1. La questione dell'immigrazione, a lungo esorcizzata nelle sue valenze di fondo e per questo respinta ai margini dell'orizzonte politico, ha fatto la sua comparsa nel dibattito pubblico per essere presentata - more solito - nelle forme di un'improcrastinabile emergenza. Le abnormità del caso italiano, in cui per decreto e con goffa improvvisazione sul piano tecnico-giuridico, sono state poste le basi per l'istituzione di un diritto speciale che discrimina duramente i migranti, vanno comunque ricondotte al più generale contesto europeo. Infatti anche nel resto del continente, forse con minor ferocia retorica e maggior rispetto formale della tradizione giuridica occidentale, si chiudono i cancelli ai profughi e illegal aliens di varia provenienza. Tra Maastricht e Schengen si è andato definendo il dispositivo restrittivo che i più lungimiranti fautori della "fortezza Europa" avevane auspicato fin dalleseconda metà degli Ottanta. Queste misure, più che essere ispirate unicamente da un reale timore dell'invasione", appaiono come il necessario contraltare di un processo di ridefinizione degli spazi di agibilità politica e di fruizione dei diritti. In uno scenario profondamente mutato rispetto a quello che aveva visto nascere e consolidarsi nel corso del secolo le grandi democrazie industriali, la "nuova cittadinanza europea" mostra il suo carattere in senso forte esclusivo: la fase attuale dello sviluppo capitalistico azzera garanzie economiche e sociali che si ritenevano per sempre acquisite, mentre lo spazio politico continentale si modella su una logica difensiva di chiusura e arroccamento. La crisi dello Stato nazionale genera mostri: per un verso essa alimenta la ricerca, spesso disincantata e strumentale, di piccole e grandi patrie razziste in cui riconoscersi; per l'altro la ristrutturazione su scala europea di alcune delle funzioni essenziali della forma Stato sembra individuarne nuovamente la sostanza nella polizia.
2. Nell'Italia dell'"interminabile transizione" queste tendenze assumono connotazioni particolari. Le vicende dell'immigrazione divengono esemplari di una vocazione autoritaria che pare attraversare i contrapposti schieramenti politici. Le differenze tra alfieri di una solidarietà ocrtoyée e sostenitori della nuova apartheid si mostrano infatti in tutta la loro retorica esiguità. Ancora una volta, secondo una tradizione consolidata dai Settanta in poi, il sistema politico delega la soluzione di un problema sociale alla magistratura e alla forze di polizia. Schiacciato tra la maestrina Vigneri e il podologo Boso all'immigrato non rimane che chiudersi in casa in attesa di tempi meno inclementi. La spesa per tutti la farà chi può uscire perché "regolare".
3. Con schizofrenica disinvoltura i flussi migratori vengono presentati da politici e commentatori ora come cataratte inarrestabili, ora sotto il segno dell'eccezionalità, dell'anomalia da ricondurre a normalità con una razionale programmazione, con un'irrealizzabile quote act postfordista. Il processo migratorio si presta fin troppo bene a rappresentare simbolicamente l'irruzione del disordine e l'apertura di una nuova questione sociale nel cuore stesso dell'Occidente. Il problema dei migranti è in prospettiva il problema del governo di una società di palese, enorme ineguaglianza. Le misure speciali che oggi si abbattono sugli ultimi arrivati prefigurano analoghi strumenti di disciplinamento e controllo nei confronti degli autoctoni. Basti pensare all'individuazione di un'attività lavorativa con imprescindibili caratteristiche di continuità e regolarità come criterio selettivo per la concessione del permesso di soggiorno. Oggi è l'immigrato a dover passare sotto le forche caudine della "regolarizzazione" per ottenere il riconoscimento di diritti elementari; che tipo di biografia dovranno domani documentare i lavoratori dell'economia informale e i senza lavoro se vorranno avere accesso ai "buoni" preconizzati per prestazioni sanitarie e istruzione?
4. La costruzione della figura sociale dell'immigrato come crinale, che ha accompagnato l'iter del decreto Dini, scandendone i tempi, non corrisponde soltanto a ben noti stereotipi. Si tratta di un processo che culmina nell'istituzionalizzazione della condizione di irregolare, innescando nel suo farsi un potente e insidiosissimo processo di stigmatizzazione. Una crescente insicurezza riguardo al senso e al destino del vivere associato, viene cosi esorcizzata individuando nello straniero la fonte principale dell'inquietudine. La nuova "età dell'ansia" non svapora in tematiche esistenziali, prende invece la forma di un preciso programma politico, quello della sicurezza. Tra l'Apologia dell'ordine pubblico di Luciano Violante e il neonazionalismo di Marcello Veneziani un torbido filo si dipana: la sicurezza come progetto di società. In prudente attesa di nemici esterni il ritrovato spirito nazionale si coagula attorno a un nemico interno. Cosi procede la "sporca guerra" contro gli immigrati, fatta di case sgombrate, di controlli di identità quotidiani, di famigIie separate, di merci sequestrate, di minacce di espulsioni di massa. Nascono quartieri ghetto, veri e propri workhouses dell'economia sommersa, in cui la presenza della polizia e assillante e continua, mentre si prospettano per gli immigrati colpiti da provvedimento di espulsione luoghi di detenzione amministrativa che egualmente rimandano a condizioni di isolamento e di disciplina speciale.
5. Fuori dal cerchio magico della cittadinanza, e al tempo stesso vivente emblema dell'atomizzazione della forza lavoro su cui si è consumata la crisi del movimento operaio organizzato, la figura del migrante finisce oggi per rappresentare un enigma per il pensiero politico della sinistra. Una parte di essa, già dimenticato il "travaglio" che l'ha condotta a un ripensamento della tradizione liberal-democratica, si ritrae con sgomento non appena il tanto celebrato tema dei diritti la pone di fronte a contraddizioni sociali che riteneva appartenessero a una storia conclusa. Vecchi e nuovi particolarismi (segnati da una sciagurata riproposizione della dicotomia ottocentesca fra "classi laboriose" e "classi pericolose") dilagano cosi in quartieri disertati da politici entusiasti dei modelli "leggeri" di partito. Per contro non manca chi, proprio nell'espressione di questi particolarismi - nei "comitati civici" -, ha preteso di individuare nuove e intriganti forme di riconquista del territorio e della politica da parte del "sociale". Sul versante femminista a qualcuno è addirittura parso che si potesse adombrare nella "popolazione locale" l'utero protettivo che soltanto permette di ripensare le relazioni di appartenenza politica oltre il disfacimento della società patriarcale e della logica platonico-razionale dei diritti. Anche la "sinistra di classe" del resto, da Rifondazione Comunista al variegato arcipelago dell'autorganizzazione e dei centri sociali, sconta spesso, al di là di un generoso impegno militante, i limiti di un'immagine organicistica e un po' mitologica della ricomposizione sociale che dovrebbe risolvere, comprendendola al proprio interno, la "parzialità" della questione migratoria.
6. Negli anni Sessanta del secolo scorso Marx scriveva, pensando all'esperienza degli Stati Uniti, che « il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi in un paese in cui viene marchiato a fuoco quando è in pelle nera ». Il monito politico in queste parole dovrebbe condurre a ritenere imprescindibile, per affrontare politicamente la questione migratoria, la riformulazione intransigente di un'opzione universalistica ed egualitaria sul terreno dei diritti. Del resto sono gli stessi movimenti migratori a porre con forza all'ordine del giorno lo sgretolamento della base nazionale della cittadinanza, mostrando l'istituto della frontiera in tutto il suo contenuto di arbitrarietà e violenza. Ma anche all'interno dei confini nazionali la stratificazione sociale si ridefinisce attorno a linee di esclusione che minano la possibilità di configurare un modello efficace di integrazione democratica. Queste "frontiere interne" - finché non vengono messe in discussione - rendono inoltre problematico ogni tentativo di individuare una polarità soggettiva dell'antagonismo di classe. In queste condizioni il linguaggio dei diritti e la loro rivendicazione si caricano di una potente valenza critica nei confronti della forma complessivamente assunta dai rapporti sociali. Proprio in quanto mantengono aperta la prospettiva dell'uguaglianza rinviano all'impronunciabile nome del comunismo.