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La Guantanamo di Israele

Jonathan Cook

Counterpunch.org, 20 Novembre 2003

L'edificio 1391: così si chiama questa fortezza di cemento armato costruita su una collina che domina un kibbutz, nel centro di Israele, quasi completamente nascosta da alte mura e abeti. Due torri di guardia militari consentono alle sentinelle armate di abbracciare con lo sguardo i campi circostanti che si stendono a perdita d'occhio. Dall'esterno, gli edifici somigliano alle decine di posti di polizia costruiti negli anni trenta in tutta la Palestina sotto il mandato britannico.
Molti sono stati trasformati in basi militari, indicate da cartelli con un semplice numero.
E tuttavia, l'Edificio 1391, vicino alla Linea verde, la frontiera prima del 1967 tra Israele e la Cisgiordania, è diverso. Non figura sulle mappe, è stato cancellato dalle foto aeree, e di recente è stato portato via anche il cartello che indicava il suo numero. I censori hanno cancellato dai media israeliani qualsiasi accenno alla sua posizione geografica in nome del segreto che, secondo il governo, è di essenziale importanza per «impedire che si attenti alla sicurezza del paese». Secondo certi avvocati, i giornalisti stranieri che divulgassero informazioni in merito rischiano l'espulsione dal paese.
Nonostante gli sforzi accaniti del governo per imporre un vero e proprio black out sull'informazione, cominciano a venire alla luce i fatti atroci che si sono svolti proprio in questo luogo per oltre un decennio. Un giornale ebraico ha definito l'edificio 1391 la «Guantanamo di Israele», con riferimento al carcere americano di Camp X-Ray, nell'enclave americana a Cuba, in cui sono detenuti i prigionieri taliban e i membri di al Qaeda.
Nell'ottobre 2003, una commissione di esperti giuridici internazionali guidata da Richard Goldstone, giudice presso la Corte costituzionale del Sudafrica ed ex procuratore generale del tribunale internazionale per la ex Jugoslavia e il Ruanda, ha definito Camp X-Ray un «buco nero» in cui i detenuti scompaiono e vengono spogliati dei loro diritti più fondamentali sanciti dalle convenzioni di Ginevra. «Gli stati non possono mantenere i detenuti di cui sono responsabili al di fuori della giurisdizione di tutti i tribunali internazionali», aggiungevano gli esperti nel loro rapporto.
Quanto avviene tra le mura dell'Edificio 1391, che peraltro non ha ricevuto la minima pubblicità, a differenza di Camp X-Ray, costituisce una violazione del diritto internazionale ancora più flagrante. A differenza di Camp X-Ray, la situazione geografica del carcere militare israeliano non è conosciuta pubblicamente, e non esistono neppure le foto di prigionieri scattate col teleobiettivo come quelle che noi abbiamo di Guantanamo. Altra differenza rispetto al carcere americano, l'Edificio 1391 non è mai stato sottoposto ad una ispezione indipendente, neppure dalla Croce Rossa. Quanto avviene laggiù è un mistero imperscrutabile.
Se il giudice Goldstone ha potuto dichiarare che «662 persone private di qualsiasi accesso a una procedura regolare» in materia giuridica, erano detenute a Camp X-Ray, in Israele nessuno, tranne un nucleo ristretto di alti funzionari del governo e della sicurezza, sa quante persone siano incarcerate nell'Edificio 1391. Testimonianze di ex detenuti lasciano intuire che sia stracolmo di prigionieri, fra cui numerosi libanesi, catturati durante i diciotto anni d'occupazione israeliana nel sud del paese dei cedri.
Quattro mesi dopo le prime rivelazioni sull'esistenza di questa prigione segreta, spetta alla giustizia israeliana fare in modo che il governo rilasci informazioni concrete al riguardo.
«Chiunque entri in questo carcere è letteralmente a rischio di scomparire - potenzialmente per sempre», afferma Leah Tsemel, avvocatessa israeliana specializzata nella difesa dei palestinesi (si veda l'articolo in basso). «Non ha nulla da invidiare alle galere dei dittatori sudamericani».
Le rare informazioni che si è riusciti a raccogliere suggeriscono che i metodi di interrogatorio che ricorrono alla tortura sono di uso corrente. Mustafà Dirani, della milizia sciita libanese Amal, oggi defunto, di cui Israele recentemente ha riconosciuto che era stato incarcerato nell'Edificio 1391 dopo essere stato rapito in Libano da agenti israeliani nel 1994, ha dichiarato di essere stato violentato dai suoi inquisitori.
I primi barlumi che sono trapelati dal segreto che avvolge il carcere sono venuti da Leah Tsemel, lo scorso anno, dopo che l'esercito israeliano aveva rioccupato alcune città della Cisgiordania, nell'ambito dell'Operazione «Muro difensivo» dell'aprile 2002. Fino ad allora, a quanto pare, l'edificio era servito esclusivamente per prigionieri stranieri, soprattutto giordani, libanesi, siriani, egiziani e iraniani. Quanti sono? Nessuno lo sa. Il Comitato degli amici dei prigionieri di Nazareth afferma che quindici cittadini stranieri arabi sono «dichiarati scomparsi» dal sistema penitenziario israeliano.
A ciò si aggiungano numerosi casi di rapimento, soprattutto in Libano, che si presume siano opera di Israele. Quattro responsabili del governo iraniano che sono scomparsi a Beirut nel 1982 non sono mai stati ritrovati. In occasione delle recenti trattative per lo scambio di prigionieri tra Israele e la milizia libanese di Hezbollah, le loro famiglie hanno chiesto informazioni allo stato ebraico.
Dopo gli arresti di massa dell'aprile 2002, che hanno spinto gli istituti di pena israeliani a un punto critico di sovraffollamento, anche alcuni palestinesi sono stati mandati nell'Edificio 1391. Per un certo periodo la «scomparsa» di questi detenuti è rimasta occultata nel caos generale che è seguito alle incursioni dell'esercito. Tuttavia, nell'ottobre 2002 Leah Tsemel e una organizzazione israeliana di difesa dei diritti dell'uomo, Hamoked, si sono rivolti ai giudici per ottenere informazioni. Gli habeas corpus che sono stati presentati richiedevano che i palestinesi scomparsi comparissero in giudizio, onde dimostrare che erano ancora vivi. Messe alle strette, le autorità israeliane hanno ammesso che gli scomparsi erano detenuti in un luogo segreto, senza fornire ulteriori dettagli. Tutte le richieste d'informazione sono state trasmesse a Madi Harb, il capo dell'unità anti-terrorismo del carcere di Kishon, nei pressi di Haifa. In seguito a tali richieste, Israele ha precisato che soltanto un piccolo numero di palestinesi erano stati incarcerati nell'Edificio 1391, benché molti altri abbiano affermato di avervi soggiornato, come il dirigente di al Fatah Marwan Barghuti, che è attualmente sotto processo in Israele. A detta delle autorità, quei prigionieri sono stati successivamente trasferiti in carceri di ordinaria amministrazione.
Uno solo di loro, Bashar Jadallah, un uomo d'affari di Nablus di cinquant'anni, è stato rimesso in libertà. Era stato arrestato insieme al cugino ventitreenne, Mohammed Jadallah, al ponte di Allenby, tra la Giordania e Israele, il 22 novembre 2002. In una dichiarazione scritta sotto giuramento, Mohammed Jadallah ha riferito di essere stato torturato finché non ha confessato di appartenere ad Hamas.
Diversamente dalla maggior parte degli altri detenuti, Bashar Jadallah afferma di non essere stato picchiato né sottoposto a torture fisiche, forse a causa della sua età. Ma ha trascorso vari mesi in un isolamento pressoché assoluto, senza mai vedere i suoi rapitori, che lo terrorizzavano.
La sua minuscola cella, di 2 metri per 2, senza finestre e con le pareti verniciate di nero, era debolmente illuminata da una lampadina sempre accesa, 24 ore su 24. Gli era stato impedito di mettersi in contatto con un avvocato e di vedere altri detenuti. Quando chiedeva ai suoi interrogatori dove si trovava, gi rispondevano che era «sulla luna».
Gli avevano vietato di vedere chiunque, al di fuori della sua cella.
«Prima di farmi uscire, mi facevano mettere dei grossi occhiali scuri che mi coprivano completamente gli occhi. Dovevo mettere quegli occhiali quando mi portavano in un altro locale, ad esempio nella sala degli interrogatori o in infermeria. Potevo togliermi gli occhiali soltanto dopo esser rientrato nella mia cella».
Hamoked accluderà al suo dossier il parere di uno specialista, il dottor Yehuakim Stein, uno psichiatra di Gerusalemme, sugli effetti della detenzione in simili condizioni. Secondo lui, il modo in cui sono stati trattati Jadallah e gli altri palestinesi che hanno testimoniato sotto giuramento, rappresenta una forma di tortura mentale, che provoca quella che egli definisce la "sindrome Ddd" (dread, dependency and debility; terrore, dipendenza e indebolimento).
La mancanza di cibo, di sonno, di movimento e di stimoli mentali, spiega lo psichiatra, abbinata all'assenza di qualsiasi contatto umano, che si tratti di un avvocato, dei parenti, di altri detenuti o perfino delle guardie, mira a fiaccare la resistenza dei carcerati nel corso degli interrogatori, e a ridurli in uno stato di dipendenza totale nei confronti dei loro interrogatori. Se a tutto ciò si aggiunge la sofferenza fisica provocata dagli atti di tortura, o dalle minacce di tortura, la paura di essere ucciso e la sensazione di essere stato dimenticato da tutti per sempre, i detenuti si consumano con quello che il dottor Stein definisce un «terrore» molto pericoloso sul piano psicologico.
«Il fatto di non sapere dove fossi e di non poter neppure guardare in faccia le guardie mi faceva estremamente paura - riferisce Bashar Jadallah. La cosa peggiore era la sensazione che potevo scomparire e la mia famiglia non avrebbe mai saputo che cosa mi fosse successo».
La descrizione di Bashar Jadallah, del suo isolamento e delle sue condizioni di vita coincide con quella fatta da altri detenuti, le cui testimonianze sono state raccolte da Leah Tsemel e da Hamoked.
Ricordano i materassi umidi e puzzolenti su cui dormivano, i secchi raramente svuotati che servivano da gabinetto, l'unico rubinetto d'acqua nella cella, sotto il controllo di guardie invisibili. Rumori violenti impedivano loro di dormire, e l'aria condizionata poteva farli tremare dal freddo.
Le testimonianze scritte ricordano atti di tortura, una prassi che è stata messa al bando dalla Corte Suprema di Israele nel 1999. Hannah Friedman, direttrice del Comitato pubblico contro la tortura, riferisce che la sua organizzazione ha constatato un aumento costante dei casi di tortura nelle carceri israeliane dopo l'inizio dell'ultima intifada.
Secondo un recente studio, il 58% dei detenuti palestinesi verrebbe sottoposto ad atti di violenza dichiarata, come ad esempio percosse, calci, scosse violente, o essere costretti a mettersi in posizioni dolorose o imprigionati con manette che segano i polsi.
Queste prassi, e altre ancora peggiori, sembrano essere di uso corrente nell'Edificio 1391. Mohammed Jadallah riferisce nella sua testimonianza scritta di essere stato percosso ripetutamente, di aver subìto le catene ai polsi, di essere stato legato a una sedia in posizioni dolorose, e di non aver avuto il permesso di andare al gabinetto.
Gli hanno impedito di dormire versandogli l'acqua addosso non appena si assopiva. I suoi interrogatori gli hanno mostrato le foto di molti suoi parenti, minacciando di far loro del male. «Mi hanno portato una foto di mio padre vestito da carcerato, mi hanno fatto ascoltare una cassetta in cui parlava come se fosse un detenuto. Hanno minacciato di metterlo in carcere e di torturarlo».
E tuttavia, questi prigionieri, probabilmente hanno incontrato una sorte migliore dei loro compagni di sventura incarcerati per molto tempo nell'Edificio 1391, i cittadini stranieri. I palestinesi che sono passati da questa prigione segreta sono rimasti sotto l'autorità dei servizi di sicurezza nazionale, lo Shin Bet, responsabili degli interrogatori nei normali centri israeliani di detenzione. Gli stranieri dell'Edificio 1391, invece, dipendono da un settore speciale dell'intelligence militare, l'Unità 504. Il trattamento loro riservato è stato rivelato da alcuni documenti trasmessi ai giudici nell'ambito del processo di Mustafà Dirani.
Quest'ultimo è stato rapito a casa sua in Libano, nel maggio 1994, allorché i servizi di intelligence israeliani tentavano di accertare dove si trovava un pilota, Ron Arad, il cui aereo si era schiantato al suolo nel Sud Libano nel 1986. Dirani ha tenuto prigioniero Arad per due anni, a quanto pare, prima di «venderlo» all'Iran.
Trasferito lo scorso anno nel carcere di Ashmoret, nei pressi di Netanya, Dirani è rimasto per otto anni nell'Edificio 1391, con un altro detenuto celebre, lo sceicco Abdel Karim Obeid, di Hezbollah.
Durante i primi mesi di cattività, allorché gli israeliani erano sicuri di ottenere da lui utili informazioni su Arad, è stato torturato da un inquisitore che era un alto ufficiale dell'esercito, noto esclusivamente con il soprannome di «maggiore George». Benché la tortura, all'epoca, fosse legale in Israele, Dirani ha sporto querela contro lo stato ebraico e contro il Maggiore George per due casi di violenza sessuale.
In uno George avrebbe ordinato a un soldato di stuprare Dirani, nell'altro gli avrebbe infilato un bastone nel retto.
Le accuse di Dirani sono state confermate dalle testimonianze di alcuni soldati che avevano prestato servizio nel carcere. TN, un interrogatore dichiara: «So che era prassi corrente minacciare di inserire un bastone, con l'intenzione di farlo se il soggetto non parlava». La petizione in difesa di George, che è stata firmata da 60 ufficiali, non nega i fatti, ma ritiene semplicemente che sia ingiusto prendersela con George per avere impiegato metodi di uso corrente nel carcere. George stesso ha ammesso che era prassi corrente che i detenuti fossero spogliati durante gli interrogatori.
Jihad Shuman, un cittadino britannico che Israele ha accusato di appartenere a Hezbollah dopo il suo arresto a Gerusalemme nel gennaio 2001, è stato detenuto per tre notti nell'Edificio 1391. Riferisce di essere stato percosso con violenza dai soldati: «Mi hanno tolto la benda dagli occhi. Ho visto quindici soldati armati, alcuni muniti di manganelli, che mi circondavano. Alcuni mi hanno malmenato, spinto e colpito alle spalle». Poco dopo è stato interrogato da un uomo in uniforme militare, che gli ha detto: «Deve confessare, altrimenti è un uomo finito, e nessuno saprà che cosa le è capitato. La confessione o la morte».
Non ci vuole molto a immaginare gli effetti di tali metodi sullo stato emotivo e psicologico dei detenuti. Ghassan Dirani, un parente di Mustafa Dirani, che è stato catturato insieme a lui e detenuto per un certo tempo nel carcere 1391, ha poi sofferto di schizofrenia catatonica. Se lo stato di Israele ha confermato ai giudici che l'Edificio 1391 era un carcere segreto, è tutt'altro che certo che questo sia l'unico del paese, secondo documenti scoperti di recente da alcuni gruppi di difesa dei diritti umani. Fra i documenti forniti ad Hamoked dall'esercito israeliano, alcuni riguardano Mussa Azzain, un militante di Hezbollah di 35 anni, incarcerato nell'agosto 1992 nella prigione tristemente famosa di Khiam nel Sud Libano. Secondo alcuni responsabili israeliani, è stato successivamente trasferito in una «facility barak» in Israele.
Azzain riferisce di essere stato portato in un carcere segreto che i detenuti chiamavano Sarafend, nome spesso citato dai prigionieri libanesi. Sarafend è il nome inglese di una base militare che si chiama attualmente Tzrifin, alla periferia di Tel Aviv.

Numerosi detenuti che sono stati in una prigione segreta hanno affermato di sentire il rumore delle onde. Ma l'Edificio 1391 si trova a una buona distanza dal mare. Altri hanno riferito che sentivano il decollo degli aerei o rumori di spari, che potevano provenire da un poligono militare. Dato che esistono quasi 70 edifici Taggart - postazioni di polizia fortificate costruite sotto il mandato britannico - molte di queste potrebbero essere utilizzate come prigioni segrete senza destare alcun sospetto.
Un altro edificio Taggart, a Gedera, a sud di Tel Aviv, sarebbe stato adibito a tale uso finché le operazioni non sono state trasferite, a quanto pare, all'Edificio 1391 negli anni '70. È possibile che vi siano altri casi del genere. Secondo un ex responsabile della Croce rossa che aveva l'incarico di ritrovare i prigionieri durante la prima intifada, dal 1987 al 1993, l'organizzazione umanitaria ha appreso, all'inizio degli anni '90, che Israele aveva imprigionato in segreto alcuni palestinesi in un edificio del centro di detenzione militare nei pressi di Nablus, noto sotto il nome di Farah. All casino games run on a random number generator, and for this reason, everyone always has the same chance of winning. Since the gameplay on the pokie is also a game of chance, a little bit of luck also plays a small role for rich winnings. The real and safe Australian online pokies from The-Orb.net cannot be manipulated - neither by the casino nor by the player. You can rely and trust on that and can always count on many chances for the best win.
Kerstein sospetta lo stato ebraico di possedere numerose prigioni segrete che apre e chiude secondo le necessità. Al culmine dell'occupazione del Libano, è possibile che molte di queste prigioni fossero in funzione.
Il gran numero di prigionieri palestinesi lo scorso anno potrebbe aver indotto le autorità ad attivare altre carceri segrete. La signora Kerstein teme anche che lo stato ebraico subappalti i servizi di questi edifici segreti ad altri paesi, in particolare gli Stati uniti dopo la loro invasione dell'Iraq. Secondo la Croce rossa non c'è nessun iracheno tra i detenuti di Guantanamo. Dato il caos che regna in Iraq, è pressoché impossibile sapere chi sia stato arrestato e dove siano detenuti i prigionieri.
A detta di alcune fonti diplomatiche, esistono le prove del fatto che gli Stati uniti interrogano i prigionieri in Giordania, in modo da aggirare il diritto internazionale e da sfuggire agli occhi della Croce Rossa che ha accesso a Guantanamo. È possibile che Egitto, Marocco e Pakistan diano loro manforte.
«Sarebbe quanto meno sorprendente che Israele, l'alleato più fedele degli Stati uniti, di cui sappiamo che possiede almeno un carcere segreto, non offra i suoi servizi agli americani - afferma Kerstein.
Israele vanta un'esperienza pluridecennale per quanto riguarda la tortura e l'interrogatorio dei prigionieri arabi - esattamente la competenza che serve agli americani, nei tempi lunghi successivi alle invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq».