LABORATORI DI SOCIETA' #2

  Marco Revelli  nei primi due numeri di Carta, il mensile dell’Associazione Cantieri Sociali, ha pubblicato due begli articoli su Torino. Con questa intervista ci proponiamo di approfondire alcuni dei temi affrontati negli articoli. Per noi questo è il primo passo per aprire una discussione sul “caso Torino”, su quel “clima velenoso” che caratterizza questa città un po’ a tutti i livelli, proponendoci anche di iniziare a raccogliere materiali sul nostro sito in Internet per facilitare questa discussione sempre più necessaria.

Intervista a Marco Revelli


 

1. Nell’articolo su Carta tu scrivi a proposito di Torino: <Purtroppo, qui, tutto quello che è sopravvissuto socialmente e politicamente è fragile, peggiore che nel resto d’Italia. C’è stata una caduta da un punto alto: Torino era una città abituata  a forme del sociale fortissime, che si sono disintegrate, e oggi il ceto politico è il peggiore d’Italia, la sinistra è la peggiore d’Italia, i centri sociali sono i peggiori d’Italia>. In cosa il ceto politico e la sinistra torinese sono peggiori rispetto ad altri luoghi in Italia o in Europa?
Il ceto politico di sinistra a Torino è peggiore perché più di altri ha perso i propri referenti sociali. Questa è una città che fino a venti anni fa era enormemente coesa dal punto di vista sociale, e in particolare era divisa in due campi molto strutturati, il campo molto ampio del proletariato, della forza lavoro, della classe operaia, con i suoi luoghi, le proprie reti di solidarietà, i propri linguaggi, penso a cosa erano fino a venti anni fa le barriere operaie a Torino, erano in qualche modo delle grandi fortezze sociali all’interno delle quali il mondo del lavoro si strutturava; e poi c’era il centro borghese, piccolo e medio borghese e la corte del sovrano, la Fiat, la famiglia Agnelli. Ancora negli anni ’50 Carlo Levi poteva parlare delle due Torino, di un centro borghese circondato dalle barriere operaie. Tutto questo nel giro di vent’anni è andato a pezzi, perché è andato a pezzi il centro che aggregava tutto questo, il polo che aggregava tutto questo, che era la Fiat, le grandi cattedrali della produzione, che era Mirafiori con i suoi 60.000 operai, coi suoi 3.000.000 di metri quadri di area produttivi.
La Fiat è rimasto come potere economico, come potere finanziario, come potere sociale, su Torino continua ad avere una presa pressochè totale. Le sue strutture produttive si sono articolate nel mondo, la Fiat si è globalizzata, oggi il ciclo produttivo della Fiat è un ciclo produttivo che va da Mirafiori al Brasile, all’India, all’Argentina, alla Polonia, e il suo antico centro si è rarefatto. A Torino la Fiat occupava alla fine degli anni ’70 130.000 dipendenti nei propri stabilimenti oltre all’indotto, oggi ne occupa poco circa 34.000, ha cioè espulso 100.000 persone. Questo nucleo di massa continua ad esistere, si assotiglierà lentamente, ma continuerà ad esistere, ma è un nucleo senza potere in città.
Non è che a Torino manchi forza lavoro che lavori nel ciclo dell’auto, ma è frantumato, disperso, scomposto in una miriade di boite, di piccole fabbriche, di strutture artigiane, di medie fabbriche, di free-lance, di partite IVA al lavoro, di lavoratori autonomi di seconda generazione, che continuano ad essere gerarchizzati dentro il ciclo Fiat, perché chi comanda, chi definisce strategicamente i destini del lavoro continua ad essere il vertice della Fiat, ma che non hanno un luogo dove condensarsi, strutturarsi, organizzarsi, farsi sentire collettivamente ed essere rappresentati. In fondo la classe operaia fordista era molto mal rappresentata, ma aveva le strutture di rappresentanza, che erano il sindacato di massa, il partito di massa e così via. Poi si sono rivelate delle fabbriche di ceto politico in qualche modo, che ha badato più ai propri interessi che a quello dei propri rappresentati. Ma nel modello fordista c’era un’idea di rappresentanza sociale, sia pur distorta e come si è vista poi catastrofica nei suoi risultati, ma in qualche modo chi faceva politica in un partito  di massa sapeva che doveva in qualche rappresentare gli interessi di un soggetto collettivo. Oggi, chi fa politica, sa perfettamente che non rappresenta nessuno, comanda, ma non rappresenta, definisce le regole, ma non sulla base di interessi sociali trasparenti e visibili, soprattutto non è controllabile da nessuno, se non ogni quattro anni al momento del voto, imponendo il proprio monopolio della rappresentanza pubblica.
Direi che a Torino, dove il sociale era molto denso, più che altrove il sociale è diventato invisibile e sommerso, è scomparso, è silenzioso, è senza lingua, è senza linguaggio, è senza parola, è senza rappresentanza. Questa è una tendenza del post-fordismo, ma a Torino questo avviene in modo più repentino, più drammatico, cadendo più dall’alto. Prima Torino era una città totalmente coesa, adesso è una città totalmente frantumata, frammentata e scomposta. In questa logica il suo ceto politico è totalmente irresponsabile dal punto di vista sociale e selezionato in modo negativo: la selezione politica, anche questo un po’ ovunque, ma a Torino in modo particolare, avviene alla rovescia, seleziona i peggiori, seleziona i più mediocri, seleziona i più cinici, i meno preparati. La mia esperienza in Consiglio Comunale mi dice questo. E non penso che alla Regione sia diverso e non penso che i parlamentari espressi da Torino siano particolarmente brillanti. Sono l’espressione di una città scassata.
 
 

2. Secondo te perché proprio a Torino i centri sociali, le case occupate sono egemonizzati da un lato dal pensiero debole degli squat caratterizzato dal rifiuto di una qualsiasi dimensione politica, dalla ricerca di alleanze sociali, dall’estensione della categoria di “nemico”  a tutti quelli che non si riconoscono totalmente nella pratica degli squat, dall’individuazione dell’illegalità come unica pregiudiziale per potersi riconoscere come appartenenti alla stessa tribù, dalla schizofrenia tra rifiuto dei media e continua ricerca di “apparire”, possibilmente come nemico pubblico per potersi poi lamentare della “criminalizzazione” e della “repressione”; e dall’altro lato dalla riproposizione più rigida e rozza da parte dei Murazzi dell’identità della peggiore autonomia operaia anni ’70, il progetto che va sotto il nome di “Autonomia di classe”, un continuismo che ha avuto come ultima deriva la lettera aperta contro don Ciotti? Insomma perché a Torino nei centri sociali c’è quel <clima velenoso> di cui parla Daniele Farina, esponente del Leoncavallo?
Nell’intervista a Carta ho dato un giudizio molto negativo sui centri sociali torinesi, tra i quali va fatta una distinzione ovviamente perché non sono tutti criticabili allo stesso modo, però l’immagine generale che viene data dall’esperienza dei centri sociali di Torino è negativa, ed era un’immagine che mi ero fatto nei due mesi di crisi, diciamo, intorno a marzo-aprile, quando la questione degli squatters e dei centri sociali era arrivata sulle prime pagine dei giornali. A mio avviso in quell’occasione si era manifestata tutta la fragilità e la debolezza di questa esperienza, della subalternità rispetto ai media, al circolo perverso tra esperienza di autorganizzazione e media, all’interna della quale i media hanno avuto delle responsabilità gravissime, quasi criminali per certi versi, perché hanno creato una realtà virtuale, hanno creato dal nulla per certi versi (intendiamoci, i fatti erano gravissimi, le due morti successive sono un fatto grave, la campagna di criminalizzazione, l’indagine sull’ecoterrorismo sono fatti gravissimi), ma i media hanno creato un’immagine totalmente virtuale di pericolosità sociale da parte degli squatters, e paradossalmente e perversamente una parte di loro questa immagine se la sono indossata con grande piacere, perché in qualche modo comunicava un’immagine di potenza che non avevano in realtà. Era un surrogato di una potenza sociale che non avevano in realtà, perché erano alcune centinaia di ragazzi che praticavano forme deboli di informalità e di illegalità e venivano trasformati in un pericolo pubblico numero uno dai media e dalla politica locale che si muoveva nello stesso circuito del virtuale. Questo fa un po’ a pugni con quella che a mio avviso dovrebbe essere la grande occasione, io credo che il centro sociale sia un microcosmo che contiene in sé soluzioni positive per molti dei problemi di degrado di dissoluzione sociale, di scomposizione sociale che caratterizza il post-fordismo, cioè sono un modello organizzativo che può dare delle risposte in avanti alla crisi della socialità che in particolare questa città sta vivendo. L’idea che uno spazio liberato all’interno del tessuto urbano, in cui fare condensazione sociale, ricomposizione sociale, aggregazione, non indifferenziata, ma rispetto a quelle che una volta chiamavamo fratture di classe, tra le vittime in qualche modo, tra i senza potere e i senza rappresentanza che invece non pretendono la conquista del potere, ma vogliono uscire collettivamente da questo modello, il centro sociale sarebbe una risposta in avanti se solo uscisse dal ghetto della cultura giovanile e sapesse proporsi come punto di aggregazione di una molteplicità di soggetti. Se non fosse un ghetto in cui ci si mura, ma una proposta in avanti. La manifestazione del 4 aprile era una grande occasione per parlare a questi, non alla città, non me ne frega niente della città degli Agnelli, dei bottegai di via Roma, degli industrialotti, ma per parlare agli altri come loro che sono tanti, quell’occasione non è stata colta. Quel corteo era un corteo blindato da se stesso, era un corteo che guardava al proprio interno e non al proprio esterno, era un corteo che puntava a risolvere, a regolare i propri conti interni che non a parlare agli altri, era un corteo di gente che si murava dentro, e a me questo mi ha fatto una grande rabbia. Quando siamo arrivati al tribunale e ho visto i segni del passaggio del corteo, esattamente all’opposto dei benpensanti che si sono scandalizzati per l’entità dei danni, mi sono intristito perché quei buchi nei vetri mi sembravano i segni delle unghie di un gattino su un blindato, erano la prova della debolezza, di quanto poco si riesca ad incidere anche solo sui simboli del potere, fingendo di essere dei Rodomonti e in realtà essendo dei gattini allattati. Questo significa che la logica tutta vetero-fordista dell’antagonismo fine a  se stesso, del muro contro muro, dell’esercito che cresce contro inventandosi i simboli del nemico combattendo contro questi simboli e non contro il nemico reale, non funziona più. O tu sei in grado di fare rete sociale, di aggregare, di ricomporre, di fare azioni positive per un altro modello di vita (non per tappare i buchi di questa società), ma azioni che vanno della direzione della costruzione di un’alternativa nei fatti, qui e ora, oppure fai una volta all’anno la grande sfuriata, il mondo alla rovescia, e te lo lasciano fare, perché è un grande sfogatoio, e poi per il resto dell’anno ti autoincensi per quello che hai fatto o ti lecchi le ferite, o ti gestisci lo stillicidio di denunce penali, ma non vai molto lontano.
 

3. <Io devo constatare con disperazione che i livelli di coscienza e di cultura non sono irreversibili, che sono spaventosamente fragili, evaporano. Le cose più terribili che ho sentito dire sui centri sociali, ma potevano tranquillamente riguardare gli immigrati, le ho sentite nei circoli Arci della periferia, dove c’è questa umanità, uso una espressione brutta, sgradevole, andata a male, cui è stata sottratta la dignità del lavoro memoria collettiva>.  La categoria di umanità sgradevole, andata amale, è certo forte, ma è allo stesso tempo fortemente evocativa. A questa espressione è facile associare le mille facce che in questi anni abbiamo incontrato mille volte a Torino. Aldo Bonomi, descrivendo fenomeni simili, parla del <rancore come forma politica di massa>.  Come è potuto accadere in così poco una trasformazione quasi antropologica di queste dimensioni? Ma soprattutto, è reversibile?.
Quando ho evocato questa immagine pensavo soprattutto alle interviste rilasciate in un circolo Arci della Falchera dove ex operai ormai in pensione, intristiti, avvelenati, gonfi di rancore, parlavano dei giovani ribelli con un disprezzo totale, con il disprezzo che si prova solo per la propria gioventù mancata in qualche modo. In qualche modo mi si sono aperti gli occhi su quello che è stata questa classe operaia che è stata tritata  dal fordismo, che è arrivata a Torino tra gli anni ’50 e i primi anni ’60 a migliaia dal Sud, uomini tra i venti e i trent’anni, che ha avuto un moto di rivolta, che hanno fatto la propria rivolta, che l’ha fatta anche bene per certi versi, che è stata prima normalizzata e poi sconfitta e che oggi trae un bilancio catastrofico della propria esistenza: dopo aver attraversato, dopo essere stati digeriti da questo grande mostro che sono le grandi fabbriche della periferie torinesi, da Mirafiori a Lingotto a Rivalta, dopo essere stati spremuti come limoni, dopo aver avuto la colonna vertebrale distorta, le artrosi, quando non hanno avuto di peggio, la tubercolosi, vengono sputati fuori in questi quartieri periferici, che ormai sono contenitori di solitudini, di vecchiaie, penso alle Vallette, alla Falchera, con tassi di disoccupazione del 30%, con tassi di disoccupazione giovanili del 45-50%, con tassi di invecchiamento tripli rispetto al resto della città, in questo orizzonte, in questo panorama devastato di una periferia industriale sporca, grigia, chiusa, senza un luogo di socializzazione, senza un bar, senza un circolo, se non questi tristi cronicari, gente che ha lasciato spesso i luoghi più belli del mondo, gente che ha lasciato Ischia, la costiera Amalfitana, la costa della Calabria, mari azzurri, climi dolci, venire a morire, spremuti, in una periferia puzzolente di Torino e dover trarre il bilancio di una vita che non ha lasciato memoria collettiva, perché questa è stata distrutta dalle stesse organizzazioni del movimento operaio, questo produce grumi di rancore difficili da sciogliere. Quelli dovevano essere quelli che Marx chiamava gli eredi della filosofia classica tedesca, dovevano essere quelli che emancipando se stessi dovevano emancipare l’intera umanità e che sono finiti in questo buco nero di periferia a odiare i giovani che si ribellano, è come dire il bilancio di una sconfitta storica che temo irreversibile da questo punto di vista, cioè ci dice come quella strada lì, la strada dell’organizzarsi nel ventre del nemico, dell’organizzarsi nel cuore del capitale, dentro e contro, per rovesciare i rapporti sociali di produzione, non funziona. Bisogna cercare una strada diversa, una strada che punti all’autorganizzazione fuori dall’universo del lavoro salariato, perché l’universo del lavoro salariato ha prodotto disperazione e un’umanità andata a male.
 
 

4. Come mai gli intellettuali a Torino sono così silenziosi, chiusi nelle accademie, negli studi rigorosi. E dire che oggi, per fare un esempio, a Palazzo Nuovo esiste una fetta consistente di docenti e ricercatori che ha trascorsi giovanili di forte impegno? Quale potrebbe essere il ruolo pubblico di questa intellettualità diffusa nella ricostruzione di quella che tu chiami <società civile municipale>.
Torino è una città di corte. Era una città di corte quando c’erano i Savoia, è tornata ad essere una città di corte nel Novecento quando i Savoia sono andati a Roma e a Torino è nata la Fiat. E’ una città con la sua reggia, il suo palazzo, i suoi simboli. E una città di corte ha i suoi cortigiani. Oggi la stragrande maggioranza dell’intellettualità torinese è composta da cortigiani, è composta da uomini e donne, più uomini che donne, che in qualche modo hanno rinunciato ad un ruolo di elaborazione della cultura critica o anche solo di una cultura che tenti di produrre senso collettivo, e sono diventati intrattenitori, intrattenitori che scrivono sulle pagine del giornale cittadino, intrattenitori che si presentano alla televisione e dicono la loro su tutto, intrattenitori o consiglieri del principe o tecnici della produzione a seconda delle competenze: se sono sociologi sono più vicini alla produzione, se sono filosofi sono più vicini all’intrattenimento salottiero, ma questo è. Non è sempre stato così, c’è stata una cultura che pur non essendo puramente antagonistica è sempre stata  etica, penso ai Bobbio, ai Galante Garrone, e prima ai Gobetti, Torino ha una grande tradizione di cultura non conformistica e non gregaria. Oggi questa è scomparsa, perché? Secondo me perché in generale è in crisi la figura dell’intellettuale. La figura dell’intellettuale presuppone una persona che riusciva a collocarsi al di sopra dei puri rapporti di lavoro, che riusciva a guardare il sociale dall’esterno e giudicarlo, perché non era parte dei meccanismi della valorizzazione sociale complessiva. Tutto il novecento può essere letto come una grande lotta degli intellettuali per non lasciarsi fagocitare e assorbire dal rapporto di lavoro, penso a Benjamin, all’avanguardia artistica, a Barthes. Oggi questo sta entrando in crisi. Oggi il sapere, il linguaggio, il lavoro intellettuale sta diventando parte della produzione sociale, sta scomparendo la figura dell’intellettuale fuori e contro, e quindi queste figure di intellettuali , di grandi vati, alla Vattimo o alla Luciano Gallino diventano in qualche modo appendici del sistema di produzione. Se io qualcosa mi aspetto in questo momento, non è dall’intellettualità alta, che perde la sua capacità critica, ma è dalla micro-intellettualità messa al lavoro, i lavoratori autonomi di seconda generazione, questa sì effettivamente che possiede dei saperi, quindi una cultura e li spende dentro i processi lenticolari della produzione sociale. Da questi mi aspetto che elaborino un’alternativa reale, forte, antagonistica al mondo dominante, dall’intellettualità di massa messa al lavoro.
 
 

5. Nell’articolo sui Rom fai un’osservazione tanto amara quanto veramente allarmante per chi riflette da anni su forme di municipalismo sociale, di federalismo radicale. Scrivi: <Non posso negare il disorientamento, tante sono le certezze che in pochi minuti devo rivedere. Sono sempre stato convinto del primato della dimensione municipale su quella statale e nazionale.. Ora mi ritrovo a ringraziare il cielo che esista un’autorità centrale, lontana dall’alito caldo delle passioni e dei rancori locali, e per questo capace di prescinderne seguendo logiche in qualche misura “universali”…>.  E’ stato un disorientamento momentaneo, o è un elemento importante nel dibattito, applicabile oggi alla questione Rom, ma estendibile ad altri temi?
Sì, quello è stato un mio momento di disagio. Devo dire che questa micro-folgorazione sulla via di Damasco ha avuto breve vita perché dopo dieci giorni è arrivata la vertenza dello stato centrale che si rivelato se non peggiore almeno uguale alla grettezza dei sindaci e degli amministratori locali. Indubbiamento però da questa esperienza la mia fiducia nel municipalismo è diminuita, perché di per sé il governo locale, il governo municipale non è garanzia di maggior universalismo dei diritti, di maggior  capacità di affrontare i nodi del presente a cominciare il nodo dell’immigrazione, molto spesso è ostaggio dei grumi di rancore che si aggregano sul territorio, come dico sente lì, maggiormente il fiato caldo del rancore metropolitano che lavoro. Questo significa  che non basta un sindaco per affrontare questi problemi. O un territorio ha i propri anticorpi nel sociale oppure il sindaco della gente diventa il sindaco dei peggiori della gente peggiore.

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