"Con grandi occhi vede per te
con forte voce parla per te
con larghe braccia lei ti proteggerà
Mamma Giustizia sa quello che fa.
Tu abbi fiducia perché
Mamma Giustizia ci pensa per te.
Spina del delinquente, rosa per l'innocente
Mamma Giustizia ci pensa da sé"


(I Nomadi, 1971)

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25 aprile

Ma che cosa avrebbero davvero fatto questi nemici del carcere, nei giorni che seguirono quel 25 aprile, di Mussolini, della Petacci, della loro corte mostruosa e ridicola? Che cosa pensano del processo di Norimberga? E dei processi a Milosevic, a Totò Riina, a Pinochet?

Dove ciascuno di noi pone il limite oltre il quale all'azione diretta che libera e affranca, subentra la forma giudiziaria e punitiva che ricrea carcerati, e carcerieri?

In controtendenza con la voga dominante, che richiede sempre più controllo, sempre più sicurezza, sempre più censura, sempre più omologazione, sempre più normalità coatta, intendiamo chiamare tutti, sé stessi prima d'ogni altro, a sperimentare in prima persona i sentieri di quella libertà che si fa potere sulla propria vita, capacità di scegliere, di decidere, di vivere ciascuno a modo proprio, secondo propri criteri, in autonomia.

Perché questo precisamente significa "autonomia", alla faccia delle giravolte e dei girotondi di militanti e professori: darsi le leggi da sé, decidere i propri sì e i propri no, insieme con tutti coloro che riconosciamo come compagni, ma senza essere subordinati ad alcuno.
E, naturalmente, senza pretendere di esercitare potere altro che su noi stessi. Perciò, non soltanto questi giudici, queste leggi, questi tribunali, questi carcerieri, questi carcerati, non devono esistere: ma nessun carcerato, carceriere, tribunale, legge, giudice: perché tutti concorrerebbero ad espropriarci ed alienarci della libertà fondamentale di stabilire senza interferenze ciò che ci appare giusto. E di trarne le eventuali conclusioni.

Per quanto possano essere smisurati i nostri desideri, siamo ben consapevoli dei limiti di un simile progetto: semmai l'augurio è quello di raccogliere e contaminare reciprocamente contributi altrimenti dispersi, dare un ulteriore strumento alla solidarietà, senza nasconderci le difficoltà che un tale discorso incontra in questo mondo pieno di sbarre, dove le richieste legalitarie e securitarie si moltiplicano, affermandosi come uno dei settori economici di punta delle società moderne.

Non sarebbe dunque più realistico limitarsi a rivendicare la scarcerazione delle categorie considerate meno a rischio (i cosiddetti comportamenti non offensivi come l'uso di sostanze stupefacenti o le violazioni delle leggi sull'immigrazione per fare due esempi in voga), o di chi é perseguito in conseguenza delle proprie idee (i rivoluzionari prigionieri) che peraltro costituiscono un frazione forse maggioritaria della popolazione detenuta?


La risposta-proposta che Filiarmonici rilancia, é un deciso e inequivoco no.
Se la nostra solidarietà attiva andrà a chi dentro e fuori il carcere condivide l'idea di buttar giù mura e sbarre e gettare alle ortiche divise e toghe di ogni risma, intendiamo ugualmente batterci contro la detenzione di tutti, anche di chi maggiormente ci ripugna, perché non possiamo ammettere che si punisca e si rinchiude in nostro nome.

Resta inteso che questo ripudio assoluto non intende escludere la capacità di preferire sempre meno carcere, meno sbarre, meno divieti, ma il progetto - che è solo uno spunto - intende raggiungere, dare voce e ricevere impulso da chi, più che a ogni altra cosa mira a nessun carcere, nessuna sbarra e nessun divieto. Alcuni argomentano che una riduzione dell'area esposta alla carcerazione sarebbe un bene in sé, meritevole di massima attenzione e di totale impegno; altri viceversa suggeriscono che una scelta riduzionista finirebbe per dare maggior vigore e più perniciosa efficacia all'istituzione carceraria, e noi forse propendiamo maggiormente per questa seconda valutazione; ma sicuramente pensiamo che non é in nostro potere, non appartiene alle nostre passioni, non corrisponde alle nostre necessità, costruire una società migliore di questa, dove davvero siano i cattivi ad essere puniti, ed i buoni protetti come tutti i codici promettono senza mantenere, da quando un uomo si é avocato il diritto di punire un altro uomo (o, forse, più verosimilmente, una donna).

Non c'è bisogno di esibire statistiche, formulare proposte di legge, elaborare teorie criminologiche per comprendere questo punto; semmai alla scomparsa delle carceri - come beneficio collaterale ma tuttavia affascinante - potremmo ascrivere l'estinzione, possibilmente non del tutto indolore, dello specialista del settore, Non pretendiamo di convincere nessuno della bontà delle nostre idee, anche se non escludiamo che l'emergere di voci che non rimandano costantemente all'ossessione "sicurezza-più sicurezza", "prevenzione-più prevenzione", "punizione-più punizione", potrebbe pure trovare un'eco in tutti coloro, che sono moltissimi, che hanno la percezione più o meno confusa che ogni libertà, anche la più modesta e privata, vada convertendosi in un lusso ogni giorno alla portata di meno persone-

Cerchiamo semmai armonia con chi si riconosce in queste poche parole: contro ogni galera. Su questo c'è poco o nulla da specializzarsi. Quello che più ci interessa è come, a partire dal rifiuto del carcere, sia possibile incrociare, aggrovigliare, contaminare, le diverse pratiche per la liberazione umana e i diversi movimenti sovversivi dell'ordine sociale.
Proprio lì sta il percorso che ci proponiamo e che il sito Web insieme a una serie di incontri "dal vivo" (questo di Torino é il terzo, dopo Roma e Milano, e già altri se ne preannunciano, a Bologna, in Liguria, a Venezia) vorrebbero facilitare.

Manicomio, clinica psichiatrica, trattamento sanitario obbligatorio, elettrochoc, disciplina scolastica, carcere minorile, riformatorio, famiglia, videosorveglianza, braccialetto elettronico, pena di morte, lavori forzati, semidetenzione, comunità, centri di permanenza temporanea, delazioni e dissociazioni ... la lista è lunga e avremmo potuto scegliere qualunque di questi punti di partenza. Se il carcere ci sembra essere la rappresentazione più significativa dei vincoli autoritari imposti dalle istituzioni sociali, ciò non toglie che qualsiasi istituzione comporta una rinuncia alle proprie libertà, una delega del proprio agire, il riconoscimento di un'autorità.

Anche senza arrivare alle botteghe degli orrori che le istituzioni totali esibiscono, o le diverse modalità disciplinari con cui le istituzioni statali si pongono nei nostri confronti, ci si potrebbe limitare a considerare istituzioni sociali più vicine alla nostra quotidianità quali i collettivi, i centri sociali, i partiti, i social forum, i sindacati, per comprendere come anche lì si esercitino analoghe dinamiche di sopraffazione. Il carcere plasma con i suoi meccanismi afflittivi le altre istituzioni sociali e con esse incessantemente scambia conoscenze e pratiche disciplinanti (la terapia, la rieducazione, il consenso, la delega e il verticismo,...).

In un mondo che si configura come una prigione a cielo aperto, con sbarre e prigioni di ogni sorta, "evadere" assume sempre più il significato di rifiutare i vincoli sociali che ci vengono imposti dalla nostra nascita. o addirittura dal concepimento come minacciano le nuove leggi in preparazione.

Disobbedire, non collaborare, disconoscere autorità e istituzioni, respingere il ruolo di carcerieri di noi stessi e degli altri che la società impone tanto a chi sta dalla parte più scomoda, ma ugualmente a chi, per fortuna o per caso, sta dalla parte meno scomoda delle sbarre che ci dividono dai nostri compagni e dalla libertà di tutti.

(per i non carcerati, e i non idraulici, rammentiamo che vengono chiamati popolarmente fili armonici i seghetti flessibili, quelli con le più decisive prestazioni contro l'acciaio)