Documento n. 1
Unione delle Camere Penali italiane, Camera Penale Irpina - scuola di formazione,
Camera Penale di Napoli
Convegno di studi - Avellino, 24-25 maggio 2002
Dignità del detenuto e processi virtuali: l'art. 41 bis dell'ordinamento
penitenziario e il processo in videoconferenza
Documento conclusivo e mozione
Gli avvocati penalisti italiani, riuniti in un convegno da tempo organizzato
allo scopo di sostenere la "battaglia" per l'abrogazione di una
norma, quale quella dell'art. 41 bis dell'ordinamento penitenziario, che gravemente
limita i diritti fondamentali del detenuto, ledendone la dignità, hanno
appreso con sconcerto e stupore la notizia dell'improvvida iniziativa governativa
inerente la presentazione di una proposta di legge finalizzata, di fatto,
a rendere definitivo un regime detentivo che non è improprio definire
medioevale.
Il d.d.l. d'iniziativa governativa in tema di art. 41 bis dell'ordinamento
penitenziario è volto a recepire in norma le restrizioni già
di fatto oggi applicate dal Ministro ai detenuti assoggettati a tale regime
particolare:
È peraltro davvero incomprensibile che a fronte del
venir meno della natura emergenziale dell'istituto permanga la competenza
diretta del Ministro all'irrogazione della misura.
Se, fino ad oggi, l'assoggettamento del detenuto al 41 bis a condizioni di
vita intramurarie obbiettivamente intollerabili poteva anche ascriversi a
prassi devianti, in qualche modo legittimate da evidenti lacune ordinamentali,
d'ora innanzi, se il d.d.l. dovesse essere approvato tal quale, l'afflizione
quale unico scopo del trattamento, del tutto scollegata da concrete esigenze
di tutela specialpreventiva, sarebbe consacrata in legge.
Così come sarebbe consacrato in legge che la misura verrà prorogata
ad libitum fin quando il soggetto (anche quello presuntivamente innocente!)
non avrà scelto la strada della collaborazione.
Gli avvocati delle Camere Penali Italiane, riuniti in convegno ad Avellino,
formulano una mozione diretta a proporre l'abolizione tout court dell'istituto
emergenziale dell'art. 41 bis e, in ogni caso, la sua non riproposizione alla
scadenza del 31.12.2002.
Nudità
Sono in galera e dispongo di pochi libri.
Per fortuna alcuni libri li ho letti quando ero libero.
Sono sottoposto al carcere duro e cioè ad una disciplina così
sottile, raffinata, perversa, da far impallidire il supplizio più atroce.
Sono stato definito socialmente pericoloso e sono in attesa di giudizio.
Per la verità non mi ero avvilito perché ero convinto della
presunzione di non colpevolezza, di una Giustizia serena e di un’amministrazione
carceraria responsabile, ma anche umana.
Non potevo mai immaginare che cosa mi aspettasse.
Sono continuamente in lotta contro quelli che sono diventati i miei nemici
di sempre: gli agenti di custodia.
Pochi giorni or sono mi è stata negata la biancheria intima (mutande,
calzini).
È vero che sono imputato di fatti gravi; ma ero fermamente convinto
che la mia igiene personale riguardasse quel minimo di cura del mio corpo
che nulla avesse a che vedere con la mia pericolosità sociale.
Ho pensato, anche per illudermi, che si trattasse di un episodio isolato.
No! Mi ero sbagliato!
Quando pochi giorni or sono dovevo comparire in video – conferenza,
pur avendo subito le perquisizioni di rito, mi è stato detto che dovevo
calarmi i pantaloni.
Ho chiesto spiegazione per una richiesta che trovavo insolita, ma gli agenti
di custodia mi hanno risposto che era un atto dovuto se avevo interesse a
partecipare all’udienza.
Ho obbedito!
Non potevo mai pensare che, una volta calati i pantaloni, mi facessero abbassare
anche le mutande, mentre un dito esplorava il mio ano con una pratica che
oscillava tra rito e compiacimento da parte dell’operatore.
Mi ribellai! Gridai! Fu tutto inutile!
Questo esercizio, così umiliante, fu praticato altre volte sul mio
corpo.
Da allora ho capito che sono un detenuto ai confini della vita; sradicato
dalla mia identità; un miserabile oggetto; un fantasma; un io senza
io.
Quando ero libero, mi dedicavo poco alla mia famiglia.
Nei confronti di mia moglie ero una maschera, e, con i miei bambini ero assente;
un padre che era tale solo per lo stato civile.
Ma, durante quell’unico colloquio mensile che avevo ed ho con i miei
familiari, sotto la diretta sorveglianza degli agenti di custodia, e, con
quel vetro divisorio, che è una sorta di separazione fisica dagli affetti
più cari, io, definito un delinquente, un mostro, incominciai ad avvertire
con me stesso un disagio psichico.
Poi con il ripetersi di quel colloquio a distanza, notai un giorno che la
mia bambina, di tenera età, dapprima tentò di baciarmi comprimendo
il suo visetto contro il vetro divisorio, poi, si agitò fino al punto
di scoppiare in un pianto così isterico e convulso che mia moglie ritenne
di allontanarsi con lei.
Sarò un delinquente, ma per tutto il giorno mi sentii un abbozzo di
uomo e di padre e scrissi a mia moglie, chiedendole di non portare più
la piccola al colloquio perché soffriva.
Mia moglie mi informò che la bambina era affetta da crisi epilettiche
e che si era chiusa in un mutismo cupo.
Il medico le aveva comunicato che mia figlia poteva migliorare le sue condizioni
di salute in un colloquio diretto con me e, cioè, ricevendo carezze
e parole di conforto da me senza quel vetro divisorio che la scioccava e mandava
alla deriva il mio io.
Ebbi vergogna di me!
Avvertii, al di là dei fatti che la Giustizia mi contestava, di essere
un vile nei confronti della mia bambina che, per come si era ridotta, poteva
ormai essere sostenuta solo dalle mie carezze, dal mio amore.
Gli agenti di custodia, il Ministro, la Corte Costituzionale, i medici, non
vogliono sapere quanto siano importanti gli affetti familiari e come siano
tante volte capaci di trasformare un delinquente in un osservante delle leggi.
Avevo scoperto, grazie a quel corpicino indifeso di mia figlia, una ragione
della vita che mi era completamente sfuggita e che poteva cambiare in radice
me stesso: la mia famiglia.
Dissi a me stesso: perché non posso cambiare? Perché non posso
diventare un altro? Perché un giorno non posso essere come voi?
Volli cambiare condotta in carcere.
Cambiò il mio cervello.
Incominciai ad osservare le norme penitenziarie: diventai rispettoso, ossequioso,
nei confronti dei miei custodi. Chiesi di andare in chiesa; di lavorare; di
istruirmi.
E mentre avvertivo dentro di me questo diritto alla metamorfosi, mi fu notificato
altro decreto ministeriale nel quale leggevo, con mio sommo stupore, che la
buona condotta carceraria non è segno di alcun ravvedimento.
Anzi è il vero alibi del camorrista per cui lungi dal vedere riconosciuto
il mio cambiamento, proprio in quanto osservante delle regole penitenziarie,
ero ancora più pericoloso.
Allora compresi che il decreto ministeriale non solo è lo stesso per
tutti i detenuti, ma è il luogo di tutti i racconti possibili.
Compresi che nel carcere non entrano né la legge né il cuore.
Ma soprattutto divenni sempre più saggio e dissi a me stesso che a
nessuno stava a cuore la mia risocializzazione.
Ho perduto il mio tempo.
Nessuno vuole che io cambi.
Ma vi è di più!
Il carcere è un territorio nel quale il detenuto è abbandonato
a se stesso; un luogo nel quale si perfeziona la sua delinquenza.
Scrissi al Ministro, a tutte le Autorità.
Mi ignorarono tutti.
Pensai di rifare l’ordine delle mie esigenze e mi rivolsi al mio avvocato
al quale chiesi tutela per quanto avveniva in carcere e per la mia difesa.
Il mio avvocato, il più vanitoso di tutti, interpretava le mie esigenze
con un tono oracolare, con aggettivi rassicuranti e mi faceva comprendere
che la sua bravura si sarebbe misurata nella difesa.
Quando comparvi in video – conferenza per difendermi perché era
incominciato il processo a mio carico, bastarono poche udienze per comprendere
che il mio avvocato gestiva solo il suo vuoto nell’ignoranza completa
degli atti.
Fu per me un raddoppiamento di solitudine.
Mi innamorai del mio abisso nel quale mi facevano precipitare l’angoscia
del carcere duro e quello della difesa. Mi sentii braccato!
Pensai al ritornello perverso del decreto che mi accerchiava come un fantasma,
un affatturamento, e mi sussurrava all’orecchio: " Pentiti! Se
ti penti cambia tutto!".
Sprofondai in una disperazione insulare perché si trattava di pentirmi
di ciò che non avevo commesso.
In una notte nella quale si confusero nella mia mente paure e speranze, le
immagini della vita e della morte, levai la mano su di me con numerose coltellate.
Mi sono risvegliato in infermeria dove i medici mi hanno riscontrato allucinazioni
emicraniche con perdite di memoria.
Ora con la passione dell’ignoranza potrò sopportare meglio il
mio inferno.
Raffaele Esposito
Napoli, 23 aprile 2002
Questo monologo di un "detenuto virtuale" in regime di carcere duro
ex art.41 bis, scritto dall’Avvocato Raffaele Esposito del Foro di Napoli,
è stato interpretato dall’Avvocato Franco Russo del Foro di Napoli,
in apertura del Convegno di Studi, tenutosi in Avellino nei giorni 24 e 25
maggio 2002 , sul tema: "Dignità del detenuto e processi virtuali:
l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario e il processo
in videoconferenza" organizzato dall’Unione delle Camere Penali
Italiane, dalla Camera Penale Irpina e dalla Scuola di formazione della Camera
Penale di Napoli.
***
Documento n. 2
Documento approvato dal Consiglio Direttivo della Camera Penale "Serafino
Famà" il 16 luglio 2002
Le ragioni della sicurezza e i dibattiti virtuali
Sul futuro dell'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario, il cosiddetto
"carcere duro", si è aperto da qualche tempo un dibattito
che vede le forze politiche di maggioranza ed opposizione rincorrersi in una
surreale gara alla conquista del titolo di "più antimafioso".
Il discorso sembra essersi rinchiuso fra due ipotetiche alternative: deve
il regime detto, temporaneo ed eccezionale per scelta del legislatore che
lo introdusse e per chiare pronunce della Corte Costituzionale, permanere
fino alla fine della legislatura o divenire norma definitiva?
Nessuno, con la giustificazione o per la paura delle pressioni che verrebbero
dalle carceri - come se chi è rinchiuso in carcere, mafioso o no, fosse
privato della libertà di pensiero e di espressione dello stesso - vuole
entrare nel merito della questione.
La Camera Penale "Serafino Famà", in accordo con quanto discusso
e deciso da tutte le altre camere penali riunite nell'Unione delle Camere
Penali Italiane, ha deciso di farlo.
Nessuno nega che uno Stato ed una società ben ordinate debbano occuparsi
della sicurezza dei cittadini e debbano intervenire affinché nessuno,
men che meno dall'interno di un carcere nel quale è ristretto per scontare
una pena o, in attesa di giudizio, per esigenze ritenute gravi, commetta reati,
specie se questi destano particolare allarme e sono di specifica gravità.
Lo stesso Stato e la stessa società, però, non possono ignorare,
che per espressa previsione costituzionale, la pena alla quale è sottoponibile
chiunque abbia violato la legge è esclusivamente la privazione della
libertà, restando "punita ogni violenza fisica e morale sulle
persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà" (art. 13,
c. 4, Costituzione) e non potendo consistere le pene "in trattamenti
contrari al senso di umanità" (art. 27, c. 3, Costituzione).
La stragrande maggioranza delle misure alle quali viene sottoposto il detenuto
in regime di art. 41-bis o.p. sono, invece, del tutto sganciate dal bisogno
di evitare, attraverso l'effettiva interruzione di eventuali rapporti tra
detenuto e gruppi esterni, una situazione di pericolo per la collettività,
ma al contrario realizzano delle vere e proprie vessazioni non giustificabili,
né dal punto di vista etico, né, tanto meno, dal punto di vista
normativo.
Quali ragioni di sicurezza, ad esempio, possono giustificare il divieto di
cucinare cibi in proprio? Quali la sottrazione, attraverso l'installazione
di apposite grate, della fruizione della luce diretta in cella? Quali l'imposizione
di un solo colloquio al mese con i familiari, posto che il colloquio in questione
è preceduto e seguito da particolareggiate perquisizioni ed è
sottoposto ad un controllo cui nulla può sfuggire? Quali l'obbligo
imposto ai familiari che sostituiscono il colloquio cosiddetto "visivo"
con una telefonata, il cui contenuto viene registrato, di ricevere la detta
telefonata non a casa, bensì spostandosi nei locali di un carcere?
Quali la possibilità di godere delle due uniche ore di aria cui si
ha diritto in cortili di dimensioni ridottissime con pareti altissime, che
riducono il concetto di "aria" ad un mero eufemismo?
Sono soltanto alcuni esempi di ciò che avviene nelle carceri per i
soggetti, più di seicento persone, cui viene applicato il cosiddetto
"carcere duro" (ad alcuni da ben dieci anni!).
Su questi fatti nessuno degli interventi di maggioranza o di opposizione,
finalizzati esclusivamente a dimostrare rumorosamente alla pubblica opinione
l'"antimafiosità" di chi le fa (come se fosse possibile una
condizione diversa!), si sofferma. I politici, nel loro anticiparsi e rincorrersi,
arrivano fino a chiedere che la norma eccezionale del 41-bis diventi definitiva,
con ciò dimenticando quanto sul punto la Corte Costituzionale ha reiteratamente
statuito!
Il sospetto che sorge è che il cosiddetto "carcere duro"
- ma di "carcere sicuro" piuttosto si dovrebbe parlare - serva ad
altre finalità, certamente non consentite dalla legislazione italiana,
né dalle convenzioni internazionali alle quali il nostro paese fa riferimento:
quella di incentivare i cosiddetti "pentimenti" e quella di rendere
la pena o la custodia cautelare più gravose ed odiose di quanto consentito
dalla legge. Finalità vergognose delle quali, nella migliore tradizione
italiana, non si può parlare, facendo finta di ignorarle e indirizzando
il dibattito verso una dimensione "virtuale", al limite del surreale.
In questo contesto gli avvocati della Camera Penale "Serafino Famà"
di Catania, sensibili ai temi fondamentali dei diritti dell'individuo, nella
radicata convinzione che ogni cittadino è titolare di diritti insopprimibili
al di là di ogni comportamento attribuito o accertato, non possono
tacere.
Denunciano l'applicazione dell'art. 41-bis, caratterizzata da fatti che appaiono
gratuitamente lesivi della dignità e dei diritti del cittadino detenuto
e/o imputato.
Invitano le forze politiche a misurarsi su questi temi, alla luce dei principi
contenuti nella nostra Costituzione e nelle convenzioni internazionali, così
come sono stati più volte riaffermati dalla Corte Costituzionale.
Chiedono che l'Unione delle Camere Penali Italiane vigili affinché
i diritti degli individui privati della libertà non vengano lesi e
operi per informare dell'effettività del problema l'opinione pubblica.
Carmelo Passanisi, Pietro Nicola Granata, Valeria Rizzo, Giorgio Antoci, Mario
Di Giorgio, Salvatore Catania Milluzzo, Alfio Finocchiaro
***
Documento n. 3
Interventi pronunciati al Convegno organizzato dalla Camera Penale di
Roma e dall'Ordine degli avvocati di Roma dal titolo "Detenzione speciale
in Italia, diritti civili e costituzionali del detenuto. Articolo 41 bis,
il fine giustifica i mezzi?", svoltosi a Roma il 28 settembre 2002.
Un test per superare il dilemma tra Stato etico e Stato
di diritto
Con chiarezza, contro il 41 bis
di Francesco Petrelli, Renato Borzone, Giuliano Dominici, Sergio D'Elia
"Nella legislazione di Licurgo era prevista la condanna nei confronti di coloro che, quando c'era una sedizione non si schieravano né da una parte né dall'altra. La nostra è una sedizione morale contro gli equilibrismi fra valori costituzionali e conservazione di uno strumento di tortura legalizzata".Francesco Petrelli
Lo scandalo del Tribunale speciale
"C'è una grande aula nella quale tutti gli avvocati assistono a tutti i procedimenti di tutti i detenuti che vengono condotti davanti ai giudici di sorveglianza. Ho visto sfilare decine di detenuti spesso in carrozzella, ho visto persone cieche, ristrette in celle di due metri per tre..."Renato Borzone
Perché non si deve guardare il cielo?
"Perché il detenuto non deve vedere le nuvole ma un altro muro di cemento che sta un metro e mezzo più avanti? Nelle carceri del 41 bis c'è sempre un muro a un metro e mezzo da te, dovunque ti trovi. Credo che si perda la dimensione stessa dello spazio, a vivere così..."
Giuliano Dominici
Direttivo Camera Penale di Roma
Io dovrei parlare delle iniziative: "41 bis: quali iniziative?".
In realtà, la prima cosa della quale - pare - bisogna tutti prendere
atto è che noi siamo, e voi (che per essere oggi qui dimostrate sensibilità
al problema) siete, una infima minoranza politicamente non rappresentata.
Perché se è vero che in questi giorni il 41 bis viene riconfermato
all'unanimità dalla Commissione Giustizia del Senato (quindi da tutte
le forze politiche), dovremmo prendere atto della nostra totale solitudine
e considerarci non solo minoranza, ma minoranza non rappresentata. Il che
pone intanto un problema politico non da poco. E allora, quali iniziative?
Ma questa innanzitutto. Noi ci ostiniamo a voler discutere del 41 bis (e non
soltanto del 41 bis: Renato Borzone ha già parlato di "doppio
binario", io invece intendo fare un accenno a quell'altra vergogna -
per uno Stato democratico - che è il processo in videoconferenza),
perché siamo convinti che non tutti coloro che oggi si dicono favorevoli
sanno, in realtà, cosa è davvero il 41 bis; mentre è
principio basilare della nostra cultura che per essere favorevoli o contrari
a qualche cosa bisogna prima sapere, conoscere. Per questo abbiamo titolato
il primo capitolo di questo libro "Di cosa si parla". Riteniamo
che sia già qualcosa - ed anzi molto - discutere del 41 bis, del doppio
binario, del processo in videoconferenza che non è un processo civile.
Perché non è processo civile quello nel quale il difensore che
durante il processo vuole parlare con la persona che assiste (persona che
dal 1989 - dal "nuovo" codice in poi - non dovrebbe stare neppure
sul banco degli imputati, ma sedere accanto al proprio difensore per partecipare
attivamente al processo), debba invece chiedere ad una sorta di centralinista
si essere collegato con Viterbo, Spoleto, Tolmezzo, e così via. E sentirsi
rispondere "avvocato, tra qualche minuto le danno la linea", e intanto
il processo va avanti, e magari è tardi per fare al testimone (più
spesso al collaboratore) quella domanda, o quell'opposizione. E l'immediatezza,
senza la quale l'oralità diventa una finzione? Il processo in videoconferenza
non è un processo civile (se civile è invece il modello cui
neppure tanti anni fa ci siamo voluti ispirare), e - come il 41 bis - è
innanzitutto stupido. Perché il 41 bis, così com'è ora,
non impedisce, ma rende soltanto più rari e penosi i contatti con l'esterno.
E ben lo sa chi si è reso conto di quanti collaboratori "provenienti"
dal 41 bis abbiano avuto modo, durante il regime speciale, di comunicare tra
loro; perché è comunque impossibile impedire che, nell'unico
colloquio mensile consentito, il soggetto comunichi alla persona che ha diritto
a quel colloquio di riferire qualcosa a qualcuno. Sicché (ha ragione
Ettore Randazzo!) se ragioniamo in termini finalistici assoluti il discorso
diventa: sotterriamoli vivi, questi detenuti, tagliamogli lingua e mani e
il problema, forse, è risolto. Lo stesso vale per la videoconferenza:
doveva impedire il "turismo giudiziario", l'incontro fra boss, i
"summit" (a gesti) tra gabbia e gabbia (qualche collaboratore ha
detto che era così che si prendevano certe decisioni). In realtà
noi abbiamo oggi la situazione tragicomica per la quale, quando ci colleghiamo
con le carceri dalle quali i detenuti assistono al proprio processo, vediamo
due, tre, quattro persone che sono lì a colloquiare tranquillamente
tra di loro, in una saletta, perché quel giorno sono tutti interessati
allo stesso processo. E così è la stessa videoconferenza a diventare
una straordinaria occasione di incontro. Voglio dire, il discorso presenta
due aspetti: ossia, se certe norme sono accettabili, legittime, conformi alla
nostra Costituzione, e se queste norme hanno un senso.
Noi, un anno fa, abbiamo intrapreso questa iniziativa sul 41 bis senza sapere
che saremmo arrivati a questo convegno (ma intanto c'era stata la pubblicazione
del libro Barriere di vetro, trasmissioni da Radio Radicale, etc.) il 28 settembre
del 2002, con il Senato che nel frattempo aveva deciso di rendere definitivo
quel regime. Che, poi e per inciso, trattandosi di un regime speciale eccezionale,
a rigore definitivo non potrebbe mai essere, ma nessuno si pone questi problemi:
il regime è eccezionale e definitivo al tempo stesso, e va bene così.
Qualcuno di noi era rimasto toccato dall'esperienza professionale diretta:
io, per esempio, oltre che da quella barriera di vetro che ha dato il titolo
al libro, da quella divisione fisica del detenuto col quel poco di realtà
esterna (l'avvocato, il familiare) che ancora gli spetta, come fosse un appestato,
sono sempre rimasto colpito da quelle finestre sbarrate, un buco nel muro
di cemento, che - pare - non debbano essere (e comunque di fatto non sono
mai) "vista cielo". Mi sembra un'immagine surreale. Ma perché
non deve essere vista cielo? Perché il detenuto non deve guardare le
nuvole ma deve guardare un altro muro di cemento che sta ad un metro e mezzo
più avanti? Le carceri del 41 bis sono così: c'è sempre
un muro a un metro e mezzo da te, dovunque ti trovi. Credo che si perda la
dimensione stessa dello spazio, a vivere così; o forse sono io che
ho una claustrofobia latente. Ma c'era qualcosa di meno romantico e più
significativo. Abbiamo iniziato questa battaglia nella quale siamo - ci dicono
- totalmente isolati (tant'è che oggi il Commissario Antimafia, da
noi invitato, ci manda a dire "ma che vengo a fare? Ormai il problema
è risolto") non solo perché toccati da questi aspetti del
41 bis, ma anche consapevoli dei rilievi che nel 1995 fece il Comitato europeo
per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani e degradanti.
Che è un organo del Consiglio d'Europa, e non il parlamentare ex sessantottino
che va nelle carceri per "sobillare". È un organo del Consiglio
d'Europa che nel 1995 ispezionò le nostre carceri, dove c'erano i reparti
41 bis, e fece dei rilievi. Qualche riga va letta: "(...) i detenuti
sottoposti al regime 41 bis passano 22 ore al giorno chiusi in celle anonime,
spoglie ed impersonali; nessuna attività culturale o socio-educativa
è consentita; è loro vietato persino l'accesso alla biblioteca
o alla Cappella; le condizioni scoraggianti dei colloqui con i familiari ha
come conseguenza la rarefazione delle visite; la riservatezza dei colloqui
con i difensori è estremamente aleatoria; i ritmi di trasferimento
sono assai elevati con effetti nefasti per il benessere psicologico e fisico
dei detenuti". E come concludeva la propria relazione la Commissione
per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti? Concludeva
così: "Non vi è alcun dubbio che un sistema come quello
descritto è idoneo a provocare nei soggetti che vi sono sottoposti
degli effetti dannosi che si traducono in alterazioni delle facoltà
sociali e mentali spesso irreversibili". Evidenziava poi altro: che un
regime siffatto pare finalizzato, più che a prevenire la pericolosità
dei soggetti ad esso sottoposti, a indurne la collaborazione. A farne dei
pentiti. E allora: non ci battiamo perché abbiamo il cuore tenero.
Ci battiamo perché questo regime, che è inaccettabile secondo
i criteri di valutazione dei preposti organi europei, e tale da provocare
danni alle facoltà sociali e mentali spesso irreversibili, non deve
trovare spazio nel nostro paese, se democratico si vuole definire. Altri sono
- se si vuole discuterne siamo pronti, presto "formalizzeremo" le
nostre proposte - i metodi per realizzare una valida sorveglianza dei detenuti
ed assicurare la sicurezza dei cittadini. Ma vi è ancora un aspetto:
se sia ancora giustificato un regime del genere. Perché ove si arrivasse
alla conclusione che in un certo momento storico - parliamo, ovviamente, dell'estate
del '92, quando è nato il 41 bis - poteva forse, avere senso il regime
eccezionale, bisognerebbe chiedersi se abbia ancora senso oggi che lo si rende
definitivo. E ci aiuta, a tal proposito, l'esame dei "decreti applicativi"
del 41 bis. Affermazioni come quelle che abbiamo sentito ripetutamente in
questi giorni "il fenomeno della criminalità organizzata (ed in
primo luogo la mafia) cresce, si sviluppa, diventa sempre più pericoloso
proprio nella misura in cui se ne sente parlare di meno" (teoria per
la quale l'azione repressiva dello Stato dovrebbe essere inversamente proporzionale
alla "operatività" del sodalizio criminoso) sembra che non
risulti nemmeno al Ministero che applica i decreti del 41 bis. Se prendiamo
quei decreti (uno qualsiasi: sono tutti uguali) e ne leggiamo alcuni passi
ci rendiamo conto che fanno riferimento ad una realtà che, piaccia
o non piaccia, non esiste più. Poi dopo si può anche dire la
criminalità organizzata è un fenomeno underground, sotterraneo,
ma il discorso diventa impalpabile, inverificabile. È ovvio, ci sono
nuovi fenomeni criminali. L'immigrazione clandestina, per esempio, ha assunto
forme organizzate
ma ha senso il 41 bis allo scafista, così si
interrompono i contatti
con chi? Con quelli che dall'altra sponda dell'Adriatico
organizzano la partenza dei gommoni?
Ma torniamo ai decreti applicativi attuali: esaminandoli ci rendiamo conto
che sono delle scatole vuote. Dentro una scatola ce n'è un'altra, e
alla fine non c'è nulla se non la volontà di stroncare dei soggetti
sperando che anch'essi si decidano, finalmente, a collaborare. Questo è,
oggi, l'unico vero scopo del 41 bis. Stroncarli giorno per giorno. Quando
facemmo quel dibattito a Radio Radicale ci fu detto, da un esponente prestigioso
della Procura di Palermo, "voi non sapete quante volte noi scopriamo
che dal 41 bis sono usciti messaggi e segnali". Ne prendiamo atto. Ma,
allora, a che serve un regime fatto in tal modo, oppressivo ed inutile? Ma
avete provato, invece, a dire ad un detenuto sottoposto al 41 bis "puoi
avere il colloquio senza vetro, però devi accettare che sia interamente
registrato e filmato"? È la prima cosa che viene in mente, non
dico che sia la soluzione del problema, ma immagino che sia difficile organizzare
crimini quando si sa che ogni parola (detta poi ad una moglie, ad una madre,
persone care che si cerca di non mettere nei guai) è registrata, ogni
gesto filmato. No, questa forma di detenzione deve essere non solo vessatoria,
ma umiliante: vogliamo parlare delle perquisizioni? Perquisizioni nei confronti
di persone che - divise da un vetro sigillato che va dal pavimento al soffitto
- non hanno alcuna possibilità di scambiarsi alcunché. Quante
volte ci hanno detto - i nostri assistiti - "io non la faccio più
venire mia moglie, perché devo farla perquisire ogni volta? Preferisco
non vederla". Non vessatoria, ma umiliante. Così si spezza in
due la personalità di un soggetto. E allora, dicevo, quei decreti fanno
riferimento alle "risultanze di numerosi procedimenti penali dai quali
risulterebbero - ad esempio - gli sventati attentati a soggetti aventi ruoli
istituzionali ed impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata".
Vorremmo saperne qualcosa di più: non si possono evocare in maniera
tanto generica fatti così gravi, che poi sono altrettante notitiae
criminis che dovrebbero trovare (anzi: aver trovato, ma noi non ne sappiamo
nulla) uno sviluppo processuale
Si fa riferimento a "tentativi
di evasione di pericolosissimi appartenenti ad associazioni mafiose simili",
ma non c'è un nome, non c'è una data. Si legge "che non
va allentata la pressione, che tuttora sussistono concreti - finalmente qualcosa
di concreto! - pericoli per l'ordine e la sicurezza negli istituti penitenziari.
Pericoli da ricollegarsi alla presenza in essi di un rilevante numero di soggetti
detenuti per i delitti di cui ecc.". Badate, non è che io sto
leggendo un decreto che mi sono scelto. Sto leggendo il decreto applicativo
che è uguale per tutti, salvo che per le pendenze giudiziarie di ciascuno.
Ma quando dicevo: finalmente si legge che sussistono concreti pericoli per
l'ordine e la sicurezza, sapete a che cosa si arriva? Si arriva ad un fatto
tragico, noto a molti di voi, cioè all'attentato che portò alla
morte dell'agente di custodia Montalto Giuseppe, che prestava servizio presso
la casa circondariale di Palermo, mi pare di ricordare non al reparto 41 bis,
forse proprio all'Ucciardone. Fatto grave, gravissimo. Ma questo omicidio
è del 1994. Sono passati 8 anni ed è l'unico fatto concreto
indicato che attesterebbe il concreto ed attuale pericolo per l'ordine e la
sicurezza negli istituti penitenziari e fuori. Ma ci rendiamo conto? Due anni
dopo l'istituzione del 41 bis ci fu un omicidio. Dieci anni dopo parliamo
ancora soltanto di quello, che dovrebbe giustificare l'esistenza delle condizioni
attuali di applicabilità del regime detentivo eccezionale. Provate
a dirlo ad un Tribunale di sorveglianza, in sede di reclamo contro il 41 bis,
vedrete cosa vi rispondono. A fronte di tutto questo ci è sembrato
doveroso avviare la campagna per l'abrogazione del 41 bis. È stato
giusto, non è stato giusto: oggi è solo vessatorio ed inutile,
così com'è. Siamo stati "scavalcati" dall'iniziativa
dell'unica grande maggioranza che ha ritenuto - invece - di rendere definitivo
quello stesso regime. Allora perché noi insistiamo in questa battaglia?
Perché, vedete, ci sono tanti piccoli segnali che ci incoraggiano;
oggi Paolo Cento ha detto cose interessanti; qualcosa di interessante - abbiamo
letto sui giornali - ha detto il Presidente del Consiglio dei Ministri (anche
se poi siamo abituati alle sue smentite, a quel dire e disdire del quale siamo
stati noi stessi vittime a proposito della separazione delle carriere, in
occasione del referendum). Ma sta di fatto che io stesso, che pure non sono
Matusalemme, ricordo che le battaglie garantiste un tempo ci sono state, un
tempo - a differenza di oggi - erano di moda, perché quando venne varata
la legge Valpreda, per esempio, quando fu introdotta la scarcerazione per
decorrenza dei termini di custodia cautelare - che allora non si chiamava
custodia cautelare - erano battaglie garantiste autentiche; forse fatte in
occasione di un caso politico, ma fatte per tutti. Vedete, la mafia c'era
anche allora, e quanti mafiosi - da allora - sono usciti di galera per scadenza
dei termini di custodia cautelare? È forse meno giusto l'istituto -
di grande civiltà giuridica - della limitata durata della custodia
cautelare perché grazie ad esso sono usciti anche dei mafiosi? Questo
è il nostro modo di ragionare. E ricordo, anche, che allora non eravamo
soli nelle battaglie contro la legge Reale. Che cosa è successo? Che
fine hanno fatto questi nostri compagni di strada? Non c'era, allora (e quindi
è legittimo sperare che potrà non esserci più, domani)
questa compatta, grigia unanimità. C'era l'orgoglio di dirsi garantisti
e di dire "non conta per chi è giusta la cosa giusta: se è
giusta, la battaglia si deve fare". Questo era il senso del garantismo,
e questo vogliamo recuperare noi, minoranza infima non rappresentata quale
siamo. Ma non siamo soli. I radicali ci sono ancora ed ancora una volta sono
qui con noi. Le associazioni, "Nessuno tocchi Caino", gli esponenti
di tanti partiti che "a titolo personale", sia chiaro, ma ci hanno
comunque dato la loro adesione. Ed è da questo, ed è con questi
che occorre ripartire. O forse bisogna aspettare? Vedete, ho una mia impressione,
spero (come spesso mi capita) sbagliata: e cioè che quando il 41 bis
sarà applicato per la prima volta ad un detenuto "politico",
in tanti scopriranno il problema della detenzione speciale. Ma oggi, che riguarda
soltanto i mafiosi - i paria dei nostri tempi - del 41 bis non importa niente
a nessuno. E quindi, noi, che ci interroghiamo sempre sul nostro razzismo
nei confronti dei popoli d'oltre mare, quelli che arrivano in gommone, cominciamo
ad interrogarci su quest'altra forma di razzismo. Questa incapacità
di affrontare un problema - la mafia, i mafiosi - in altra maniera che "sotterrandolo".
Facendo a gara, come accade oggi, tra chi batte più forte il pugno
sul tavolo, in attesa soltanto - magari non priva di qualche inquietudine
- del prossimo pentito. Io credo che non ci sia battaglia migliore e più
netta e più pura di quella fatta per gli altri, i diversi da te, quelli
con i quali non hai niente da spartire, quelli che non hai mai amato: battersi
per l'altro prima ancora che per il proprio fratello. E allora, ancora una
volta, non sarà l'ultima, facciamo tesoro di questo nostro iniziale
"splendido" isolamento. Noi oggi, in questa battaglia, non siamo
- politicamente - dalla parte di nessuno, e nessuno - salvo le lodevoli eccezioni
di cui ho detto - è dalla nostra. Possiamo quindi discutere senza condizionamenti
e pregiudizi, discutere se davvero esistono nel nostro paese gli intoccabili,
gli irrecuperabili, persone che debbono senza alternativa alcuna essere sotterrati
per sempre. Perché questa è la soluzione attuale: il passaggio
dalla morte civile a quella fisica. O se invece, finalmente, possa e debba
rifiutarsi questa logica del sotterrare, con le persone, anche i problemi
che rappresentano. Ecco cosa fare: partendo dallo zero attuale, ripensando
oggi tutte le nostre iniziative, ricominciando esattamente da questa: dal
discuterne con chi, come voi, ha voglia di ascoltarci, ha voglia di impegnarsi
a ragionare liberamente e senza condizionamenti. E di questo vi ringrazio
molto.
Un buco nero per 645 detenuti
"421 di questi sono definitivi, 55 sono ricorrenti, 81 appellanti, 79 in attesa di primo giudizio. Siccome il regime duro è iniziato dieci anni fa, molti di questi condannati sono diventati definitivi grazie al 41 bis, visto che per loro non vige il principio della presunzione di innocenza, ma al contrario."
Sergio D'Elia
Segretario di "Nessuno tocchi Caino"
Desidero prima di tutto ringraziare per questa opportunità che mi date
per fare il punto della situazione delle sezioni del 41 bis. So che, nel corso
della mattinata, è intervenuto nella tavola rotonda Maurizio Turco,
con il quale questa estate abbiamo organizzato, dal 14 giugno al 27 luglio,
un giro - che abbiamo chiamato "cella cella" - delle sezioni del
41 bis. È probabile che, anche perché non ho potuto partecipare
sin dall'inizio a questo vostro incontro, ripeterò tantissime cose
che già sono state dette, ma vale la pena tornare a ribadirle. Dicevo,
io e Maurizio Turco siamo stati a fare un giro che, a parer mio, avrebbe dovuto
fare la Commissione Antimafia prima e la Commissione Giustizia dopo, prima
di decidere quello che alcuni giorni fa, due giorni fa, hanno deciso, cioè
di stabilizzare un regime penitenziario che davvero non è ideologico,
propagandistico ed eccessivo considerare la stabilizzazione di una grossa
"violation" - come si dice in termini di diritto internazionale
-; cioè di una violazione grave del diritto umanitario internazionale
sotto il profilo, soprattutto, di quella fattispecie criminosa che lo stesso
diritto umanitario definisce come tortura. C'è da dire che la nostra
esplorazione è stata consentita soltanto dalla nostra determinazione
e dalle nostre forze; non c'è stata nessuna collaborazione da parte
delle autorità preposte alla gestione ed all'amministrazione del carcere,
né da parte del Ministro della Giustizia, né da parte del Dap.
Esiste una sorta di segreto di Stato sulla detenzione speciale in Italia;
viene considerato - è detto testualmente anche in occasioni pubbliche
di incontro, l'ultima in una radio alcuni giorni fa con il presidente Tinebra
- un giudizio di pericolosità rispetto alla diffusione di dati riguardo
alla detenzione speciale in Italia, e personalmente, nei confronti miei e
di Maurizio Turco, ritengo di aver svolto un lavoro pericoloso da questo punto
di vista per il solo fatto di aver poi comunicato pubblicamente che le sezioni
del 41 bis in Italia sono 13 e che si trovano a Cuneo, L'Aquila, Marino del
Tronto, Novara, Parma, Pisa - in realtà a Pisa c'è un centro
cosiddetto diagnostico-terapeutico -, a Rebibbia femminile e maschile, Secondigliano,
Spoleto, Terni, Tolmezzo e Viterbo. Abbiamo avuto notizia di queste sezioni
soltanto recandoci da una all'altra; abbiamo visitato la prima e da lì,
dai detenuti stessi che avevano avuto l'occasione di stare in un'altra sezione
41 bis, siamo andati a vederne un'altra, e così abbiamo ricostruito
la mappa. Io, alla fine, non sono neanche sicuro che sono queste 13, potrebbe
esserci ancora qualcos'altro che a noi non risulta, ma credo che siano queste.
Come pure non abbiamo potuto sapere non dico i nomi e i cognomi, ma semplicemente
i dati di quanti detenuti sono in 41 bis oggi in Italia. Non ci è stato
fornito questo dato, lo abbiamo ricostruito facendo il giro "cella cella";
per cui oggi noi sappiamo che al 27 luglio di quest'anno erano 645 le persone
ristrette, perché 645 detenuti noi abbiamo incontrato. Ma un'altra
cosa ancora più segreta è il fatto che esistono non solo le
sezioni, se così si può dire, "normali" del 41 bis,
ma esistono delle aree riservate all'interno delle sezioni del 41 bis, dove
ancora il segreto è ancor più blindato. Ad esempio, per scoprire
in un carcere una di queste aree, di cui conoscevamo l'esistenza, in realtà
poi abbiamo scoperto che ce n'era una che ci hanno fatto visitare, ma poi
ce n'era una seconda in un'altra palazzina, totalmente separata. In quest'ultima,
ci è stato detto che era detenuto Nitto Santapaola, ma ce lo hanno
riferito altri detenuti che ci informavano del fatto che lì ci doveva
essere Nitto Santapaola. Quindi 17 detenuti nell'area riservata. Molti di
voi potranno pensare che questi detenuti siano del calibro di Totò
Riina o di Leoluca Bagarella che sono nell'area riservata e che non comunicano
con nessun altro detenuto se non con quell'unico detenuto, o al massimo da
due fino a tre, (nel senso che noi abbiamo visto al massimo quattro persone
in un'area riservata in cui, in base a sentenze di Corti d'assise di appello
e di Corti di cassazione, è stato loro riconosciuto il diritto, magari
dopo 8 anni di isolamento totale, di socializzare, di andare all'aria insieme
ad un altro detenuto). Per una bizzarra decisione presa dal Dap, invece, abbiamo
scoperto che chi "faceva l'aria" con Riina o la "socialità"
con Riina era un piccolo camorrista, un condannato a 3 anni per associazione
camorristica, che stava praticamente finendo di scontare la sua pena quando
siamo andati a trovarlo. In realtà egli era ristretto in un carcere
normale fino ad un anno e mezzo prima, ma siccome Riina doveva fare la socialità,
dopo un'accurata selezione, il Dap ha deciso che toccava a lui andare. Questa
persona, peraltro, è uscita a fine agosto, e infatti ci aveva detto
- eravamo a luglio - che tra un mese sarebbe stato libero, e lui era in quella
sezione. L'area riservata di solito è una sezione buia, al piano terreno
del carcere, separata anche dalla stessa palazzina dei detenuti "normali"
del 41 bis, poca luce, poca aria, e a questo detenuto era toccato di andare
lì e comunque essere sottoposto alla versione più dura del carcere
duro. Dopodiché all'aria non ci andava mai, perché questo significava
recarsi in una sorta di cubicolo di cemento armato dove c'era meno aria e
meno luce che in sezione e - come lui ci ha detto - non andava neanche in
socialità con Totò Riina, un po' perché Riina è
un orso che non ama fare socialità e un po' perché per lui andare
lì era come andare nella casa del "grande fratello", tante
sono le telecamere, i controlli, ecc. Ora lui è uscito. Ne hanno trovato
un altro più o meno con le stesse caratteristiche, perché li
prendono sempre tra i camorristi napoletani; ma c'è una "prova
del nove" riguardo al rilievo e al profilo criminale delle persone che
sono in 41 bis. Basta che voi indichiate nome e cognome su "Google",
che è il motore di ricerca più attrezzato di Internet, e vedrete
cosa esce fuori con quel nome e cognome. A me, con il primo detenuto che ha
fatto socialità con Totò Riina e con il secondo, la ricerca
è stata infruttuosa, e invece inserendo il nome di Totò Riina
ti vengono fuori 40 o 50 pagine di titoli di notizie che equivalgono a chissà
quante pagine, ecc. Quindi in 41 bis ci sono anche queste persone sconosciute,
e anche nelle aree "più dure" del 41 bis. Allora sono "definitive"
queste persone? Sono state condannate in via definitiva o sono in attesa di
giudizio?
Delle 645 persone che noi abbiamo incontrato, e di cui abbiamo riscontrato
i dati con l'ufficio matricola, risulta che la loro posizione giuridica è
la seguente: 421 sono definitivi, precisamente definitivi e non, ma hanno
almeno un definitivo; 55 sono ricorrenti, 81 appellanti, 79 in attesa di primo
giudizio, 9 non sono stati classificati perché i dati non sono stati
forniti dall'ufficio matricola di alcune carceri. Si potrebbe dire che un
terzo sono definitivi, quindi solo per un terzo si pone il problema del mancato
rispetto della presunzione di innocenza nei confronti di detenuti in 41 bis.
Vuol dire molto semplicemente che, siccome il regime duro è iniziato
10 anni fa, quello che è successo è che i primi detenuti - probabilmente
200 o 300, anche qui i dati sono sempre segreto di Stato - ci sono arrivati
da imputati in 41 bis, ma poi sono diventati definitivi perché lì
si trovano persone che ci stanno da due, tre, cinque anni, fino a persone
che ci stanno da dieci anni. Quindi sono diventati definitivi mentre si trovavano
in regime di 41 bis. Ma aggiungo che probabilmente sono diventati definitivi
"grazie" al 41 bis, nel senso che sono stati condannati per le condizioni
con le quali si svolgono i processi in 41 bis. E questo è tutto un
altro capitolo, ma cercherò di limitarmi alla questione del rapporto
fra regime speciale e diritti umani. Questo vuol dire che i non definitivi,
quelli in attesa di giudizio - come si dice in gergo carcerario "i nuovi
giunti" - sono candidati molto probabili a diventare definitivi e ad
essere condannati, perché per i detenuti in 41 bis non vige il principio
della presunzione di innocenza, ma quello della presunzione (se non un vero
e proprio pregiudizio) di colpevolezza. Le condizioni in cui i detenuti sono
portati a giudizio, infatti, sono tali da determinare e prefigurare questa
loro colpevolezza. Anche qui, non è tanto rispetto al carcere duro
che il fine giustifica i mezzi, qui proprio sono i mezzi ad anticipare, a
prefigurare il fine che si pone il carcere duro, e che per me significa la
condanna di quegli imputati o, in alternativa, la dissociazione, o meglio
la collaborazione con la giustizia di quegli imputati. Più che un sistema
differenziato, il 41 bis è un sistema autoreferenziale che si autolegittima
e che si autoadempie. Qui è il caso della presunzione di colpevolezza
che si autoadempie e funziona nel modo in cui sicuramente voi sapete. Insomma,
tu sei un mafioso presunto e quindi vai in 41 bis; in 41 bis il processo lo
fai in videoconferenza, con le videoconferenze è come fare un processo
virtuale, quindi non ti puoi realmente difendere, di conseguenza molto probabilmente
sarai condannato. Una volta condannato, non sei più un mafioso presunto
ma un mafioso dichiarato e quindi è legittimato il 41 bis. Questo è
il circolo del 41 bis. Davvero non si fa assolutamente propaganda quando si
dice che dal 41 bis si esce soltanto attraverso il pentimento, e qui apro
una piccola parentesi. Il problema, a parer mio, non è tanto il 41
bis ma qualcosa a cui il 41 bis si richiama, che è l'art. 4 bis dell'ordinamento
penitenziario, cioè quell'articolo che stabilisce che per una certa
categoria di detenuti, quindi non di condannati ma di detenuti, sono sospesi
alcuni diritti costituzionali. Non si ha il diritto alla rieducazione finalizzata
alla risocializzazione, per cui mafiosi, sequestratori, trafficanti di droga
- e ora ci hanno aggiunto anche gli "scafisti" e i terroristi -
per definizione non hanno diritto al trattamento finalizzato alla risocializzazione.
A meno che non decidano di collaborare con la giustizia. C'è scritto
chiaramente, è scritto anche nei decreti. Nei decreti c'è scritto
"non ha manifestato alcuna volontà di collaborazione, ecc.".
E il 41 bis è vergognoso anche da questo punto di vista. Quindi la
configurazione della fattispecie criminosa di "tortura" - secondo
il diritto internazionale - non è soltanto una questione che attiene
all'applicazione concreta del regime del carcere duro per come si svolgono
i colloqui, per come vengono vietate alcune cose, per come si è tenuti
in cella, per come non si è curati proprio in quanto detenuti al 41
bis, ma c'è una legittimazione, una legalizzazione del reato di tortura
che è nell'ordinamento penitenziario, ed è l'articolato dell'art.
4 bis. Dicevamo prima che qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente
inflitti ad una persona dolore o sofferenze fisiche o mentali al fine, segnatamente,
di ottenere informazioni o confessioni, e di punirla per un atto che essa
ha commesso, di intimorirla o di esercitare pressioni, si configura come una
sensibile violazione dei diritti umani: e qui è descritta proprio la
situazione oggettiva e soggettiva dei detenuti in 41 bis. È un sistema
blindatissimo quello del 41 bis; se qualcosa viene meno, se qualche tassello
si elimina, fosse anche soltanto nel colloquio con il vetro, crolla tutto
il sistema. Quella sorta di circolo vizioso che descrivevo prima si tiene
nella misura in cui funziona ogni anello del circuito di detenzione speciale.
Il vetro divisorio è, come dire, la metafora perfetta e crudele di
un sistema speciale, tant'è che si può dire che il 41 bis, poi,
è il colloquio attraverso il vetro divisorio, e molti detenuti questo
hanno detto: "noi non siamo contrari al 41 bis - poi magari ci marciano
- però il problema è il vetro divisorio, il problema è
poter toccare, dopo 10 anni che alcuni non lo fanno, le mani della moglie,
del padre, della madre". Quindi i detenuti sono arrivati a dirci che
se il problema è che attraverso quel colloquio si presume che si possano
mantenere i collegamenti con l'esterno tramite i loro familiari, sono disposti
ad accettare la presenza di microfoni (le telecamere già ci sono) ad
accettare la registrazione dei colloqui. Così avremmo rotto questo
vetro che è un vetro dello scandalo, non tanto del trattamento nei
confronti dei detenuti, ma lo scandalo dell'antimafia, dell'antimafia professionale.
Cosa voglio dire? Voglio dire che se fosse vero che attraverso i colloqui
si mantengono rapporti con l'esterno, io quei colloqui li farei fare nella
maniera più libera e aperta possibile, perché, attraverso quei
colloqui io potrei assumere informazioni e aprire piste investigative e smantellare
reti criminali. Ma, evidentemente, l'obiettivo di quel vetro non è
fare la lotta alla mafia. L'obiettivo di quel vetro è distruggere i
rapporti personali e affettivi di persone che già sono a mille chilometri
di distanza dal loro luogo di residenza, perché Tinebra dice "mai
al di sotto di Secondigliano", e siccome sono tutti al di sotto di Secondigliano
come luogo di provenienza, ciò significa che vengono mandati a Novara,
a Cuneo, Tolmezzo, ecc. Percorrono quindi mille chilometri all'andata e mille
al ritorno. Quindi quello che si vuole distruggere non è la famiglia
mafiosa. Quello che si vuole distruggere è la famiglia e i rapporti
familiari. Ho da raccontare questa notizia. Siamo in sede di relazione del
Procuratore generale della Corte d'appello di Caltanissetta per l'inaugurazione
dell'anno giudiziario 2000. Tra le operazioni di polizia giudiziaria che hanno
avuto successo, e che nella relazione sono menzionate come punti di orgoglio
rispetto all'anno precedente, il Procuratore dice e scrive: in data tale,
la Squadra Mobile eseguiva una ordinanza di custodia cautelare nei confronti
di Tizio e Caio in ordine ai delitti di associazione per delinquere di tipo
mafioso e tentata evasione. Il provvedimento scaturiva dall'esito di mirate
indagini che, sulla base di videoregistrazione dei colloqui in carcere tra
il detenuto e il nipote, nonché da intercettazioni ambientali, avevano
portato ad accertare un piano di fuga del primo da eseguire con l'impiego
delle armi, anche a costo di commettere una strage durante una delle sue tante
traduzioni per partecipare ad udienze processuali. Da questa notizia, quello
che capisco è che i colloqui con i familiari possono essere videoregistrati
e costituire fonte di informazioni utili per l'attività investigativa
e per prevenire reati, con buona pace del vetro divisorio. Quello che si propone
togliendo il vetro, quindi, è casomai che i detenuti decidano. Io sono
disponibile a subire un'invasione di campo nella mia privacy e a svolgere
quindi un colloquio videoregistrato ed ascoltato ma, in tal modo, io aggiungo,
- legalizzando microspie, telecamere nascoste, intercettazioni, ecc. - decido
di farlo in questo modo piuttosto che farlo con il vetro. Lasciare quanto
meno la scelta. Lei è disponibile a vedere sua moglie soltanto nel
caso in cui viene videoregistrato il colloquio? Uno decide se farlo o no,
in quanto c'è un diritto alla privacy, e un detenuto decide cosa fare
della propria privacy. Se privilegia il "toccare le mani", il detenuto
arriva a proporre: lasciate il vetro non a tutta altezza, ma fate come si
fa nei laboratori di analisi, mettete due buchi in questo enorme vetro a tutta
altezza, in modo che io possa inserire solo le mani come si fa con le sostanze
pericolose in alcuni laboratori, perché pericolosa è la sostanza
del problema. Pericolosi vengono considerati i familiari, vengono considerati
gli avvocati. Pericoloso viene considerato svolgere i colloqui secondo diritto
e diritti umani. Bene, io avrei anche chiuso. Come si esce da questa situazione?
Ho visto alcuni comunicati stampa sui vostri lavori e, insomma, secondo me
è veramente incredibile che non ci sia stato un voto contrario nella
decisione della Commissione Giustizia del Senato. L'ex sostituto procuratore
Di Pietro ha detto che anche per lui era una cosa incredibile, ma si spiegava
il tutto benissimo con il solito argomento, secondo cui tutti sono allineati
e coperti perché hanno qualcosa di cui farsi perdonare. Io credo che
qui non ci sia soltanto il ricatto che lo Stato pone nei confronti dei mafiosi
per la condizione con cui vengono tenuti e per le modalità di questa
condizione, c'è anche il ricatto non della mafia nei confronti dello
Stato o di parti dello Stato, ma quello tra parti dello Stato. Tutto ciò
ha determinato in questi anni una rincorsa assurda a chi doveva guadagnare
credito nella lotta alla mafia e chi avrebbe dovuto dimostrare, nei confronti
dell'altro, di essere più antimafioso, appunto, dell'altro. Noi ci
troviamo in questa situazione che ha determinato tutto questo. Il risultato
è stato l'aumento dei detenuti in 41 bis. Il numero tende ad aumentare
anche perché si tratta di dimostrare che, appunto, si è inflessibili
nella lotta alla mafia. Però dalle storie personali che io e Maurizio
Turco abbiamo raccolto in questo nostro giro, si capisce che questo aumento
non corrisponde ad un reale pericolo per la sicurezza pubblica e l'ordine
pubblico, ma corrisponde all'aberrante logica dell'emergenza antimafiosa:
il frutto, cioè, di un obiettivo propagandistico che si sono dati e
di cui sono ormai prigionieri sia la destra che la sinistra, e che ha avuto
in questi anni un solo limite: quello dei posti disponibili nelle sezioni
speciali. Io sono segretario di "Nessuno tocchi Caino". Ogni anno
noi elaboriamo un rapporto sulla pena di morte, per cui quest'anno abbiamo
dato conto del fatto che in Cina c'è una campagna anticrimine che si
chiama "colpire duro" e alla quale sono tutti chiamati a concorrere,
al cui successo sono tutti chiamati a concorrere, per cui ci sono le quote
stabilite, per i singoli distretti giudiziari, di persone che vanno condannate
e che vanno giustiziate. Io credo che stia accadendo qualcosa di analogo con
le nostre direzioni distrettuali antimafia: ognuno ha le sue quote da raggiungere,
i detenuti da mettere in 41 bis. Questo sta accadendo, e allora occuparsi
di queste cose, come stiamo facendo noi e state facendo voi, significa
Ecco, come veniamo considerati? Veniamo considerati non degli appassionati
del diritto, dello stato di diritto e dei diritti umani, ma degli utili idioti
di Totò Riina e di Leoluca Bagarella, come se avere a cuore il destino,
la civiltà giuridica di un paese significhi fare il gioco della mafia
e come se dire che si è per il rispetto dello stato di diritto e dei
diritti umani equivalga a dire di essere dalla parte di Totò Riina.
Intanto noi prendiamo atto del fatto che si spara sempre di meno, e siccome
si spara sempre di meno allora alcuni pensano che la situazione è ancora
più pericolosa e che, quindi
Sono state quasi auspicate, direi
quasi annunciate, le guerre di mafia proprio perché non si sapeva come
motivare questa stabilizzazione del regime speciale. Siamo in una situazione
veramente brutta e difficile. Io ho sentito solo alcune voci, Biondi, Taormina
- guardacaso avvocati -, Siniscalchi seppure con alcune riserve, Pisapia e
pochissimi altri, e poi la Camera Penale di Roma. Quando i detenuti ci scrivono,
e noi lo rendiamo pubblico, ci dicono di non capire come mai un avvocato,
che li difende in un tribunale e che va a trovarli in 41 bis, dice che il
41 bis è una vergogna e poi invece quando siede in Parlamento dice
che il 41 bis è necessario per la lotta alla mafia. Io credo che i
detenuti dicano una cosa ovvia e legittima, e che è lecito dire. Il
risultato di questo non è stato il fatto che qualcuno si sia alzato
in Commissione Giustizia per prendere posizione contro quel provvedimento,
ma che qualcuno ha accettato
la scorta. Siamo arrivati a questo livello.
Credo davvero che siamo in una situazione per la quale si può dire
che il nostro sistema è ormai imbarbarito, e andrebbe denunciato a
livello internazionale. Forse ci è rimasta solo la strada del diritto
internazionale e degli organismi internazionali a difesa dei diritti umani,
e noi la perseguiremo grazie anche al vostro aiuto.
Fonte: materiale tratto dai siti http://www.camerepenali.it/, http://www.confidenzialmente.com/, http://www.dikeonline.it/