L'edificio 1391: così si chiama questa fortezza di cemento armato costruita
su una collina che domina un kibbutz, nel centro di Israele, quasi completamente
nascosta da alte mura e abeti. Due torri di guardia militari consentono alle
sentinelle armate di abbracciare con lo sguardo i campi circostanti che si stendono
a perdita d'occhio. Dall'esterno, gli edifici somigliano alle decine di posti
di polizia costruiti negli anni trenta in tutta la Palestina sotto il mandato
britannico.
Molti sono stati trasformati in basi militari, indicate da cartelli con un semplice
numero.
E tuttavia, l'Edificio 1391, vicino alla Linea verde, la frontiera prima del
1967 tra Israele e la Cisgiordania, è diverso. Non figura sulle mappe,
è stato cancellato dalle foto aeree, e di recente è stato portato
via anche il cartello che indicava il suo numero. I censori hanno cancellato
dai media israeliani qualsiasi accenno alla sua posizione geografica in nome
del segreto che, secondo il governo, è di essenziale importanza per «impedire
che si attenti alla sicurezza del paese». Secondo certi avvocati, i giornalisti
stranieri che divulgassero informazioni in merito rischiano l'espulsione dal
paese.
Nonostante gli sforzi accaniti del governo per imporre un vero e proprio black
out sull'informazione, cominciano a venire alla luce i fatti atroci che si sono
svolti proprio in questo luogo per oltre un decennio. Un giornale ebraico ha
definito l'edificio 1391 la «Guantanamo di Israele», con riferimento
al carcere americano di Camp X-Ray, nell'enclave americana a Cuba, in cui sono
detenuti i prigionieri taliban e i membri di al Qaeda.
Nell'ottobre 2003, una commissione di esperti giuridici internazionali guidata
da Richard Goldstone, giudice presso la Corte costituzionale del Sudafrica ed
ex procuratore generale del tribunale internazionale per la ex Jugoslavia e
il Ruanda, ha definito Camp X-Ray un «buco nero» in cui i detenuti
scompaiono e vengono spogliati dei loro diritti più fondamentali sanciti
dalle convenzioni di Ginevra. «Gli stati non possono mantenere i detenuti
di cui sono responsabili al di fuori della giurisdizione di tutti i tribunali
internazionali», aggiungevano gli esperti nel loro rapporto.
Quanto avviene tra le mura dell'Edificio 1391, che peraltro non ha ricevuto
la minima pubblicità, a differenza di Camp X-Ray, costituisce una violazione
del diritto internazionale ancora più flagrante. A differenza di Camp
X-Ray, la situazione geografica del carcere militare israeliano non è
conosciuta pubblicamente, e non esistono neppure le foto di prigionieri scattate
col teleobiettivo come quelle che noi abbiamo di Guantanamo. Altra differenza
rispetto al carcere americano, l'Edificio 1391 non è mai stato sottoposto
ad una ispezione indipendente, neppure dalla Croce Rossa. Quanto avviene laggiù
è un mistero imperscrutabile.
Se il giudice Goldstone ha potuto dichiarare che «662 persone private
di qualsiasi accesso a una procedura regolare» in materia giuridica, erano
detenute a Camp X-Ray, in Israele nessuno, tranne un nucleo ristretto di alti
funzionari del governo e della sicurezza, sa quante persone siano incarcerate
nell'Edificio 1391. Testimonianze di ex detenuti lasciano intuire che sia stracolmo
di prigionieri, fra cui numerosi libanesi, catturati durante i diciotto anni
d'occupazione israeliana nel sud del paese dei cedri.
Quattro mesi dopo le prime rivelazioni sull'esistenza di questa prigione segreta,
spetta alla giustizia israeliana fare in modo che il governo rilasci informazioni
concrete al riguardo.
«Chiunque entri in questo carcere è letteralmente a rischio di
scomparire - potenzialmente per sempre», afferma Leah Tsemel, avvocatessa
israeliana specializzata nella difesa dei palestinesi (si veda l'articolo in
basso). «Non ha nulla da invidiare alle galere dei dittatori sudamericani».
Le rare informazioni che si è riusciti a raccogliere suggeriscono che
i metodi di interrogatorio che ricorrono alla tortura sono di uso corrente.
Mustafà Dirani, della milizia sciita libanese Amal, oggi defunto, di
cui Israele recentemente ha riconosciuto che era stato incarcerato nell'Edificio
1391 dopo essere stato rapito in Libano da agenti israeliani nel 1994, ha dichiarato
di essere stato violentato dai suoi inquisitori.
I primi barlumi che sono trapelati dal segreto che avvolge il carcere sono venuti
da Leah Tsemel, lo scorso anno, dopo che l'esercito israeliano aveva rioccupato
alcune città della Cisgiordania, nell'ambito dell'Operazione «Muro
difensivo» dell'aprile 2002. Fino ad allora, a quanto pare, l'edificio
era servito esclusivamente per prigionieri stranieri, soprattutto giordani,
libanesi, siriani, egiziani e iraniani. Quanti sono? Nessuno lo sa. Il Comitato
degli amici dei prigionieri di Nazareth afferma che quindici cittadini stranieri
arabi sono «dichiarati scomparsi» dal sistema penitenziario israeliano.
A ciò si aggiungano numerosi casi di rapimento, soprattutto in Libano,
che si presume siano opera di Israele. Quattro responsabili del governo iraniano
che sono scomparsi a Beirut nel 1982 non sono mai stati ritrovati. In occasione
delle recenti trattative per lo scambio di prigionieri tra Israele e la milizia
libanese di Hezbollah, le loro famiglie hanno chiesto informazioni allo stato
ebraico.
Dopo gli arresti di massa dell'aprile 2002, che hanno spinto gli istituti di
pena israeliani a un punto critico di sovraffollamento, anche alcuni palestinesi
sono stati mandati nell'Edificio 1391. Per un certo periodo la «scomparsa»
di questi detenuti è rimasta occultata nel caos generale che è
seguito alle incursioni dell'esercito. Tuttavia, nell'ottobre 2002 Leah Tsemel
e una organizzazione israeliana di difesa dei diritti dell'uomo, Hamoked, si
sono rivolti ai giudici per ottenere informazioni. Gli habeas corpus che sono
stati presentati richiedevano che i palestinesi scomparsi comparissero in giudizio,
onde dimostrare che erano ancora vivi. Messe alle strette, le autorità
israeliane hanno ammesso che gli scomparsi erano detenuti in un luogo segreto,
senza fornire ulteriori dettagli. Tutte le richieste d'informazione sono state
trasmesse a Madi Harb, il capo dell'unità anti-terrorismo del carcere
di Kishon, nei pressi di Haifa. In seguito a tali richieste, Israele ha precisato
che soltanto un piccolo numero di palestinesi erano stati incarcerati nell'Edificio
1391, benché molti altri abbiano affermato di avervi soggiornato, come
il dirigente di al Fatah Marwan Barghuti, che è attualmente sotto processo
in Israele. A detta delle autorità, quei prigionieri sono stati successivamente
trasferiti in carceri di ordinaria amministrazione.
Uno solo di loro, Bashar Jadallah, un uomo d'affari di Nablus di cinquant'anni,
è stato rimesso in libertà. Era stato arrestato insieme al cugino
ventitreenne, Mohammed Jadallah, al ponte di Allenby, tra la Giordania e Israele,
il 22 novembre 2002. In una dichiarazione scritta sotto giuramento, Mohammed
Jadallah ha riferito di essere stato torturato finché non ha confessato
di appartenere ad Hamas.
Diversamente dalla maggior parte degli altri detenuti, Bashar Jadallah afferma
di non essere stato picchiato né sottoposto a torture fisiche, forse
a causa della sua età. Ma ha trascorso vari mesi in un isolamento pressoché
assoluto, senza mai vedere i suoi rapitori, che lo terrorizzavano.
La sua minuscola cella, di 2 metri per 2, senza finestre e con le pareti verniciate
di nero, era debolmente illuminata da una lampadina sempre accesa, 24 ore su
24. Gli era stato impedito di mettersi in contatto con un avvocato e di vedere
altri detenuti. Quando chiedeva ai suoi interrogatori dove si trovava, gi rispondevano
che era «sulla luna».
Gli avevano vietato di vedere chiunque, al di fuori della sua cella.
«Prima di farmi uscire, mi facevano mettere dei grossi occhiali scuri
che mi coprivano completamente gli occhi. Dovevo mettere quegli occhiali quando
mi portavano in un altro locale, ad esempio nella sala degli interrogatori o
in infermeria. Potevo togliermi gli occhiali soltanto dopo esser rientrato nella
mia cella».
Hamoked accluderà al suo dossier il parere di uno specialista, il dottor
Yehuakim Stein, uno psichiatra di Gerusalemme, sugli effetti della detenzione
in simili condizioni. Secondo lui, il modo in cui sono stati trattati Jadallah
e gli altri palestinesi che hanno testimoniato sotto giuramento, rappresenta
una forma di tortura mentale, che provoca quella che egli definisce la "sindrome
Ddd" (dread, dependency and debility; terrore, dipendenza e indebolimento).
La mancanza di cibo, di sonno, di movimento e di stimoli mentali, spiega lo
psichiatra, abbinata all'assenza di qualsiasi contatto umano, che si tratti
di un avvocato, dei parenti, di altri detenuti o perfino delle guardie, mira
a fiaccare la resistenza dei carcerati nel corso degli interrogatori, e a ridurli
in uno stato di dipendenza totale nei confronti dei loro interrogatori. Se a
tutto ciò si aggiunge la sofferenza fisica provocata dagli atti di tortura,
o dalle minacce di tortura, la paura di essere ucciso e la sensazione di essere
stato dimenticato da tutti per sempre, i detenuti si consumano con quello che
il dottor Stein definisce un «terrore» molto pericoloso sul piano
psicologico.
«Il fatto di non sapere dove fossi e di non poter neppure guardare in
faccia le guardie mi faceva estremamente paura - riferisce Bashar Jadallah.
La cosa peggiore era la sensazione che potevo scomparire e la mia famiglia non
avrebbe mai saputo che cosa mi fosse successo».
La descrizione di Bashar Jadallah, del suo isolamento e delle sue condizioni
di vita coincide con quella fatta da altri detenuti, le cui testimonianze sono
state raccolte da Leah Tsemel e da Hamoked.
Ricordano i materassi umidi e puzzolenti su cui dormivano, i secchi raramente
svuotati che servivano da gabinetto, l'unico rubinetto d'acqua nella cella,
sotto il controllo di guardie invisibili. Rumori violenti impedivano loro di
dormire, e l'aria condizionata poteva farli tremare dal freddo.
Le testimonianze scritte ricordano atti di tortura, una prassi che è
stata messa al bando dalla Corte Suprema di Israele nel 1999. Hannah Friedman,
direttrice del Comitato pubblico contro la tortura, riferisce che la sua organizzazione
ha constatato un aumento costante dei casi di tortura nelle carceri israeliane
dopo l'inizio dell'ultima intifada.
Secondo un recente studio, il 58% dei detenuti palestinesi verrebbe sottoposto
ad atti di violenza dichiarata, come ad esempio percosse, calci, scosse violente,
o essere costretti a mettersi in posizioni dolorose o imprigionati con manette
che segano i polsi.
Queste prassi, e altre ancora peggiori, sembrano essere di uso corrente nell'Edificio
1391. Mohammed Jadallah riferisce nella sua testimonianza scritta di essere
stato percosso ripetutamente, di aver subìto le catene ai polsi, di essere
stato legato a una sedia in posizioni dolorose, e di non aver avuto il permesso
di andare al gabinetto.
Gli hanno impedito di dormire versandogli l'acqua addosso non appena si assopiva.
I suoi interrogatori gli hanno mostrato le foto di molti suoi parenti, minacciando
di far loro del male. «Mi hanno portato una foto di mio padre vestito
da carcerato, mi hanno fatto ascoltare una cassetta in cui parlava come se fosse
un detenuto. Hanno minacciato di metterlo in carcere e di torturarlo».
E tuttavia, questi prigionieri, probabilmente hanno incontrato una sorte migliore
dei loro compagni di sventura incarcerati per molto tempo nell'Edificio 1391,
i cittadini stranieri. I palestinesi che sono passati da questa prigione segreta
sono rimasti sotto l'autorità dei servizi di sicurezza nazionale, lo
Shin Bet, responsabili degli interrogatori nei normali centri israeliani di
detenzione. Gli stranieri dell'Edificio 1391, invece, dipendono da un settore
speciale dell'intelligence militare, l'Unità 504. Il trattamento loro
riservato è stato rivelato da alcuni documenti trasmessi ai giudici nell'ambito
del processo di Mustafà Dirani.
Quest'ultimo è stato rapito a casa sua in Libano, nel maggio 1994, allorché
i servizi di intelligence israeliani tentavano di accertare dove si trovava
un pilota, Ron Arad, il cui aereo si era schiantato al suolo nel Sud Libano
nel 1986. Dirani ha tenuto prigioniero Arad per due anni, a quanto pare, prima
di «venderlo» all'Iran.
Trasferito lo scorso anno nel carcere di Ashmoret, nei pressi di Netanya, Dirani
è rimasto per otto anni nell'Edificio 1391, con un altro detenuto celebre,
lo sceicco Abdel Karim Obeid, di Hezbollah.
Durante i primi mesi di cattività, allorché gli israeliani erano
sicuri di ottenere da lui utili informazioni su Arad, è stato torturato
da un inquisitore che era un alto ufficiale dell'esercito, noto esclusivamente
con il soprannome di «maggiore George». Benché la tortura,
all'epoca, fosse legale in Israele, Dirani ha sporto querela contro lo stato
ebraico e contro il Maggiore George per due casi di violenza sessuale.
In uno George avrebbe ordinato a un soldato di stuprare Dirani, nell'altro gli
avrebbe infilato un bastone nel retto.
Le accuse di Dirani sono state confermate dalle testimonianze di alcuni soldati
che avevano prestato servizio nel carcere. TN, un interrogatore dichiara: «So
che era prassi corrente minacciare di inserire un bastone, con l'intenzione
di farlo se il soggetto non parlava». La petizione in difesa di George,
che è stata firmata da 60 ufficiali, non nega i fatti, ma ritiene semplicemente
che sia ingiusto prendersela con George per avere impiegato metodi di uso corrente
nel carcere. George stesso ha ammesso che era prassi corrente che i detenuti
fossero spogliati durante gli interrogatori.
Jihad Shuman, un cittadino britannico che Israele ha accusato di appartenere
a Hezbollah dopo il suo arresto a Gerusalemme nel gennaio 2001, è stato
detenuto per tre notti nell'Edificio 1391. Riferisce di essere stato percosso
con violenza dai soldati: «Mi hanno tolto la benda dagli occhi. Ho visto
quindici soldati armati, alcuni muniti di manganelli, che mi circondavano. Alcuni
mi hanno malmenato, spinto e colpito alle spalle». Poco dopo è
stato interrogato da un uomo in uniforme militare, che gli ha detto: «Deve
confessare, altrimenti è un uomo finito, e nessuno saprà che cosa
le è capitato. La confessione o la morte».
Non ci vuole molto a immaginare gli effetti di tali metodi sullo stato emotivo
e psicologico dei detenuti. Ghassan Dirani, un parente di Mustafa Dirani, che
è stato catturato insieme a lui e detenuto per un certo tempo nel carcere
1391, ha poi sofferto di schizofrenia catatonica. Se lo stato di Israele ha
confermato ai giudici che l'Edificio 1391 era un carcere segreto, è tutt'altro
che certo che questo sia l'unico del paese, secondo documenti scoperti di recente
da alcuni gruppi di difesa dei diritti umani. Fra i documenti forniti ad Hamoked
dall'esercito israeliano, alcuni riguardano Mussa Azzain, un militante di Hezbollah
di 35 anni, incarcerato nell'agosto 1992 nella prigione tristemente famosa di
Khiam nel Sud Libano. Secondo alcuni responsabili israeliani, è stato
successivamente trasferito in una «facility barak» in Israele.
Azzain riferisce di essere stato portato in un carcere segreto che i detenuti
chiamavano Sarafend, nome spesso citato dai prigionieri libanesi. Sarafend è
il nome inglese di una base militare che si chiama attualmente Tzrifin, alla
periferia di Tel Aviv.
Numerosi detenuti che sono stati in una prigione segreta hanno affermato di
sentire il rumore delle onde. Ma l'Edificio 1391 si trova a una buona distanza
dal mare. Altri hanno riferito che sentivano il decollo degli aerei o rumori
di spari, che potevano provenire da un poligono militare. Dato che esistono
quasi 70 edifici Taggart - postazioni di polizia fortificate costruite sotto
il mandato britannico - molte di queste potrebbero essere utilizzate come prigioni
segrete senza destare alcun sospetto.
Un altro edificio Taggart, a Gedera, a sud di Tel Aviv, sarebbe stato adibito
a tale uso finché le operazioni non sono state trasferite, a quanto pare,
all'Edificio 1391 negli anni '70. È possibile che vi siano altri casi
del genere. Secondo un ex responsabile della Croce rossa che aveva l'incarico
di ritrovare i prigionieri durante la prima intifada, dal 1987 al 1993, l'organizzazione
umanitaria ha appreso, all'inizio degli anni '90, che Israele aveva imprigionato
in segreto alcuni palestinesi in un edificio del centro di detenzione militare
nei pressi di Nablus, noto sotto il nome di Farah. All casino games run on a random number generator, and for this reason, everyone always has the same chance of winning. Since the gameplay on the pokie is also a game of chance, a little bit of luck also plays a small role for rich winnings. The real and safe Australian online pokies from The-Orb.net cannot be manipulated - neither by the casino nor by the player. You can rely and trust on that and can always count on many chances for the best win.
Kerstein sospetta lo stato ebraico di possedere numerose prigioni segrete che
apre e chiude secondo le necessità. Al culmine dell'occupazione del Libano,
è possibile che molte di queste prigioni fossero in funzione.
Il gran numero di prigionieri palestinesi lo scorso anno potrebbe aver indotto
le autorità ad attivare altre carceri segrete. La signora Kerstein teme
anche che lo stato ebraico subappalti i servizi di questi edifici segreti ad
altri paesi, in particolare gli Stati uniti dopo la loro invasione dell'Iraq.
Secondo la Croce rossa non c'è nessun iracheno tra i detenuti di Guantanamo.
Dato il caos che regna in Iraq, è pressoché impossibile sapere
chi sia stato arrestato e dove siano detenuti i prigionieri.
A detta di alcune fonti diplomatiche, esistono le prove del fatto che gli Stati
uniti interrogano i prigionieri in Giordania, in modo da aggirare il diritto
internazionale e da sfuggire agli occhi della Croce Rossa che ha accesso a Guantanamo.
È possibile che Egitto, Marocco e Pakistan diano loro manforte.
«Sarebbe quanto meno sorprendente che Israele, l'alleato più fedele
degli Stati uniti, di cui sappiamo che possiede almeno un carcere segreto, non
offra i suoi servizi agli americani - afferma Kerstein.
Israele vanta un'esperienza pluridecennale per quanto riguarda la tortura e
l'interrogatorio dei prigionieri arabi - esattamente la competenza che serve
agli americani, nei tempi lunghi successivi alle invasioni dell'Afghanistan
e dell'Iraq».