RAZZISMO STOP - PADOVA

L'impatto del decreto 489/95 sull'immigrazione nel Nord Est ed in particolare in Veneto riflette le difficoltà di applicazione della cosiddetta "minisanatoria" a livello nazionale. Allo stadio attuale non si può stabilire con certezza quante richieste di regolarizzazione si sono trasformate in permesso di soggiorno: alcune questure hanno rilasciato in proposito dichiarazioni che andrebbero attentamente verificate nella loro reale portata. La questura di Padova parla per esempio di un 50% di richieste di regolarizzazione accolte (2000 su 4000) ma la lentezza delle procedure e i dati a disposizione delle associazioni antirazziste a riguardo non portano a confermare tale dato.

Si può dunque affermare che la minisanatoria prevista dal decreto ha incontrato finora rilevanti ostacoli a vari livelli della struttura amministrativa. Se un passaggio problematico è rappresentato dalla ferraginosità delle procedure per l'esame delle richieste di permesso di soggiorno, un ulteriore ostacolo si ha al momento della presentazione delle stesse all'ufficio stranieri della questura. Richieste di certificati e di documenti probatori della presenza in Italia non previsti dal decreto, rilievi cavillosi sulla regolarità della documentazione prodotta, variabilità dei criteri di accettazione delle richieste, hanno allungato e allungano tuttora un iter burocratico che, peraltro, non garantisce affatto come esito finale la concessione del permesso di soggiorno. Un filtro informale nel "lungo cammino" verso la regolarizzazione è posto a monte della procedura amministrativa dai datori di lavoro, poco disposti al versamento della contribuzione anticipata per regolarizzare i dipendenti immigrati. Questa scarsa disponibilità riscontrata con tutta probabilità anche a livello nazionale, si deve nel Nord Est anche alla specificità della realtà produttiva e del mercato del lavoro.

Il sistema produttivo del Nord Est e segnatamente quello veneto è costituito tra l'altro da una giungla di piccole imprese, microimprese, società di fatto operanti sia autonomamente sia all'interno di una rete di committenti e subcommittenti che utilizzano ampiamente il lavoro immigrato. Aree di uso intensivo di tale forza lavoro si hanno soprattutto nel Vicentino (concerie di Chiampo) nella provincia di Treviso (calzaturifici, articoli sportivi, ecc...) e nel Veronese (lavorazione del vetro e marmifici).

All'interno di un uso del lavoro che copre una vasta gamma di livelli di flessibilità prevalgono in generale rapporti di lavori nei quali il lavoratore è privo di potere contrattuale, poco sindacalizzato e poco consapevole dei propri diritti. Il "familismo" tipico di una certa categoria di imprese veneta, analizzato in modo compiacente da vari sociologi ed economisti, crea in realtà un rapporto di lavoro basato su una sostanziale rinuncia al profilo conflittuale, sul contenimento delle rivendicazioni e sulle disponibilità a transazioni rispetto ad una serie di diritti del lavoro. In questo modello di flessibilità, che prevede tra l'altro il contenimento dei costi attraverso l'uso intensivo dello straordinario, delle nuove categorie di lavoro autonomo e del lavoro nero, l'immigrato si colloca al gradino più basso quanto a livelli di retribuzione e di tutela dei diritti.

Alle assunzioni in regola si aggiungono numerose assunzioni in nero, vari sono i casi di sottoretribuzione rispetto ai minimi salariali e regolare è l'uso dello straordinario con rinunce al riposo settimanale. In zone come il Veneto, teatro di un'estrema elasticità nell'uso della forza lavoro, il lavoro immigrato viene dunque largamente utilizzato perché ben si adatta a tale situazione. Le posizioni di precarietà degli immigrati nel mercato del lavoro si combinano facilmente con status incerti o inesistenti sotto il profilo giuridico; la irregolarità e la clandestinità sono, in altre parole, una risorsa per talune imprese del Nord Est. L'irregolarità, oltre a comprimere i costi ed a inibire una soggettività contrattuale del cittadino straniero, può inoltre funzionare come strumento per mantenere una flessibilità ad ampio raggio negli altri segmenti del mercato del lavoro.

Le possibilità di regolarizzazioni previste dal decreto legge 489, imponendo come condizione il versamento di quattro o sei mesi di contributi anticipati sono andati a cozzare contro una rigidità caratteristica del tessuto imprenditoriale veneto, quella relativa alla necessità di comprimere i costi attraverso un ampio ventaglio di strade più o meno formalizzate. Soprattutto per quanto riguarda la regolarizzazione per lavoro dipendente, i datori di lavoro hanno spesso opposto un diniego alle richieste pervenute in tal senso, oppure hanno imposto ai lavoratori l'autocontribuzione in cambio dell'assunzione in regola (attraverso l'autoversamento o la trattenuta in nero sulla busta paga).

Si può così affermare che il decreto non ha favorito una sostanziale emersione dell'irregolarità, almeno per quanto riguarda il mercato del lavoro veneto, ciò nella misura in cui è risultato economicamente disencintivante e nello stesso tempo affidato al volontarismo dei datori di lavoro. Questo riconferma la preferibilità di ipotesi di regolarizzazione indipendenti dal possesso di un lavoro e con ampie possibilità di autocertificazione di lavori pregressi o in corso: la presenza di immigrati già regolarizzati può contribuire a frenare l'utilizzo di forme selvagge di flessibilità che invece sembrano fatte salve dalle forme di regolarizzazione previste dal decreto.

Un effetto positivo sembra invece esserci stato nei rapporti tra il cittadino immigrato ed il tessuto associativo veneto: i contatti presi con le associazioni antirazziste per richiedere informazioni e consulenze sulla stesura delle domande hanno fatto emergere il cittadino immigrato dalla sua condizione di invisibilità almeno per quanto riguarda il suo essere "soggetto che richiede diritti". Tale effetto verrà però stimato nelle sue esatte dimensioni solo in prospettiva.

APPLICAZIONE DELL'ARTICOLO 13 DEL DL 489

L'art. 13 del decreto legge 489, che contempla una generica rimozione dei limiti alla fruizione dell'assistenza sanitaria da parte degli immigrati, non essendo stato sufficientemente precisato da una successiva normativa di dettaglio, non ha provocato un significativo mutamento nei livelli di tutela del diritto alla salute. Sarebbe stata necessaria la garanzia precisa di una serie di prestazioni relative al pronto soccorso, alla diagnostica, alla terapeutica ed alla prevenzione, ma ciò non è stato minimamente realizzato: l'assistenza sanitaria non è perciò sostanzialmente garantita laddove invece sarebbe particolarmente necessaria in ordine ai particolari problemi di salute che l'immigrato si trova ad affrontare in quella che viene eufemisticamente chiamata "società ospitante".

Molto resta da fare quindi nella prospettiva di creare strutture ambulatoriali autogestite che organizzino forme di assistenza per gli immigrati richiedendo risorse al settore pubblico e funzionando da stimolo e come elemento di pressione per un miglioramento della struttura sanitaria pubblica in questo settore.

Attualmente a Padova è attivo solo l'ambulatorio delle cucine popolari che dispone di mezzi atti a garantire un minimo di assistenza di base. Occorre inoltre segnalare che esiste un progetto di ambulatorio autogestito per immigrati presentato dalla nostra associazione all'amministrazione comunale; tale progetto non è ancora operativo anche per l'indisponibilità dell'amministrazione a fornire locali idonei a tale servizio.

zip@ecn.org