo essere tutti piu' liberi dal lavoro e con piu' diritto all'ozio, in altri termini.

In quest' ottica si deve vedere la proposta di un reddito sociale di cittadinanza.

Anche qui non si tratta di un elemento che puo' vivere da solo. Anzi, un reddito minimo (di sussistenza), da solo, puo' anche essere usato come controllo sociale: agli esclusi possono sempre garantire l'elemosina, compatibilmente con la sopravvivenza dell'intero sistema dello sfruttamento. Ma preso assieme agli altri due elementi del programma puo' diventare una potente leva di eguaglianza e democrazia, all'insegna di una nuova cittadinanza basata non piu' sulla schiavitu' del lavoro (salariato), quello della devastazione ambientale e umana, quello dello sviluppo industriale sregolamentato che abbiamo conosciuto, ma una nuova cittadinananza basata sul diritto all'esistenza.

- 3. La riduzione generalizzata della giornata sociale lavorativa ed il diritto ad un reddito di cittadinanza non possono, a nostro avviso, andare bene da soli, senza il terzo elemento: lo sviluppo della cooperazione sociale dal basso, solidale e alternativa alle logiche del mercato e del profitto.

Autogestione ed "autoreddito", fuori dal mercato, certo ... ma anche far diventare vertenze e conflitto per il reddito la cooperazione sociale autovalorizzante, quella che si esprime nei "lavori" non profit, di cura, nell'autoproduzione culturale, lavori che gia' mettono in discussione il "quanto, cosa e come produrre" e che mettono quindi in discussione gli attuali assetti societari.

Quanta ideologia del lavoro c'era nel movimento operaio ! Anche ora quante e quanti compagne e compagni inorridiscono di fronte ad esempio alla proposta di un reddito di cittadinananza: Come ??? Non lavorare e prendere lo stesso i soldi ??? Ma quanti compagne e compagni hanno mai pensato a costruire lotte per farsi dare i soldi per tutto il lavoro che quotidianamente facciamo gratis ??? In un meccanismo, tra l'altro, dove la produzione e' sempre piu' sociale, dove la cooperazione produttiva innerva la societa'. Dove la cooperazione sociale e' un qualcosa di sempre piu' complesso, fatta non piu' solo di lavoro salariato, ma di interrelazioni sociali, flussi informativi, disposizioni comunicative, sapere diffuso: tutte cose che vengono messe al lavoro, disciplinate, appropriate, sussunte, da parte del Capitale come fattori della produzione.

c'e' insomma una forza produttiva (General Intellect ?) produttrice di ricchezza (sociale) non piu' riconducibile alla singola prestazione lavorativa, e dunque non computata nella sua retribuzione.

Abbiamo letto questa estate che, secondo non ricordiamo quale istituto statistico di ricerca, oggi, in Italia, due milioni di persone sono occupate nel "business" della disoccupazione (impiegati degli uffici di collocamento, delle agenzie per l'impiego, per la formazione e riconversione dei disoccupati, delle riviste specializzate in ricerca di lavoro, ecc.): per ogni disoccupato c'e' un addetto che lavora per lui. E' paradossale, ma se non ci fosse piu' la disoccupazione ci sarebbero due milioni di nuovi disoccupati.

Dobbiamo cominciare, intanto, a farci pagare con un reddito di cittadinananza tutti i lavori che facciamo gratis e che sono tra l'altro lavori socialmente utili.

Quanto si "lavora", ad esempio, nei centri sociali occupati, esplicando professionalita', competenze, trasformando e recuperando immobili dismessi, creando aggregazione e socialita' innovativa, producendo cultura e musica non mercificata ? Si tratta di lavoro socialmente utile non retribuito evidentemente.

E cosa aspettiamo a farci pagare tutto il tempo per la mobilita' e i trasporti in questa nostra esistenza di lavoratori mobili e flessibili ? o perlomeno avere il diritto al trasporto gratis o a prezzo politico.

Cosa aspettiamo a farci pagare il lavoro domestico e tutti i lavori di cura che con lo smantellamento del vecchio Welfare tra l'altro vorranno accollare alle donne. (A proposito non potra' esserci nuovo conflitto per un nuovo Welfare senza un ritorno in campo di un nuovo movimento delle donne).

E cosa aspettiamo a farci pagare tutto il tempo che dedichiamo, e che dedicheremo alla formazione? Visto che i nuovi modi della produzione oggi richiedono processi di formazione in cui la f/l si costruisce e ricostruisce continuamente lungo l'intero percorso della vita e delle generazioni.

Cosa aspettiamo a farci pagare tutto il lavoro che facciamo per fare i disoccupati ? Tra timbri, colloqui, ricerche e il fatto stesso di esserlo, visto che e' grazie a noi che molti lavorano ?

Dobbiamo poi costruire lotte per strappare finanziamenti che sostengano nuovi lavori utili, necessari, organizzati in modo cooperativistico, legati alla manutenzione urbana, al restauro del territorio, alla protezione e ripristino ambientale, a nuovi servizi per nuovi diritti; e su questo trovare le controparti sia "locali" (i municipi) che "globali" (i fondi Cee).

E' evidente che non ha senso un discorso sulla cooperazione sociale e sul non profit da solo, anzi, sarebbe controproducente; con il superamento dell'attuale Welfare c'e' tutto l'interesse capitalistico di inserirsi nel nuovo business dell'assistenza e dei servizi alle persone, utilizzando benefici fiscali ed il lavoro gratuito del volontariato.

Ma questo elemento assieme con gli altri due puo' essere una potente leva per costruire nuovi conflitti, che ricostruiscano "dal basso" un nuovo Welfare.

Come possiamo cominciare a sperimentare, attorno a questi elementi di programma, percorsi di lotta e di organizzazione che tengano insieme vecchi e nuovi diritti da conquistare ? i lavoratori della vecchia composizione di classe che non vogliono farsi strappare il diritto alla pensione di anzianita' dopo 35 anni di catena di montaggio, con i lavoratori intermittenti e precari che la pensione non la vedranno mai, come pure non vedranno mai un posto di lavoro fisso e garantito ?

Per quanto riguarda i Centri Sociali , essi sono attraversati materialmente da quella nuova composizione di classe, fondata sul lavoro flessibile, precario, mobile sul territorio; sono frequentati e autogestiti da quello spaccato sociale fatto di studenti che non sono piu' solo studenti, da disoccupati che non sono piu' semplicemente disoccupati, da lavoratori autonomi (parasubordinati) che sono autonomi solo perche' ogni mese non percepiscono un salario, da una forza/lavoro scolarizzata, ad alta qualificazione anche per quanto riguarda le nuove tecnologie, ma che magari preferisce lavorare in cooperativa, sperimentando nuovi rapporti sociali, in attivita' manuali, piuttosto che subire il lavoro comandato. I centri sociali sono fatti da questa nuova composizione di classe dentro cui ha - tra l'altro - piena cittadinanza la forza/lavoro migrante, la piu' disponibile, ovviamente, ai lavori piu' mobili, flessibili e malpagati.

Si potrebbe allora cominciare proprio dai centri sociali a tentare di creare momenti di autorganizzazione di queste nuove figure produttive, che caratterizzano questa fase cosiddetta postfordista. Lo scopo e' rovesciare la flessibilita', mobilita', precarieta' del lavoro sociale contro i padroni.

Certo che anche sul terreno delle forme organizzative e' tutto da inventare, da sperimentare, per questa forza/lavoro flessibile. La forma "sindacale" classica, o il cobas che si radica all'interno del posto di lavoro, e' una formula organizzativa obsoleta, visto che per questa f/l flessibile non c'e' "un posto di lavoro" classico, fisso.

Qualcuno evocava il periodo sindacale dei primi del secolo, quello delle grandi lotte bracciantili, caratterizzato dalle camere del lavoro territoriali, potenti strumenti organizzativi e di lotta, che avevano al centro il territorio del lavoro, non il posto di lavoro. Siamo in grado di trasformare i centri sociali in Camere del non lavoro territoriali che organizzano i lavoratori flessibili ?

Altri compagni evocavano l'epopea degli wobblies americani (Industrial Workers of the World) dei primi del novecento. Forse servirebbero i wobblies della metropoli diffusa e la rete mobile del sabotaggio e del contropotere territoriale, per costruire gli elementi fondanti della nuova carta del lavoro postfordista.

"Perche' allora non costituire, a partire da ogni centro sociale, delle agenzie wobblies - o meglio fobblies (Flexible Workers of the World) per cominciare ad organizzare/organizzarsi su questo terreno del lavoro flessibile e precario ?" - scrivevamo in un documento del marzo scorso -.

Una struttura organizzativa mobile sul territorio, in grado di intervenire, con tutti i mezzi necessari, dall'assistenza legale (usando pure il diritto del lavoro rimasto dall'epoca fordista) al boicottaggio, laddove si verifichino soprusi, violazione di diritti, forme di sfruttamento selvaggio, per la difesa reale degli interessi della nuova classe dei lavoratori, dall'area del precariato sociale agli immigrati.

Importante e' capire anche la nuova dimensione in cui collocare l'iniziativa politica, agendo localmente e pensando globalmente. Agendo globalmente, perlomeno a livello europeo abbiamo detto - il che non significa fare la manifestazione a Bruxelles invece che a Roma, ma considerare ad esempio che possono esserci altre controparti per ottenere reddito (pensiamo ai Fondi Cee per finanziare progetti del terzo settore).

Agendo soprattutto localmente, a partire dai nostri territori, dove possiamo avere controparti molto piu' vicine fisicamente. E' questo il senso del nostro essere d' accordo con il federalismo dei municipi. Piu' poteri ai Comuni, piu' soldi ai Comuni, per avere controparti piu' vicine da aggredire con la lotta, per avere piu' potere e piu' soldi noi, non certo a discapito di altri, ma in una prospettiva di federalismo solidale, di autorganizzazione sociale che sperimenti forme di autogoverno dal basso.

CSA Morion
Venezia, 1° Ottobre 1997

 


home iniziative materiali comunicati