Documento n. 1
Unione delle Camere Penali italiane, Camera Penale Irpina - scuola di formazione, Camera Penale di Napoli
Convegno di studi - Avellino, 24-25 maggio 2002


Dignità del detenuto e processi virtuali: l'art. 41 bis dell'ordinamento penitenziario e il processo in videoconferenza

Documento conclusivo e mozione
Gli avvocati penalisti italiani, riuniti in un convegno da tempo organizzato allo scopo di sostenere la "battaglia" per l'abrogazione di una norma, quale quella dell'art. 41 bis dell'ordinamento penitenziario, che gravemente limita i diritti fondamentali del detenuto, ledendone la dignità, hanno appreso con sconcerto e stupore la notizia dell'improvvida iniziativa governativa inerente la presentazione di una proposta di legge finalizzata, di fatto, a rendere definitivo un regime detentivo che non è improprio definire medioevale.
Il d.d.l. d'iniziativa governativa in tema di art. 41 bis dell'ordinamento penitenziario è volto a recepire in norma le restrizioni già di fatto oggi applicate dal Ministro ai detenuti assoggettati a tale regime particolare:

Analogamente, il regime delle proroghe è vincolato alla presunzione della permanenza del "raccordo" del detenuto - definitivo o ancora giudicabile e, dunque, presunto innocente - con le organizzazioni criminali o eversive di appartenenza. Il progetto di legge, inoltre, estende oltre ogni comprensibile limite la sfera dei destinatari di tale regime speciale, creando uno strumento che, per la formulazione stessa delle norme di diritto sostanziale, finirà per poter essere applicato ad una ampia ed indiscriminata sfera di soggetti. In rito c'è di nuovo che il Giudice dell'impugnazione diventa il Tribunale della Libertà (in luogo di quello di Sorveglianza): tuttavia al giudice del gravame è inibito ogni potere di disapplicazione parziale del provvedimento impositivo, nonostante esso non abbia natura giurisdizionale, ma ministeriale. Gli avvocati penalisti italiani rigettano la logica dell'iniziativa governativa.
Essa è inoltre in contrasto con l'opinione di tutti gli autorevoli operatori del diritto intervenuti nel corso del convegno e con gli indirizzi espressi dalla Corte Costituzionale in quanto:

È peraltro davvero incomprensibile che a fronte del venir meno della natura emergenziale dell'istituto permanga la competenza diretta del Ministro all'irrogazione della misura.
Se, fino ad oggi, l'assoggettamento del detenuto al 41 bis a condizioni di vita intramurarie obbiettivamente intollerabili poteva anche ascriversi a prassi devianti, in qualche modo legittimate da evidenti lacune ordinamentali, d'ora innanzi, se il d.d.l. dovesse essere approvato tal quale, l'afflizione quale unico scopo del trattamento, del tutto scollegata da concrete esigenze di tutela specialpreventiva, sarebbe consacrata in legge.
Così come sarebbe consacrato in legge che la misura verrà prorogata ad libitum fin quando il soggetto (anche quello presuntivamente innocente!) non avrà scelto la strada della collaborazione.
Gli avvocati delle Camere Penali Italiane, riuniti in convegno ad Avellino, formulano una mozione diretta a proporre l'abolizione tout court dell'istituto emergenziale dell'art. 41 bis e, in ogni caso, la sua non riproposizione alla scadenza del 31.12.2002.

Nudità
Sono in galera e dispongo di pochi libri.
Per fortuna alcuni libri li ho letti quando ero libero.
Sono sottoposto al carcere duro e cioè ad una disciplina così sottile, raffinata, perversa, da far impallidire il supplizio più atroce.
Sono stato definito socialmente pericoloso e sono in attesa di giudizio.
Per la verità non mi ero avvilito perché ero convinto della presunzione di non colpevolezza, di una Giustizia serena e di un’amministrazione carceraria responsabile, ma anche umana.
Non potevo mai immaginare che cosa mi aspettasse.
Sono continuamente in lotta contro quelli che sono diventati i miei nemici di sempre: gli agenti di custodia.
Pochi giorni or sono mi è stata negata la biancheria intima (mutande, calzini).
È vero che sono imputato di fatti gravi; ma ero fermamente convinto che la mia igiene personale riguardasse quel minimo di cura del mio corpo che nulla avesse a che vedere con la mia pericolosità sociale.
Ho pensato, anche per illudermi, che si trattasse di un episodio isolato.
No! Mi ero sbagliato!
Quando pochi giorni or sono dovevo comparire in video – conferenza, pur avendo subito le perquisizioni di rito, mi è stato detto che dovevo calarmi i pantaloni.
Ho chiesto spiegazione per una richiesta che trovavo insolita, ma gli agenti di custodia mi hanno risposto che era un atto dovuto se avevo interesse a partecipare all’udienza.
Ho obbedito!
Non potevo mai pensare che, una volta calati i pantaloni, mi facessero abbassare anche le mutande, mentre un dito esplorava il mio ano con una pratica che oscillava tra rito e compiacimento da parte dell’operatore.
Mi ribellai! Gridai! Fu tutto inutile!
Questo esercizio, così umiliante, fu praticato altre volte sul mio corpo.
Da allora ho capito che sono un detenuto ai confini della vita; sradicato dalla mia identità; un miserabile oggetto; un fantasma; un io senza io.
Quando ero libero, mi dedicavo poco alla mia famiglia.
Nei confronti di mia moglie ero una maschera, e, con i miei bambini ero assente; un padre che era tale solo per lo stato civile.
Ma, durante quell’unico colloquio mensile che avevo ed ho con i miei familiari, sotto la diretta sorveglianza degli agenti di custodia, e, con quel vetro divisorio, che è una sorta di separazione fisica dagli affetti più cari, io, definito un delinquente, un mostro, incominciai ad avvertire con me stesso un disagio psichico.
Poi con il ripetersi di quel colloquio a distanza, notai un giorno che la mia bambina, di tenera età, dapprima tentò di baciarmi comprimendo il suo visetto contro il vetro divisorio, poi, si agitò fino al punto di scoppiare in un pianto così isterico e convulso che mia moglie ritenne di allontanarsi con lei.
Sarò un delinquente, ma per tutto il giorno mi sentii un abbozzo di uomo e di padre e scrissi a mia moglie, chiedendole di non portare più la piccola al colloquio perché soffriva.
Mia moglie mi informò che la bambina era affetta da crisi epilettiche e che si era chiusa in un mutismo cupo.
Il medico le aveva comunicato che mia figlia poteva migliorare le sue condizioni di salute in un colloquio diretto con me e, cioè, ricevendo carezze e parole di conforto da me senza quel vetro divisorio che la scioccava e mandava alla deriva il mio io.
Ebbi vergogna di me!
Avvertii, al di là dei fatti che la Giustizia mi contestava, di essere un vile nei confronti della mia bambina che, per come si era ridotta, poteva ormai essere sostenuta solo dalle mie carezze, dal mio amore.
Gli agenti di custodia, il Ministro, la Corte Costituzionale, i medici, non vogliono sapere quanto siano importanti gli affetti familiari e come siano tante volte capaci di trasformare un delinquente in un osservante delle leggi.
Avevo scoperto, grazie a quel corpicino indifeso di mia figlia, una ragione della vita che mi era completamente sfuggita e che poteva cambiare in radice me stesso: la mia famiglia.
Dissi a me stesso: perché non posso cambiare? Perché non posso diventare un altro? Perché un giorno non posso essere come voi?
Volli cambiare condotta in carcere.
Cambiò il mio cervello.
Incominciai ad osservare le norme penitenziarie: diventai rispettoso, ossequioso, nei confronti dei miei custodi. Chiesi di andare in chiesa; di lavorare; di istruirmi.
E mentre avvertivo dentro di me questo diritto alla metamorfosi, mi fu notificato altro decreto ministeriale nel quale leggevo, con mio sommo stupore, che la buona condotta carceraria non è segno di alcun ravvedimento.
Anzi è il vero alibi del camorrista per cui lungi dal vedere riconosciuto il mio cambiamento, proprio in quanto osservante delle regole penitenziarie, ero ancora più pericoloso.
Allora compresi che il decreto ministeriale non solo è lo stesso per tutti i detenuti, ma è il luogo di tutti i racconti possibili.
Compresi che nel carcere non entrano né la legge né il cuore.
Ma soprattutto divenni sempre più saggio e dissi a me stesso che a nessuno stava a cuore la mia risocializzazione.
Ho perduto il mio tempo.
Nessuno vuole che io cambi.
Ma vi è di più!
Il carcere è un territorio nel quale il detenuto è abbandonato a se stesso; un luogo nel quale si perfeziona la sua delinquenza.
Scrissi al Ministro, a tutte le Autorità.
Mi ignorarono tutti.
Pensai di rifare l’ordine delle mie esigenze e mi rivolsi al mio avvocato al quale chiesi tutela per quanto avveniva in carcere e per la mia difesa.
Il mio avvocato, il più vanitoso di tutti, interpretava le mie esigenze con un tono oracolare, con aggettivi rassicuranti e mi faceva comprendere che la sua bravura si sarebbe misurata nella difesa.
Quando comparvi in video – conferenza per difendermi perché era incominciato il processo a mio carico, bastarono poche udienze per comprendere che il mio avvocato gestiva solo il suo vuoto nell’ignoranza completa degli atti.
Fu per me un raddoppiamento di solitudine.
Mi innamorai del mio abisso nel quale mi facevano precipitare l’angoscia del carcere duro e quello della difesa. Mi sentii braccato!
Pensai al ritornello perverso del decreto che mi accerchiava come un fantasma, un affatturamento, e mi sussurrava all’orecchio: " Pentiti! Se ti penti cambia tutto!".
Sprofondai in una disperazione insulare perché si trattava di pentirmi di ciò che non avevo commesso.
In una notte nella quale si confusero nella mia mente paure e speranze, le immagini della vita e della morte, levai la mano su di me con numerose coltellate.
Mi sono risvegliato in infermeria dove i medici mi hanno riscontrato allucinazioni emicraniche con perdite di memoria.
Ora con la passione dell’ignoranza potrò sopportare meglio il mio inferno.

Raffaele Esposito
Napoli, 23 aprile 2002




Questo monologo di un "detenuto virtuale" in regime di carcere duro ex art.41 bis, scritto dall’Avvocato Raffaele Esposito del Foro di Napoli, è stato interpretato dall’Avvocato Franco Russo del Foro di Napoli, in apertura del Convegno di Studi, tenutosi in Avellino nei giorni 24 e 25 maggio 2002 , sul tema: "Dignità del detenuto e processi virtuali: l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario e il processo in videoconferenza" organizzato dall’Unione delle Camere Penali Italiane, dalla Camera Penale Irpina e dalla Scuola di formazione della Camera Penale di Napoli.

***

Documento n. 2
Documento approvato dal Consiglio Direttivo della Camera Penale "Serafino Famà" il 16 luglio 2002

Le ragioni della sicurezza e i dibattiti virtuali
Sul futuro dell'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario, il cosiddetto "carcere duro", si è aperto da qualche tempo un dibattito che vede le forze politiche di maggioranza ed opposizione rincorrersi in una surreale gara alla conquista del titolo di "più antimafioso". Il discorso sembra essersi rinchiuso fra due ipotetiche alternative: deve il regime detto, temporaneo ed eccezionale per scelta del legislatore che lo introdusse e per chiare pronunce della Corte Costituzionale, permanere fino alla fine della legislatura o divenire norma definitiva?
Nessuno, con la giustificazione o per la paura delle pressioni che verrebbero dalle carceri - come se chi è rinchiuso in carcere, mafioso o no, fosse privato della libertà di pensiero e di espressione dello stesso - vuole entrare nel merito della questione.
La Camera Penale "Serafino Famà", in accordo con quanto discusso e deciso da tutte le altre camere penali riunite nell'Unione delle Camere Penali Italiane, ha deciso di farlo.
Nessuno nega che uno Stato ed una società ben ordinate debbano occuparsi della sicurezza dei cittadini e debbano intervenire affinché nessuno, men che meno dall'interno di un carcere nel quale è ristretto per scontare una pena o, in attesa di giudizio, per esigenze ritenute gravi, commetta reati, specie se questi destano particolare allarme e sono di specifica gravità.
Lo stesso Stato e la stessa società, però, non possono ignorare, che per espressa previsione costituzionale, la pena alla quale è sottoponibile chiunque abbia violato la legge è esclusivamente la privazione della libertà, restando "punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà" (art. 13, c. 4, Costituzione) e non potendo consistere le pene "in trattamenti contrari al senso di umanità" (art. 27, c. 3, Costituzione).
La stragrande maggioranza delle misure alle quali viene sottoposto il detenuto in regime di art. 41-bis o.p. sono, invece, del tutto sganciate dal bisogno di evitare, attraverso l'effettiva interruzione di eventuali rapporti tra detenuto e gruppi esterni, una situazione di pericolo per la collettività, ma al contrario realizzano delle vere e proprie vessazioni non giustificabili, né dal punto di vista etico, né, tanto meno, dal punto di vista normativo.
Quali ragioni di sicurezza, ad esempio, possono giustificare il divieto di cucinare cibi in proprio? Quali la sottrazione, attraverso l'installazione di apposite grate, della fruizione della luce diretta in cella? Quali l'imposizione di un solo colloquio al mese con i familiari, posto che il colloquio in questione è preceduto e seguito da particolareggiate perquisizioni ed è sottoposto ad un controllo cui nulla può sfuggire? Quali l'obbligo imposto ai familiari che sostituiscono il colloquio cosiddetto "visivo" con una telefonata, il cui contenuto viene registrato, di ricevere la detta telefonata non a casa, bensì spostandosi nei locali di un carcere? Quali la possibilità di godere delle due uniche ore di aria cui si ha diritto in cortili di dimensioni ridottissime con pareti altissime, che riducono il concetto di "aria" ad un mero eufemismo?
Sono soltanto alcuni esempi di ciò che avviene nelle carceri per i soggetti, più di seicento persone, cui viene applicato il cosiddetto "carcere duro" (ad alcuni da ben dieci anni!).
Su questi fatti nessuno degli interventi di maggioranza o di opposizione, finalizzati esclusivamente a dimostrare rumorosamente alla pubblica opinione l'"antimafiosità" di chi le fa (come se fosse possibile una condizione diversa!), si sofferma. I politici, nel loro anticiparsi e rincorrersi, arrivano fino a chiedere che la norma eccezionale del 41-bis diventi definitiva, con ciò dimenticando quanto sul punto la Corte Costituzionale ha reiteratamente statuito!
Il sospetto che sorge è che il cosiddetto "carcere duro" - ma di "carcere sicuro" piuttosto si dovrebbe parlare - serva ad altre finalità, certamente non consentite dalla legislazione italiana, né dalle convenzioni internazionali alle quali il nostro paese fa riferimento: quella di incentivare i cosiddetti "pentimenti" e quella di rendere la pena o la custodia cautelare più gravose ed odiose di quanto consentito dalla legge. Finalità vergognose delle quali, nella migliore tradizione italiana, non si può parlare, facendo finta di ignorarle e indirizzando il dibattito verso una dimensione "virtuale", al limite del surreale.
In questo contesto gli avvocati della Camera Penale "Serafino Famà" di Catania, sensibili ai temi fondamentali dei diritti dell'individuo, nella radicata convinzione che ogni cittadino è titolare di diritti insopprimibili al di là di ogni comportamento attribuito o accertato, non possono tacere.
Denunciano l'applicazione dell'art. 41-bis, caratterizzata da fatti che appaiono gratuitamente lesivi della dignità e dei diritti del cittadino detenuto e/o imputato.
Invitano le forze politiche a misurarsi su questi temi, alla luce dei principi contenuti nella nostra Costituzione e nelle convenzioni internazionali, così come sono stati più volte riaffermati dalla Corte Costituzionale.
Chiedono che l'Unione delle Camere Penali Italiane vigili affinché i diritti degli individui privati della libertà non vengano lesi e operi per informare dell'effettività del problema l'opinione pubblica.
Carmelo Passanisi, Pietro Nicola Granata, Valeria Rizzo, Giorgio Antoci, Mario Di Giorgio, Salvatore Catania Milluzzo, Alfio Finocchiaro

***

Documento n. 3
Interventi pronunciati al Convegno organizzato dalla Camera Penale di Roma e dall'Ordine degli avvocati di Roma dal titolo "Detenzione speciale in Italia, diritti civili e costituzionali del detenuto. Articolo 41 bis, il fine giustifica i mezzi?", svoltosi a Roma il 28 settembre 2002.

Un test per superare il dilemma tra Stato etico e Stato di diritto
Con chiarezza, contro il 41 bis

di Francesco Petrelli, Renato Borzone, Giuliano Dominici, Sergio D'Elia

"Nella legislazione di Licurgo era prevista la condanna nei confronti di coloro che, quando c'era una sedizione non si schieravano né da una parte né dall'altra. La nostra è una sedizione morale contro gli equilibrismi fra valori costituzionali e conservazione di uno strumento di tortura legalizzata".
Francesco Petrelli
Direttivo Camera Penale di Roma
Il senso di questa nostra battaglia sul 41 bis è infatti una sorta di work in progress, qualcosa ancora da definirsi, la messa a fuoco di un obiettivo che solo in questo momento noi ci stiamo dando. La prima cosa che ritengo di dovere sottolineare è che il 41 bis non l'osso di un dinosauro estinto, non è un attrezzo antidiluviano che improvvisamente si è solidificato all'interno del nostro ordinamento e delle nostre istituzioni. Al contrario, sembra essere il risultato quasi inevitabile della nostra storia nazionale, di un rapporto antico che ha caratterizzato le istituzioni all'interno del nostro paese, ed in particolare i rapporti fra lo Stato e la struttura carceraria, fra la politica e l'istituzione repressiva, ed è soprattutto il risultato di una storia politica e culturale nazionale di indifferenza nei confronti della sofferenza della detenzione. Ma non solo. Il dato peggiore è che non si tratta solo di indifferenza nei confronti della sofferenza - il che sarebbe ancora in qualche modo scusabile - ma, al contrario, di una strumentalizzazione politica e giudiziaria della sofferenza detentiva e cioè di una utilizzazione scientifica della sofferenza come strumento di propaganda politica e di azione giudiziaria. Vi cito soltanto una pagina che appartiene alla storia alta di questo paese: "L'attuale regolamento penitenziario si fonda essenzialmente su due concetti antitetici: da un lato l'intenzione di atterrire e deprimere il condannato, di fargli sentire la potenza enorme dello Stato, questo è il lato innegabilmente feroce del regolamento perché è molto più facile rinchiudere un condannato, spaventarlo e brutalizzarlo che non educarlo e farne un uomo nuovo: come la ferocia non richiede né intelligenza, né fatica, né mezzi pecuniari. È avvenuto che tutta la parte brutale, quella in cui sopravvive lo spirito della vendetta sociale contro il disgraziato che è nelle carceri, è larghissimamente applicata, tutta la parte invece che rispecchia il dovere dello stato di provvedere alla redenzione del colpevole è rimasta lettera morta. Le carceri italiane rappresentano l'esplicazione della vendetta sociale nella forma forse più feroce che si abbia avuto. Noi crediamo di aver abolito la tortura e i nostri reclusori sono essi stessi il sistema di tortura la più raffinata che si possa dare: ogni notizia dal di fuori è intercettata come ad ammonirlo che egli ha cessato di essere una persona, un individuo ed un essere umano". Non è un deliberato della Camera Penale di Roma; si tratta della relazione del 18 marzo 1904 alla Camera dei Deputati, in sede di approvazione del Bilancio, dell'On. Filippo Turati. Ecco, rileggendo questo intervento viene da porsi una domanda: che fine ha fatto questa sensibilità critica, questa attenzione nei confronti del problema sociale e politico della sofferenza umana? Quale partito, quale forza politica, oggi, ha il coraggio e la forza di far propria questa antica eredità di un pensiero nobile ed alto che comunque aveva certamente attraversato la cultura italiana? Perché questa sensibilità è scomparsa, è tramontata? Perché nessuno oggi, se non l'avvocatura italiana e i pochi spazi residui di quel pensiero - oggi qui degnamente rappresentati in questo convegno - hanno la forza e il coraggio di rivendicare in maniera alta e forte il significato civile e politico della protesta nei confronti di questo uso strumentale della sofferenza umana?
Vi è una ragione - e qualcuno ve lo ha già detto - del perché l'avvocatura ha avuto la capacità e la forza, così come è avvenuto per il passato, di farsi strumento di queste battaglie e di queste proteste, proprio perché possiede al suo interno, nel suo patrimonio genetico, dovrei dire, di chi è abituato a vivere accanto alla sofferenza, una trasversalità che ci ha portato sempre a condividere - al di là della ideologia politica, al di là delle ideologie, e delle qualifiche delle persone che di volta in volta abbiamo difeso nelle aule di Tribunale - alcuni fondamentali valori civili. Una trasversalità della quale evidentemente nessun'altra componente sociale in questo paese, così attaccato ai particolarismi, agli interessi di bottega e agli interessi partitici, è stata capace di dotarsi. Ed allora se questa trasversalità è un valore proprio del patrimonio genetico dell'avvocatura, del quale noi siamo orgogliosi, ecco una risposta a quella domanda "chi può raccogliere quell'eredità?": tocca anche a noi, all'avvocatura associata. Lo abbiamo già fatto, lo stiamo facendo e speriamo di poterlo fare ancora nel tempo, insieme a voi. Un'altra breve citazione: "La continuità delle strutture penitenziarie, malgrado i mutamenti non solo politici, ma istituzionali del paese, dimostra che l'organizzazione carceraria è sempre stata congeniale ai vari assetti politici succedutisi in Italia. Il carcere serve al potere così come è strutturato con le sue disfunzioni, i suoi anacronismi, le sue componenti palesi di violenza e di illegalità". Ancora una volta non è lo scritto di un no-global o di un compagno radicale, è tratto da Carcere e Società di Guido Neppi Modona, certo non un sovversivo. Il carcere che serve al potere e al sistema giudiziario, come parafrasi della sua continuità. La sofferenza come strumento per il raggiungimento di scopi altri, diversi dall'emenda, dal recupero e dalla sicurezza. E allora mi chiedo se davvero ha ragione Lino Jannuzzi quando dice che il 41 bis è il risultato di una confusione, di uno sbandamento, che è un paradosso della nostra vita politica e del nostro sviluppo legislativo ordinamentale. O se, al contrario, come dicevo all'inizio del mio intervento, non è forse il risultato, quasi inevitabile, di una attitudine propria della nostra storia istituzionale, la utilizzazione del carcere solo ed esclusivamente come strumento di potere, la utilizzazione della legislazione di emergenza solo come strumento di propaganda, l'utilizzazione e la strumentalizzazione - come dicevo - della sofferenza umana, da un lato, al fine di colmare quelli che sono straordinari vuoti di fantasia, di intelligenza e di impegno, ovvero la mancata predisposizione di risorse e di strutture nel contrasto al fenomeno mafioso e di altri fenomeni di criminalità organizzata, portato sul territorio anche attraverso nuove politiche sociali, e non solo all'interno delle strutture carcerarie e, dall'altro, con il fine cinico di produrre pentitismo e collaborazione. Sono dunque emersi due diversi aspetti che caratterizzano la battaglia che si va addensando attorno al 41 bis. Da un lato un aspetto, come dire, umanitario, ovvero l'insorgere di un moto di indignazione e di compassione dell'individuo di fronte alla sofferenza dell'altro. E devo dire di aver percepito - nell'intervento di chi ha voluto sottolineare questo primo aspetto, quello della sofferenza in quanto tale - quasi un imbarazzo, come se non fosse sufficientemente dignitoso e "politico" in una battaglia politica e civile, quale è quella che stiamo combattendo, porre al centro delle nostre riflessioni e dei nostri valori condivisi, proprio il tema della sofferenza.
Io credo che invece questa riflessione critica sulla sofferenza in sé derivante dalla utilizzazione dello strumento del 41 bis, in quanto trattamento contrario al senso di umanità che costituzionalmente deve accompagnare la esecuzione della pena detentiva, sia dotata di un altissimo valore, che non può e non deve essere spostato ai confini del "politicamente" utile. Ma il tema della sofferenza si incrocia inevitabilmente con quello della "sofferenza ingiusta" con il tema cioè della sofferenza inutile, quella parte di sofferenza estranea alla condanna e al valore condiviso della giustizia della pena e della privazione della libertà. Ingiusta in questo senso è la sofferenza che non ha ragione e che si colloca al di fuori dei confini della nostra condivisione, è quella che Eschilo, nel suo Prometeo incatenato chiama "ekdika paskein": il "soffrire cose ingiuste". Una sofferenza tanto più inutile e tanto più ingiusta quella del 41 bis in quanto non più riconducibile, come abbiamo potuto testimoniare con la nostra ricerca, ad un reale fine di sicurezza ma a malcelate finalità di politica giudiziaria.
Non so dire se al fondo delle strategie illuministe volte alla abolizione della tortura, se negli scritti di Pietro Verri o di Cesare Beccaria, prevalesse un sentimento di umana compassione di fronte alla atrocità del meccanismo o un vigile sguardo economico sulla efficacia e sulla errabilità dello strumento. Non vedo contraddizione ma reciproca rispondenza fra le due facce del problema. Io credo che sia complessivamente una questione di cultura. Credo assieme a molti di voi che ciò che manca in questo paese è proprio una cultura profonda e radicata dei valori costituzionali e dei valori civili, una cultura che manca per ragioni storiche e nazionali e che certo non si improvvisa, ma che può crescere proprio attorno a battaglie come questa, nella sensibilità di chi noi riusciremo a raggiungere. Mi sono sembrati interessanti due spunti che sembrano andare in direzione contraria l'uno dall'altro. Il primo è infatti quello di un interessante e necessario allargamento dell'orizzonte della battaglia civile contro il 41 bis, formulata attraverso il richiamo alla più recente drammatica esperienza americana. Il richiamo non rende provinciale la nostra prospettiva, anzi, concorre a sprovincializzarla, ad innalzare il tono, perché ci conferma nella consapevolezza della inesistenza di risposte adeguate di fronte a quella sorta di globalizzazione dei problemi connessi al rispetto della dignità umana nella internazionalizzazione della lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo. L'altra considerazione è quella che ci riconduce dal macrocosmo globalizzante al drammatico scenario del microcosmo di una parrocchia palermitana, nella quale si è costretti a riunirsi per discutere in affollate assemblee i problemi sociali del quartiere, al riparo dal condizionamento mafioso, mentre, per lo stesso motivo, la messa, il parroco la celebra all'aperto nelle strade, come testimonianza di libertà. E ancora una volta, proprio sull'onda di questa immagine viene in mente un'altra considerazione che è stata espressa, mi pare, proprio dall'on. Corleone a proposito della sua condivisione - in qualche modo - della utilità che avrebbe il 41 bis, quantomeno ai fini della demolizione e della distruzione del potere dei singoli capi mafiosi. C'è da chiedersi, allora, se sia davvero questo il legittimo compito della politica, quello cioè di sottrarre il potere ad un capo mafioso, e non forse quello di apprestare tutti i mezzi perché quel potere non sorga affatto, perché quel potere nella società non si istituisca. È questo un obiettivo che certamente non si persegue attraverso il 41 bis, ma si persegue attraverso la predisposizione di strumenti di contrasto al fenomeno mafioso, attraverso la predisposizione e l'attuazione di quelle politiche sociali che costituiscono una battaglia che è stata abbandonata ormai da troppo tempo. Nella legislazione di Licurgo era prevista la condanna nei confronti di coloro che, quando vi era una sedizione, non si schieravano né da una parte né dall'altra. La nostra è una sedizione, una sedizione morale, ma è una sedizione. E allora non si comprende come si possa, di fronte ad un problema quale è quello proposto dal 41 bis, riuscire ancora a costruire equilibrismi politici fra valori costituzionali e conservazione di uno strumento di tortura legalizzata quale è quello del 41 bis stesso. E allora ecco il senso di questa battaglia, questo dovere di schierarsi con chiarezza da una parte o dall'altra, perché nel paese si apra un dibattito che investa non solo la consapevolezza della nostra storia passata, ma soprattutto la coscienza della responsabilità che noi tutti abbiamo, anche nei confronti delle generazioni future.

Lo scandalo del Tribunale speciale

"C'è una grande aula nella quale tutti gli avvocati assistono a tutti i procedimenti di tutti i detenuti che vengono condotti davanti ai giudici di sorveglianza. Ho visto sfilare decine di detenuti spesso in carrozzella, ho visto persone cieche, ristrette in celle di due metri per tre..."
Renato Borzone
Presidente Camera Penale di Roma
Dovrei fare una sintesi dell'attività del gruppo di lavoro della Camera Penale di Roma sull'art. 41 bis, ma ritengo che tutto sommato sia abbastanza superfluo farlo. Il lavoro che abbiamo svolto e le iniziative che abbiamo assunto sono tutte riepilogate nel libro Barriere di vetro. Credo che, a ben guardare, nel libro possa rinvenirsi anche la radice di quello che dovremmo fare nel futuro, una sorta di programma delle prossime iniziative, perché questo convegno intende essere soltanto un momento di passaggio rispetto ad un lavoro che ancora è da completarsi, anche con riferimento al testo licenziato nei giorni scorsi dal Ministero della Giustizia. Ritenendo, appunto, superfluo fare un resoconto del lavoro svolto, penso che sia invece il caso di avviare una riflessione aggiuntiva sul perché è stato svolto, sul contesto nel quale è stato realizzato. Noi siamo partiti, come credo sempre un avvocato faccia anche nell'esercizio della sua attività professionale, dalla "emozione" derivante da certe situazioni e da certe ingiustizie per affrontare il problema del 41 bis. Siamo però poi arrivati, come è necessario, sia per l'avvocato di fronte al suo caso giudiziario sia per chi voglia occuparsi di politica giudiziaria, ad un'analisi più fredda, ragionata, per così dire "politica" di quello che è il 41 bis. La prima fase, quella dell'emozione, è facilmente ricostruibile. Mi è capitato, occupandomi di 41 bis nel corso della mia attività professionale, di partecipare a molte udienze davanti ai Tribunali di sorveglianza, e quasi sempre mi era capitato di tenerle in un'apposita auletta, all'interno del carcere, nella quale si veniva chiamati soltanto nel momento in cui il cliente veniva appunto condotto davanti ai giudici. Viceversa, mi capitò due anni fa, nel carcere di Parma, di vedere che le udienze si svolgevano - diciamo così - alla presenza di tutti gli avvocati in attesa del loro turno, nel senso che, essendo impossibile attendere altrove, si doveva necessariamente assistere alla trattazione di tutti i procedimenti di sorveglianza. C'è una grande aula, come sanno tutti i colleghi che hanno avuto questa esperienza, nella quale tutti gli avvocati assistono a tutti i procedimenti di tutti i detenuti che vengono condotti davanti ai giudici di sorveglianza. Ebbene, proprio in quella occasione, sebbene avessi, come tutti, la percezione di quello che era anche sotto il profilo umano il 41 bis, ho visto sfilare questi 40-50-60 detenuti davanti ai giudici di sorveglianza, portati spesso in carrozzella; ho visto persone cieche, prive della vista, ristrette (forse perché cieche lo si riteneva irrilevante) in celle di 2 metri per 3; ho visto persone ammalate di tumore passare davanti a me: allora mi sono reso conto proprio in quel momento che tutto questo era una vergogna inaccettabile per uno Stato democratico, per una società che si vuole dire civile. È stato, cioè, come un flash che ha dato lo spunto - appunto emotivo - per cominciare a parlare di questo 41 bis del quale, sia ben chiaro, avevamo sempre parlato in passato. E tuttavia, all'interno della nostra Camera Penale, cominciammo ad interrogarci tutti quanti: ricordo ancora il Direttivo che fu, nella sua prima riunione, un susseguirsi di "emozioni" e di esperienze personali, di casi particolari in cui ciascuno manifestava la sensazione di disagio e il sentimento di ribellione di fronte al trattamento inumano subìto da questi detenuti. Vorrei però dire che dalla emozione, come dicevo poco fa, è necessario passare alla ragione, e noi, credo, siamo appunto passati ad una riflessione più attenta sul regime di cui all'art. 41 bis. Proprio per questo io penso che, rispetto ad alcune posizioni espresse anche dagli stessi avvocati penalisti, si debba fare un passo in avanti, perché la valutazione del 41 bis non è, non deve e non può essere soltanto una valutazione in termini di inumanità della pena, in termini di violazione del principio costituzionale di rieducazione. Valutazione che indubbiamente deve avere il suo peso ma, ripeto, non può essere il punto di arrivo della riflessione dell'avvocatura penale. Occorre, infatti, una valutazione politica e di politica giudiziaria. Perché, noi di Roma, abbiamo scelto il 41 bis per intraprendere una serie di iniziative che, spero, diventeranno poi patrimonio comune di tutti e non solo delle Camere Penali e degli avvocati penalisti, ma anche della società civile, sia pure da una posizione indubbiamente di minoranza? Perché, dunque occuparci del 41 bis? In fondo, di violazioni dei diritti costituzionali, di violazioni dei diritti dei cittadini, di violazioni e compressioni dei diritti all'interno del processo o nel sistema carcerario non ce ne sono poche, e avremmo potuto "sceglierne" anche altre. Il 41 bis è stato "scelto" non solo, appunto, perché rappresenta una sorta di pugno in faccia dal punto di vista emotivo, ma anche perché, a nostro avviso - e questo è l'aspetto che credo vada sottolineato sotto il profilo politico - rappresenta il punto di incontro simbolico di una cultura giuridica autoritaria che nel nostro paese, purtroppo, vede abbracciati indistintamente - fatte le dovute eccezioni in ciascuno degli schieramenti politici - la destra e la sinistra, il governo e l'opposizione. Ci si trova di fronte, in altre parole, ad una vera e propria impostazione culturale, che trova la sua sintesi nell'art. 41 bis: secondo tale impostazione certi princìpi, in certe situazioni, sono per così dire negoziabili. Noi, che non vogliamo comunque essere dei pasdaran delle garanzie, ci rendiamo conto dei gravi problemi che pone la criminalità organizzata, ma affermiamo tuttavia con forza che ci sono dei princìpi, ci sono dei valori in tema di garanzie e di rispetto dei diritti dell'individuo che non devono e non possono essere negoziati. Il 41 bis, insomma, è stato "scelto" da noi perché incarna il modello di quello che viene chiamato il "sostanzialismo giudiziario". Forse è una mia fissazione; ogni tanto qualche collega mi prende in giro su questo, ma io credo che l'impostazione su cui si fonda la logica del 41 bis incarni una vera e propria scelta di politica giudiziaria: quella secondo la quale il fine giustifica i mezzi. Quando c'è la criminalità che incombe, quando ci sono i barbari alle porte, non si possono più rispettare le garanzie, bisogna negoziare le garanzie, si possono violare le garanzie. Ecco, noi - deve esser chiaro - proponiamo uno scontro (scontro evidentemente di idee e di concezioni) fra due impostazioni giudiziarie: fra quella, a nostro avviso, propria di uno stato etico, che ho ricordato e che purtroppo vede unite maggioranza e opposizione, e fra una concezione giudiziaria opposta, secondo la quale anche nei momenti di pericolo - perché diversamente le garanzie sarebbero un lusso da applicarsi soltanto quando tutto va bene - anche nei momenti di pericolo per la democrazia e per la sicurezza dei cittadini, il modo migliore per rispondere all'attacco della criminalità (e certamente a questo attacco bisogna rispondere con rigore) è quello di rispettare i princìpi dello stato di diritto e le garanzie costituzionali. Si contrappone alla nostra posizione quella - ricordavo poco fa - che non solo è di tipo "sostanzialistico", ma utilizza un altro strumento estremamente pericoloso. Mi sia consentito dirlo: è quello della menzogna nella prospettazione delle posizioni. È una impostazione di carattere orwelliano, io direi, che ricorda lo slogan: "la verità è menzogna", in base alla quale si sostiene che la nuova possibile disciplina dell'art. 41 bis, licenziata da pochi giorni dalla Commissione Giustizia, sarebbe tale da mitigare le "distorsioni" della detenzione speciale in Italia (per altro mai riconosciute esistenti prima d'ora). Ecco, questa è una menzogna indecorosa rispetto alla quale è necessario assumere una posizione precisa. Noi abbiamo voluto questo convegno anche e proprio perché - e vorremmo che anche i politici presenti e le persone invitate prendessero una chiara posizione finalmente su questo - deve essere chiaro quali sono gli schieramenti in campo, quali sono le concezioni di politica giudiziaria in campo. Perché ricordo lo slogan di George Orwell, la verità e menzogna? Perché il testo del disegno di legge che è stato licenziato nei giorni scorsi dalla Commissione Giustizia contiene in sé una serie di mistificazioni che devono essere fin da ora denunciate. Se noi leggiamo la relazione al testo del disegno di legge troviamo ripetutamente enunciato in vari passaggi quello che dovrebbe essere uno dei punti fondanti del decreto: si dice cioè che si vuole dare finalmente contenuto ai vincoli e alle limitazioni che costituiscono la sostanza del 41 bis. Se noi però andiamo ad esaminare l'articolato ci accorgiamo immediatamente quanto sia infondata questa affermazione. È sufficiente un accenno (il nostro convegno non vuole essere tecnico-giuridico, ma politico) per ricordare che, se è vero che adesso c'è un articolo 2 bis che elenca quali sono le misure del nuovo 41 bis, è altrettanto vero che sia la lettera a) di questo art. 2 bis, sia la clausola di chiusura della norma (lettera g), prevedono in realtà la possibilità di adottare da parte dell'amministrazione misure che non sono in nessun modo precisate. Da un lato si prevedono i colloqui attraverso i vetri, il numero mensile degli stessi, ecc., dall'altro, esistono delle clausole aperte che consentono l'adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna che non sono in nessun modo individuate e specificate, consentendo la possibilità di ogni abuso e vessazione.
In proposito, dobbiamo renderci conto - e credo se ne rendano perfettamente conto coloro che hanno patrocinato l'adozione di questo provvedimento - che il 41 bis si realizza concretamente, nella vita quotidiana di ogni detenuto, in una serie di misure "aperte", che non sono indicate nella legge, che non sono indicate nelle circolari, che forse - mi si dice - sono enunciate in circolari "segrete" o riservate, che si articolano in modalità di esecuzione della detenzione assolutamente vessatorie. Era stata presentata qualche anno fa una interrogazione parlamentare dell'on. Salvato che ricordava tutte queste misure: i controlli notturni con l'accensione della luce ogni 30 minuti; il divieto di utilizzare lettori per videocassette; il divieto di scambiare articoli o riviste; il divieto di tenere un certo numero di fotografie all'interno delle celle; il divieto di fare la doccia o di lavorare all'interno delle celle. E ce ne sono molte altre che tutti conosciamo: dal divieto di prepararsi il cibo, al cambio della biancheria, alle limitazioni dell'aria, al tipo di cella e così via. Insomma, una serie di misure che ovviamente la legge non indica, ma che sono sistematicamente dirette ad annichilire la personalità del detenuto. E allora non ci si venga a contrabbandare come migliorativa e più civile questa proposta licenziata dalla Commissione Giustizia del Senato. Ancora una volta, diciamolo chiaramente, la politica giudiziaria che viene manifestata con questi provvedimenti è quella finalizzata alla creazione di pentiti, alla vessazione del detenuto, alla stabilizzazione di misure che, come ha detto la Commissione europea per la prevenzione della tortura, sono destinate a destrutturare la personalità del detenuto. E, quindi, ancora una volta, questo provvedimento ci riporta a tutta una serie di concezioni di politica giudiziaria che noi in questo momento vogliamo denunciare come collaterali al 41 bis. In sintesi, la giustizia e la magistratura dei teoremi, la giustizia e la magistratura dei maxi processi, la giustizia e la magistratura dei pentiti e dei processi in cui si abbassa la soglia della prova, la giustizia e la magistratura del "doppio binario". Ancora pochi giorni fa, il Ministro Pisanu è tornato a parlare del doppio binario. Sia chiaro, il doppio binario, per chi non lo avesse ancora compreso, significa Tribunali speciali. Credo che sia davvero preoccupante in una società democratica che addirittura si parli "senza suscitare scandali" di Tribunali speciali e di normative processuali differenziate per tipo di reato. Queste logiche conducono alla "colpa d'autore" e non è necessario ricordare a quali regimi appartengono queste concezioni. Ecco, tutto questo è il 41 bis; tutto questo, io credo, è quello contro cui noi ci dobbiamo battere in una concezione - lo ripeto ancora una volta - che non può essere soltanto umana o umanitaria, ma che deve tenere presente alcuni punti di riferimento di politica giudiziaria, perché diversamente la nostra iniziativa rischierebbe di essere male impostata.

Perché non si deve guardare il cielo?

"Perché il detenuto non deve vedere le nuvole ma un altro muro di cemento che sta un metro e mezzo più avanti? Nelle carceri del 41 bis c'è sempre un muro a un metro e mezzo da te, dovunque ti trovi. Credo che si perda la dimensione stessa dello spazio, a vivere così..."

Giuliano Dominici
Direttivo Camera Penale di Roma
Io dovrei parlare delle iniziative: "41 bis: quali iniziative?". In realtà, la prima cosa della quale - pare - bisogna tutti prendere atto è che noi siamo, e voi (che per essere oggi qui dimostrate sensibilità al problema) siete, una infima minoranza politicamente non rappresentata. Perché se è vero che in questi giorni il 41 bis viene riconfermato all'unanimità dalla Commissione Giustizia del Senato (quindi da tutte le forze politiche), dovremmo prendere atto della nostra totale solitudine e considerarci non solo minoranza, ma minoranza non rappresentata. Il che pone intanto un problema politico non da poco. E allora, quali iniziative? Ma questa innanzitutto. Noi ci ostiniamo a voler discutere del 41 bis (e non soltanto del 41 bis: Renato Borzone ha già parlato di "doppio binario", io invece intendo fare un accenno a quell'altra vergogna - per uno Stato democratico - che è il processo in videoconferenza), perché siamo convinti che non tutti coloro che oggi si dicono favorevoli sanno, in realtà, cosa è davvero il 41 bis; mentre è principio basilare della nostra cultura che per essere favorevoli o contrari a qualche cosa bisogna prima sapere, conoscere. Per questo abbiamo titolato il primo capitolo di questo libro "Di cosa si parla". Riteniamo che sia già qualcosa - ed anzi molto - discutere del 41 bis, del doppio binario, del processo in videoconferenza che non è un processo civile. Perché non è processo civile quello nel quale il difensore che durante il processo vuole parlare con la persona che assiste (persona che dal 1989 - dal "nuovo" codice in poi - non dovrebbe stare neppure sul banco degli imputati, ma sedere accanto al proprio difensore per partecipare attivamente al processo), debba invece chiedere ad una sorta di centralinista si essere collegato con Viterbo, Spoleto, Tolmezzo, e così via. E sentirsi rispondere "avvocato, tra qualche minuto le danno la linea", e intanto il processo va avanti, e magari è tardi per fare al testimone (più spesso al collaboratore) quella domanda, o quell'opposizione. E l'immediatezza, senza la quale l'oralità diventa una finzione? Il processo in videoconferenza non è un processo civile (se civile è invece il modello cui neppure tanti anni fa ci siamo voluti ispirare), e - come il 41 bis - è innanzitutto stupido. Perché il 41 bis, così com'è ora, non impedisce, ma rende soltanto più rari e penosi i contatti con l'esterno. E ben lo sa chi si è reso conto di quanti collaboratori "provenienti" dal 41 bis abbiano avuto modo, durante il regime speciale, di comunicare tra loro; perché è comunque impossibile impedire che, nell'unico colloquio mensile consentito, il soggetto comunichi alla persona che ha diritto a quel colloquio di riferire qualcosa a qualcuno. Sicché (ha ragione Ettore Randazzo!) se ragioniamo in termini finalistici assoluti il discorso diventa: sotterriamoli vivi, questi detenuti, tagliamogli lingua e mani e il problema, forse, è risolto. Lo stesso vale per la videoconferenza: doveva impedire il "turismo giudiziario", l'incontro fra boss, i "summit" (a gesti) tra gabbia e gabbia (qualche collaboratore ha detto che era così che si prendevano certe decisioni). In realtà noi abbiamo oggi la situazione tragicomica per la quale, quando ci colleghiamo con le carceri dalle quali i detenuti assistono al proprio processo, vediamo due, tre, quattro persone che sono lì a colloquiare tranquillamente tra di loro, in una saletta, perché quel giorno sono tutti interessati allo stesso processo. E così è la stessa videoconferenza a diventare una straordinaria occasione di incontro. Voglio dire, il discorso presenta due aspetti: ossia, se certe norme sono accettabili, legittime, conformi alla nostra Costituzione, e se queste norme hanno un senso.
Noi, un anno fa, abbiamo intrapreso questa iniziativa sul 41 bis senza sapere che saremmo arrivati a questo convegno (ma intanto c'era stata la pubblicazione del libro Barriere di vetro, trasmissioni da Radio Radicale, etc.) il 28 settembre del 2002, con il Senato che nel frattempo aveva deciso di rendere definitivo quel regime. Che, poi e per inciso, trattandosi di un regime speciale eccezionale, a rigore definitivo non potrebbe mai essere, ma nessuno si pone questi problemi: il regime è eccezionale e definitivo al tempo stesso, e va bene così. Qualcuno di noi era rimasto toccato dall'esperienza professionale diretta: io, per esempio, oltre che da quella barriera di vetro che ha dato il titolo al libro, da quella divisione fisica del detenuto col quel poco di realtà esterna (l'avvocato, il familiare) che ancora gli spetta, come fosse un appestato, sono sempre rimasto colpito da quelle finestre sbarrate, un buco nel muro di cemento, che - pare - non debbano essere (e comunque di fatto non sono mai) "vista cielo". Mi sembra un'immagine surreale. Ma perché non deve essere vista cielo? Perché il detenuto non deve guardare le nuvole ma deve guardare un altro muro di cemento che sta ad un metro e mezzo più avanti? Le carceri del 41 bis sono così: c'è sempre un muro a un metro e mezzo da te, dovunque ti trovi. Credo che si perda la dimensione stessa dello spazio, a vivere così; o forse sono io che ho una claustrofobia latente. Ma c'era qualcosa di meno romantico e più significativo. Abbiamo iniziato questa battaglia nella quale siamo - ci dicono - totalmente isolati (tant'è che oggi il Commissario Antimafia, da noi invitato, ci manda a dire "ma che vengo a fare? Ormai il problema è risolto") non solo perché toccati da questi aspetti del 41 bis, ma anche consapevoli dei rilievi che nel 1995 fece il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani e degradanti. Che è un organo del Consiglio d'Europa, e non il parlamentare ex sessantottino che va nelle carceri per "sobillare". È un organo del Consiglio d'Europa che nel 1995 ispezionò le nostre carceri, dove c'erano i reparti 41 bis, e fece dei rilievi. Qualche riga va letta: "(...) i detenuti sottoposti al regime 41 bis passano 22 ore al giorno chiusi in celle anonime, spoglie ed impersonali; nessuna attività culturale o socio-educativa è consentita; è loro vietato persino l'accesso alla biblioteca o alla Cappella; le condizioni scoraggianti dei colloqui con i familiari ha come conseguenza la rarefazione delle visite; la riservatezza dei colloqui con i difensori è estremamente aleatoria; i ritmi di trasferimento sono assai elevati con effetti nefasti per il benessere psicologico e fisico dei detenuti". E come concludeva la propria relazione la Commissione per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti? Concludeva così: "Non vi è alcun dubbio che un sistema come quello descritto è idoneo a provocare nei soggetti che vi sono sottoposti degli effetti dannosi che si traducono in alterazioni delle facoltà sociali e mentali spesso irreversibili". Evidenziava poi altro: che un regime siffatto pare finalizzato, più che a prevenire la pericolosità dei soggetti ad esso sottoposti, a indurne la collaborazione. A farne dei pentiti. E allora: non ci battiamo perché abbiamo il cuore tenero. Ci battiamo perché questo regime, che è inaccettabile secondo i criteri di valutazione dei preposti organi europei, e tale da provocare danni alle facoltà sociali e mentali spesso irreversibili, non deve trovare spazio nel nostro paese, se democratico si vuole definire. Altri sono - se si vuole discuterne siamo pronti, presto "formalizzeremo" le nostre proposte - i metodi per realizzare una valida sorveglianza dei detenuti ed assicurare la sicurezza dei cittadini. Ma vi è ancora un aspetto: se sia ancora giustificato un regime del genere. Perché ove si arrivasse alla conclusione che in un certo momento storico - parliamo, ovviamente, dell'estate del '92, quando è nato il 41 bis - poteva forse, avere senso il regime eccezionale, bisognerebbe chiedersi se abbia ancora senso oggi che lo si rende definitivo. E ci aiuta, a tal proposito, l'esame dei "decreti applicativi" del 41 bis. Affermazioni come quelle che abbiamo sentito ripetutamente in questi giorni "il fenomeno della criminalità organizzata (ed in primo luogo la mafia) cresce, si sviluppa, diventa sempre più pericoloso proprio nella misura in cui se ne sente parlare di meno" (teoria per la quale l'azione repressiva dello Stato dovrebbe essere inversamente proporzionale alla "operatività" del sodalizio criminoso) sembra che non risulti nemmeno al Ministero che applica i decreti del 41 bis. Se prendiamo quei decreti (uno qualsiasi: sono tutti uguali) e ne leggiamo alcuni passi ci rendiamo conto che fanno riferimento ad una realtà che, piaccia o non piaccia, non esiste più. Poi dopo si può anche dire la criminalità organizzata è un fenomeno underground, sotterraneo, ma il discorso diventa impalpabile, inverificabile. È ovvio, ci sono nuovi fenomeni criminali. L'immigrazione clandestina, per esempio, ha assunto forme organizzate… ma ha senso il 41 bis allo scafista, così si interrompono i contatti… con chi? Con quelli che dall'altra sponda dell'Adriatico organizzano la partenza dei gommoni?
Ma torniamo ai decreti applicativi attuali: esaminandoli ci rendiamo conto che sono delle scatole vuote. Dentro una scatola ce n'è un'altra, e alla fine non c'è nulla se non la volontà di stroncare dei soggetti sperando che anch'essi si decidano, finalmente, a collaborare. Questo è, oggi, l'unico vero scopo del 41 bis. Stroncarli giorno per giorno. Quando facemmo quel dibattito a Radio Radicale ci fu detto, da un esponente prestigioso della Procura di Palermo, "voi non sapete quante volte noi scopriamo che dal 41 bis sono usciti messaggi e segnali". Ne prendiamo atto. Ma, allora, a che serve un regime fatto in tal modo, oppressivo ed inutile? Ma avete provato, invece, a dire ad un detenuto sottoposto al 41 bis "puoi avere il colloquio senza vetro, però devi accettare che sia interamente registrato e filmato"? È la prima cosa che viene in mente, non dico che sia la soluzione del problema, ma immagino che sia difficile organizzare crimini quando si sa che ogni parola (detta poi ad una moglie, ad una madre, persone care che si cerca di non mettere nei guai) è registrata, ogni gesto filmato. No, questa forma di detenzione deve essere non solo vessatoria, ma umiliante: vogliamo parlare delle perquisizioni? Perquisizioni nei confronti di persone che - divise da un vetro sigillato che va dal pavimento al soffitto - non hanno alcuna possibilità di scambiarsi alcunché. Quante volte ci hanno detto - i nostri assistiti - "io non la faccio più venire mia moglie, perché devo farla perquisire ogni volta? Preferisco non vederla". Non vessatoria, ma umiliante. Così si spezza in due la personalità di un soggetto. E allora, dicevo, quei decreti fanno riferimento alle "risultanze di numerosi procedimenti penali dai quali risulterebbero - ad esempio - gli sventati attentati a soggetti aventi ruoli istituzionali ed impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata". Vorremmo saperne qualcosa di più: non si possono evocare in maniera tanto generica fatti così gravi, che poi sono altrettante notitiae criminis che dovrebbero trovare (anzi: aver trovato, ma noi non ne sappiamo nulla) uno sviluppo processuale… Si fa riferimento a "tentativi di evasione di pericolosissimi appartenenti ad associazioni mafiose simili", ma non c'è un nome, non c'è una data. Si legge "che non va allentata la pressione, che tuttora sussistono concreti - finalmente qualcosa di concreto! - pericoli per l'ordine e la sicurezza negli istituti penitenziari. Pericoli da ricollegarsi alla presenza in essi di un rilevante numero di soggetti detenuti per i delitti di cui ecc.". Badate, non è che io sto leggendo un decreto che mi sono scelto. Sto leggendo il decreto applicativo che è uguale per tutti, salvo che per le pendenze giudiziarie di ciascuno.
Ma quando dicevo: finalmente si legge che sussistono concreti pericoli per l'ordine e la sicurezza, sapete a che cosa si arriva? Si arriva ad un fatto tragico, noto a molti di voi, cioè all'attentato che portò alla morte dell'agente di custodia Montalto Giuseppe, che prestava servizio presso la casa circondariale di Palermo, mi pare di ricordare non al reparto 41 bis, forse proprio all'Ucciardone. Fatto grave, gravissimo. Ma questo omicidio è del 1994. Sono passati 8 anni ed è l'unico fatto concreto indicato che attesterebbe il concreto ed attuale pericolo per l'ordine e la sicurezza negli istituti penitenziari e fuori. Ma ci rendiamo conto? Due anni dopo l'istituzione del 41 bis ci fu un omicidio. Dieci anni dopo parliamo ancora soltanto di quello, che dovrebbe giustificare l'esistenza delle condizioni attuali di applicabilità del regime detentivo eccezionale. Provate a dirlo ad un Tribunale di sorveglianza, in sede di reclamo contro il 41 bis, vedrete cosa vi rispondono. A fronte di tutto questo ci è sembrato doveroso avviare la campagna per l'abrogazione del 41 bis. È stato giusto, non è stato giusto: oggi è solo vessatorio ed inutile, così com'è. Siamo stati "scavalcati" dall'iniziativa dell'unica grande maggioranza che ha ritenuto - invece - di rendere definitivo quello stesso regime. Allora perché noi insistiamo in questa battaglia? Perché, vedete, ci sono tanti piccoli segnali che ci incoraggiano; oggi Paolo Cento ha detto cose interessanti; qualcosa di interessante - abbiamo letto sui giornali - ha detto il Presidente del Consiglio dei Ministri (anche se poi siamo abituati alle sue smentite, a quel dire e disdire del quale siamo stati noi stessi vittime a proposito della separazione delle carriere, in occasione del referendum). Ma sta di fatto che io stesso, che pure non sono Matusalemme, ricordo che le battaglie garantiste un tempo ci sono state, un tempo - a differenza di oggi - erano di moda, perché quando venne varata la legge Valpreda, per esempio, quando fu introdotta la scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare - che allora non si chiamava custodia cautelare - erano battaglie garantiste autentiche; forse fatte in occasione di un caso politico, ma fatte per tutti. Vedete, la mafia c'era anche allora, e quanti mafiosi - da allora - sono usciti di galera per scadenza dei termini di custodia cautelare? È forse meno giusto l'istituto - di grande civiltà giuridica - della limitata durata della custodia cautelare perché grazie ad esso sono usciti anche dei mafiosi? Questo è il nostro modo di ragionare. E ricordo, anche, che allora non eravamo soli nelle battaglie contro la legge Reale. Che cosa è successo? Che fine hanno fatto questi nostri compagni di strada? Non c'era, allora (e quindi è legittimo sperare che potrà non esserci più, domani) questa compatta, grigia unanimità. C'era l'orgoglio di dirsi garantisti e di dire "non conta per chi è giusta la cosa giusta: se è giusta, la battaglia si deve fare". Questo era il senso del garantismo, e questo vogliamo recuperare noi, minoranza infima non rappresentata quale siamo. Ma non siamo soli. I radicali ci sono ancora ed ancora una volta sono qui con noi. Le associazioni, "Nessuno tocchi Caino", gli esponenti di tanti partiti che "a titolo personale", sia chiaro, ma ci hanno comunque dato la loro adesione. Ed è da questo, ed è con questi che occorre ripartire. O forse bisogna aspettare? Vedete, ho una mia impressione, spero (come spesso mi capita) sbagliata: e cioè che quando il 41 bis sarà applicato per la prima volta ad un detenuto "politico", in tanti scopriranno il problema della detenzione speciale. Ma oggi, che riguarda soltanto i mafiosi - i paria dei nostri tempi - del 41 bis non importa niente a nessuno. E quindi, noi, che ci interroghiamo sempre sul nostro razzismo nei confronti dei popoli d'oltre mare, quelli che arrivano in gommone, cominciamo ad interrogarci su quest'altra forma di razzismo. Questa incapacità di affrontare un problema - la mafia, i mafiosi - in altra maniera che "sotterrandolo". Facendo a gara, come accade oggi, tra chi batte più forte il pugno sul tavolo, in attesa soltanto - magari non priva di qualche inquietudine - del prossimo pentito. Io credo che non ci sia battaglia migliore e più netta e più pura di quella fatta per gli altri, i diversi da te, quelli con i quali non hai niente da spartire, quelli che non hai mai amato: battersi per l'altro prima ancora che per il proprio fratello. E allora, ancora una volta, non sarà l'ultima, facciamo tesoro di questo nostro iniziale "splendido" isolamento. Noi oggi, in questa battaglia, non siamo - politicamente - dalla parte di nessuno, e nessuno - salvo le lodevoli eccezioni di cui ho detto - è dalla nostra. Possiamo quindi discutere senza condizionamenti e pregiudizi, discutere se davvero esistono nel nostro paese gli intoccabili, gli irrecuperabili, persone che debbono senza alternativa alcuna essere sotterrati per sempre. Perché questa è la soluzione attuale: il passaggio dalla morte civile a quella fisica. O se invece, finalmente, possa e debba rifiutarsi questa logica del sotterrare, con le persone, anche i problemi che rappresentano. Ecco cosa fare: partendo dallo zero attuale, ripensando oggi tutte le nostre iniziative, ricominciando esattamente da questa: dal discuterne con chi, come voi, ha voglia di ascoltarci, ha voglia di impegnarsi a ragionare liberamente e senza condizionamenti. E di questo vi ringrazio molto.

Un buco nero per 645 detenuti

"421 di questi sono definitivi, 55 sono ricorrenti, 81 appellanti, 79 in attesa di primo giudizio. Siccome il regime duro è iniziato dieci anni fa, molti di questi condannati sono diventati definitivi grazie al 41 bis, visto che per loro non vige il principio della presunzione di innocenza, ma al contrario."

Sergio D'Elia
Segretario di "Nessuno tocchi Caino"
Desidero prima di tutto ringraziare per questa opportunità che mi date per fare il punto della situazione delle sezioni del 41 bis. So che, nel corso della mattinata, è intervenuto nella tavola rotonda Maurizio Turco, con il quale questa estate abbiamo organizzato, dal 14 giugno al 27 luglio, un giro - che abbiamo chiamato "cella cella" - delle sezioni del 41 bis. È probabile che, anche perché non ho potuto partecipare sin dall'inizio a questo vostro incontro, ripeterò tantissime cose che già sono state dette, ma vale la pena tornare a ribadirle. Dicevo, io e Maurizio Turco siamo stati a fare un giro che, a parer mio, avrebbe dovuto fare la Commissione Antimafia prima e la Commissione Giustizia dopo, prima di decidere quello che alcuni giorni fa, due giorni fa, hanno deciso, cioè di stabilizzare un regime penitenziario che davvero non è ideologico, propagandistico ed eccessivo considerare la stabilizzazione di una grossa "violation" - come si dice in termini di diritto internazionale -; cioè di una violazione grave del diritto umanitario internazionale sotto il profilo, soprattutto, di quella fattispecie criminosa che lo stesso diritto umanitario definisce come tortura. C'è da dire che la nostra esplorazione è stata consentita soltanto dalla nostra determinazione e dalle nostre forze; non c'è stata nessuna collaborazione da parte delle autorità preposte alla gestione ed all'amministrazione del carcere, né da parte del Ministro della Giustizia, né da parte del Dap. Esiste una sorta di segreto di Stato sulla detenzione speciale in Italia; viene considerato - è detto testualmente anche in occasioni pubbliche di incontro, l'ultima in una radio alcuni giorni fa con il presidente Tinebra - un giudizio di pericolosità rispetto alla diffusione di dati riguardo alla detenzione speciale in Italia, e personalmente, nei confronti miei e di Maurizio Turco, ritengo di aver svolto un lavoro pericoloso da questo punto di vista per il solo fatto di aver poi comunicato pubblicamente che le sezioni del 41 bis in Italia sono 13 e che si trovano a Cuneo, L'Aquila, Marino del Tronto, Novara, Parma, Pisa - in realtà a Pisa c'è un centro cosiddetto diagnostico-terapeutico -, a Rebibbia femminile e maschile, Secondigliano, Spoleto, Terni, Tolmezzo e Viterbo. Abbiamo avuto notizia di queste sezioni soltanto recandoci da una all'altra; abbiamo visitato la prima e da lì, dai detenuti stessi che avevano avuto l'occasione di stare in un'altra sezione 41 bis, siamo andati a vederne un'altra, e così abbiamo ricostruito la mappa. Io, alla fine, non sono neanche sicuro che sono queste 13, potrebbe esserci ancora qualcos'altro che a noi non risulta, ma credo che siano queste. Come pure non abbiamo potuto sapere non dico i nomi e i cognomi, ma semplicemente i dati di quanti detenuti sono in 41 bis oggi in Italia. Non ci è stato fornito questo dato, lo abbiamo ricostruito facendo il giro "cella cella"; per cui oggi noi sappiamo che al 27 luglio di quest'anno erano 645 le persone ristrette, perché 645 detenuti noi abbiamo incontrato. Ma un'altra cosa ancora più segreta è il fatto che esistono non solo le sezioni, se così si può dire, "normali" del 41 bis, ma esistono delle aree riservate all'interno delle sezioni del 41 bis, dove ancora il segreto è ancor più blindato. Ad esempio, per scoprire in un carcere una di queste aree, di cui conoscevamo l'esistenza, in realtà poi abbiamo scoperto che ce n'era una che ci hanno fatto visitare, ma poi ce n'era una seconda in un'altra palazzina, totalmente separata. In quest'ultima, ci è stato detto che era detenuto Nitto Santapaola, ma ce lo hanno riferito altri detenuti che ci informavano del fatto che lì ci doveva essere Nitto Santapaola. Quindi 17 detenuti nell'area riservata. Molti di voi potranno pensare che questi detenuti siano del calibro di Totò Riina o di Leoluca Bagarella che sono nell'area riservata e che non comunicano con nessun altro detenuto se non con quell'unico detenuto, o al massimo da due fino a tre, (nel senso che noi abbiamo visto al massimo quattro persone in un'area riservata in cui, in base a sentenze di Corti d'assise di appello e di Corti di cassazione, è stato loro riconosciuto il diritto, magari dopo 8 anni di isolamento totale, di socializzare, di andare all'aria insieme ad un altro detenuto). Per una bizzarra decisione presa dal Dap, invece, abbiamo scoperto che chi "faceva l'aria" con Riina o la "socialità" con Riina era un piccolo camorrista, un condannato a 3 anni per associazione camorristica, che stava praticamente finendo di scontare la sua pena quando siamo andati a trovarlo. In realtà egli era ristretto in un carcere normale fino ad un anno e mezzo prima, ma siccome Riina doveva fare la socialità, dopo un'accurata selezione, il Dap ha deciso che toccava a lui andare. Questa persona, peraltro, è uscita a fine agosto, e infatti ci aveva detto - eravamo a luglio - che tra un mese sarebbe stato libero, e lui era in quella sezione. L'area riservata di solito è una sezione buia, al piano terreno del carcere, separata anche dalla stessa palazzina dei detenuti "normali" del 41 bis, poca luce, poca aria, e a questo detenuto era toccato di andare lì e comunque essere sottoposto alla versione più dura del carcere duro. Dopodiché all'aria non ci andava mai, perché questo significava recarsi in una sorta di cubicolo di cemento armato dove c'era meno aria e meno luce che in sezione e - come lui ci ha detto - non andava neanche in socialità con Totò Riina, un po' perché Riina è un orso che non ama fare socialità e un po' perché per lui andare lì era come andare nella casa del "grande fratello", tante sono le telecamere, i controlli, ecc. Ora lui è uscito. Ne hanno trovato un altro più o meno con le stesse caratteristiche, perché li prendono sempre tra i camorristi napoletani; ma c'è una "prova del nove" riguardo al rilievo e al profilo criminale delle persone che sono in 41 bis. Basta che voi indichiate nome e cognome su "Google", che è il motore di ricerca più attrezzato di Internet, e vedrete cosa esce fuori con quel nome e cognome. A me, con il primo detenuto che ha fatto socialità con Totò Riina e con il secondo, la ricerca è stata infruttuosa, e invece inserendo il nome di Totò Riina ti vengono fuori 40 o 50 pagine di titoli di notizie che equivalgono a chissà quante pagine, ecc. Quindi in 41 bis ci sono anche queste persone sconosciute, e anche nelle aree "più dure" del 41 bis. Allora sono "definitive" queste persone? Sono state condannate in via definitiva o sono in attesa di giudizio?
Delle 645 persone che noi abbiamo incontrato, e di cui abbiamo riscontrato i dati con l'ufficio matricola, risulta che la loro posizione giuridica è la seguente: 421 sono definitivi, precisamente definitivi e non, ma hanno almeno un definitivo; 55 sono ricorrenti, 81 appellanti, 79 in attesa di primo giudizio, 9 non sono stati classificati perché i dati non sono stati forniti dall'ufficio matricola di alcune carceri. Si potrebbe dire che un terzo sono definitivi, quindi solo per un terzo si pone il problema del mancato rispetto della presunzione di innocenza nei confronti di detenuti in 41 bis. Vuol dire molto semplicemente che, siccome il regime duro è iniziato 10 anni fa, quello che è successo è che i primi detenuti - probabilmente 200 o 300, anche qui i dati sono sempre segreto di Stato - ci sono arrivati da imputati in 41 bis, ma poi sono diventati definitivi perché lì si trovano persone che ci stanno da due, tre, cinque anni, fino a persone che ci stanno da dieci anni. Quindi sono diventati definitivi mentre si trovavano in regime di 41 bis. Ma aggiungo che probabilmente sono diventati definitivi "grazie" al 41 bis, nel senso che sono stati condannati per le condizioni con le quali si svolgono i processi in 41 bis. E questo è tutto un altro capitolo, ma cercherò di limitarmi alla questione del rapporto fra regime speciale e diritti umani. Questo vuol dire che i non definitivi, quelli in attesa di giudizio - come si dice in gergo carcerario "i nuovi giunti" - sono candidati molto probabili a diventare definitivi e ad essere condannati, perché per i detenuti in 41 bis non vige il principio della presunzione di innocenza, ma quello della presunzione (se non un vero e proprio pregiudizio) di colpevolezza. Le condizioni in cui i detenuti sono portati a giudizio, infatti, sono tali da determinare e prefigurare questa loro colpevolezza. Anche qui, non è tanto rispetto al carcere duro che il fine giustifica i mezzi, qui proprio sono i mezzi ad anticipare, a prefigurare il fine che si pone il carcere duro, e che per me significa la condanna di quegli imputati o, in alternativa, la dissociazione, o meglio la collaborazione con la giustizia di quegli imputati. Più che un sistema differenziato, il 41 bis è un sistema autoreferenziale che si autolegittima e che si autoadempie. Qui è il caso della presunzione di colpevolezza che si autoadempie e funziona nel modo in cui sicuramente voi sapete. Insomma, tu sei un mafioso presunto e quindi vai in 41 bis; in 41 bis il processo lo fai in videoconferenza, con le videoconferenze è come fare un processo virtuale, quindi non ti puoi realmente difendere, di conseguenza molto probabilmente sarai condannato. Una volta condannato, non sei più un mafioso presunto ma un mafioso dichiarato e quindi è legittimato il 41 bis. Questo è il circolo del 41 bis. Davvero non si fa assolutamente propaganda quando si dice che dal 41 bis si esce soltanto attraverso il pentimento, e qui apro una piccola parentesi. Il problema, a parer mio, non è tanto il 41 bis ma qualcosa a cui il 41 bis si richiama, che è l'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario, cioè quell'articolo che stabilisce che per una certa categoria di detenuti, quindi non di condannati ma di detenuti, sono sospesi alcuni diritti costituzionali. Non si ha il diritto alla rieducazione finalizzata alla risocializzazione, per cui mafiosi, sequestratori, trafficanti di droga - e ora ci hanno aggiunto anche gli "scafisti" e i terroristi - per definizione non hanno diritto al trattamento finalizzato alla risocializzazione. A meno che non decidano di collaborare con la giustizia. C'è scritto chiaramente, è scritto anche nei decreti. Nei decreti c'è scritto "non ha manifestato alcuna volontà di collaborazione, ecc.". E il 41 bis è vergognoso anche da questo punto di vista. Quindi la configurazione della fattispecie criminosa di "tortura" - secondo il diritto internazionale - non è soltanto una questione che attiene all'applicazione concreta del regime del carcere duro per come si svolgono i colloqui, per come vengono vietate alcune cose, per come si è tenuti in cella, per come non si è curati proprio in quanto detenuti al 41 bis, ma c'è una legittimazione, una legalizzazione del reato di tortura che è nell'ordinamento penitenziario, ed è l'articolato dell'art. 4 bis. Dicevamo prima che qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze fisiche o mentali al fine, segnatamente, di ottenere informazioni o confessioni, e di punirla per un atto che essa ha commesso, di intimorirla o di esercitare pressioni, si configura come una sensibile violazione dei diritti umani: e qui è descritta proprio la situazione oggettiva e soggettiva dei detenuti in 41 bis. È un sistema blindatissimo quello del 41 bis; se qualcosa viene meno, se qualche tassello si elimina, fosse anche soltanto nel colloquio con il vetro, crolla tutto il sistema. Quella sorta di circolo vizioso che descrivevo prima si tiene nella misura in cui funziona ogni anello del circuito di detenzione speciale. Il vetro divisorio è, come dire, la metafora perfetta e crudele di un sistema speciale, tant'è che si può dire che il 41 bis, poi, è il colloquio attraverso il vetro divisorio, e molti detenuti questo hanno detto: "noi non siamo contrari al 41 bis - poi magari ci marciano - però il problema è il vetro divisorio, il problema è poter toccare, dopo 10 anni che alcuni non lo fanno, le mani della moglie, del padre, della madre". Quindi i detenuti sono arrivati a dirci che se il problema è che attraverso quel colloquio si presume che si possano mantenere i collegamenti con l'esterno tramite i loro familiari, sono disposti ad accettare la presenza di microfoni (le telecamere già ci sono) ad accettare la registrazione dei colloqui. Così avremmo rotto questo vetro che è un vetro dello scandalo, non tanto del trattamento nei confronti dei detenuti, ma lo scandalo dell'antimafia, dell'antimafia professionale. Cosa voglio dire? Voglio dire che se fosse vero che attraverso i colloqui si mantengono rapporti con l'esterno, io quei colloqui li farei fare nella maniera più libera e aperta possibile, perché, attraverso quei colloqui io potrei assumere informazioni e aprire piste investigative e smantellare reti criminali. Ma, evidentemente, l'obiettivo di quel vetro non è fare la lotta alla mafia. L'obiettivo di quel vetro è distruggere i rapporti personali e affettivi di persone che già sono a mille chilometri di distanza dal loro luogo di residenza, perché Tinebra dice "mai al di sotto di Secondigliano", e siccome sono tutti al di sotto di Secondigliano come luogo di provenienza, ciò significa che vengono mandati a Novara, a Cuneo, Tolmezzo, ecc. Percorrono quindi mille chilometri all'andata e mille al ritorno. Quindi quello che si vuole distruggere non è la famiglia mafiosa. Quello che si vuole distruggere è la famiglia e i rapporti familiari. Ho da raccontare questa notizia. Siamo in sede di relazione del Procuratore generale della Corte d'appello di Caltanissetta per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2000. Tra le operazioni di polizia giudiziaria che hanno avuto successo, e che nella relazione sono menzionate come punti di orgoglio rispetto all'anno precedente, il Procuratore dice e scrive: in data tale, la Squadra Mobile eseguiva una ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Tizio e Caio in ordine ai delitti di associazione per delinquere di tipo mafioso e tentata evasione. Il provvedimento scaturiva dall'esito di mirate indagini che, sulla base di videoregistrazione dei colloqui in carcere tra il detenuto e il nipote, nonché da intercettazioni ambientali, avevano portato ad accertare un piano di fuga del primo da eseguire con l'impiego delle armi, anche a costo di commettere una strage durante una delle sue tante traduzioni per partecipare ad udienze processuali. Da questa notizia, quello che capisco è che i colloqui con i familiari possono essere videoregistrati e costituire fonte di informazioni utili per l'attività investigativa e per prevenire reati, con buona pace del vetro divisorio. Quello che si propone togliendo il vetro, quindi, è casomai che i detenuti decidano. Io sono disponibile a subire un'invasione di campo nella mia privacy e a svolgere quindi un colloquio videoregistrato ed ascoltato ma, in tal modo, io aggiungo, - legalizzando microspie, telecamere nascoste, intercettazioni, ecc. - decido di farlo in questo modo piuttosto che farlo con il vetro. Lasciare quanto meno la scelta. Lei è disponibile a vedere sua moglie soltanto nel caso in cui viene videoregistrato il colloquio? Uno decide se farlo o no, in quanto c'è un diritto alla privacy, e un detenuto decide cosa fare della propria privacy. Se privilegia il "toccare le mani", il detenuto arriva a proporre: lasciate il vetro non a tutta altezza, ma fate come si fa nei laboratori di analisi, mettete due buchi in questo enorme vetro a tutta altezza, in modo che io possa inserire solo le mani come si fa con le sostanze pericolose in alcuni laboratori, perché pericolosa è la sostanza del problema. Pericolosi vengono considerati i familiari, vengono considerati gli avvocati. Pericoloso viene considerato svolgere i colloqui secondo diritto e diritti umani. Bene, io avrei anche chiuso. Come si esce da questa situazione?
Ho visto alcuni comunicati stampa sui vostri lavori e, insomma, secondo me è veramente incredibile che non ci sia stato un voto contrario nella decisione della Commissione Giustizia del Senato. L'ex sostituto procuratore Di Pietro ha detto che anche per lui era una cosa incredibile, ma si spiegava il tutto benissimo con il solito argomento, secondo cui tutti sono allineati e coperti perché hanno qualcosa di cui farsi perdonare. Io credo che qui non ci sia soltanto il ricatto che lo Stato pone nei confronti dei mafiosi per la condizione con cui vengono tenuti e per le modalità di questa condizione, c'è anche il ricatto non della mafia nei confronti dello Stato o di parti dello Stato, ma quello tra parti dello Stato. Tutto ciò ha determinato in questi anni una rincorsa assurda a chi doveva guadagnare credito nella lotta alla mafia e chi avrebbe dovuto dimostrare, nei confronti dell'altro, di essere più antimafioso, appunto, dell'altro. Noi ci troviamo in questa situazione che ha determinato tutto questo. Il risultato è stato l'aumento dei detenuti in 41 bis. Il numero tende ad aumentare anche perché si tratta di dimostrare che, appunto, si è inflessibili nella lotta alla mafia. Però dalle storie personali che io e Maurizio Turco abbiamo raccolto in questo nostro giro, si capisce che questo aumento non corrisponde ad un reale pericolo per la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico, ma corrisponde all'aberrante logica dell'emergenza antimafiosa: il frutto, cioè, di un obiettivo propagandistico che si sono dati e di cui sono ormai prigionieri sia la destra che la sinistra, e che ha avuto in questi anni un solo limite: quello dei posti disponibili nelle sezioni speciali. Io sono segretario di "Nessuno tocchi Caino". Ogni anno noi elaboriamo un rapporto sulla pena di morte, per cui quest'anno abbiamo dato conto del fatto che in Cina c'è una campagna anticrimine che si chiama "colpire duro" e alla quale sono tutti chiamati a concorrere, al cui successo sono tutti chiamati a concorrere, per cui ci sono le quote stabilite, per i singoli distretti giudiziari, di persone che vanno condannate e che vanno giustiziate. Io credo che stia accadendo qualcosa di analogo con le nostre direzioni distrettuali antimafia: ognuno ha le sue quote da raggiungere, i detenuti da mettere in 41 bis. Questo sta accadendo, e allora occuparsi di queste cose, come stiamo facendo noi e state facendo voi, significa… Ecco, come veniamo considerati? Veniamo considerati non degli appassionati del diritto, dello stato di diritto e dei diritti umani, ma degli utili idioti di Totò Riina e di Leoluca Bagarella, come se avere a cuore il destino, la civiltà giuridica di un paese significhi fare il gioco della mafia e come se dire che si è per il rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani equivalga a dire di essere dalla parte di Totò Riina. Intanto noi prendiamo atto del fatto che si spara sempre di meno, e siccome si spara sempre di meno allora alcuni pensano che la situazione è ancora più pericolosa e che, quindi… Sono state quasi auspicate, direi quasi annunciate, le guerre di mafia proprio perché non si sapeva come motivare questa stabilizzazione del regime speciale. Siamo in una situazione veramente brutta e difficile. Io ho sentito solo alcune voci, Biondi, Taormina - guardacaso avvocati -, Siniscalchi seppure con alcune riserve, Pisapia e pochissimi altri, e poi la Camera Penale di Roma. Quando i detenuti ci scrivono, e noi lo rendiamo pubblico, ci dicono di non capire come mai un avvocato, che li difende in un tribunale e che va a trovarli in 41 bis, dice che il 41 bis è una vergogna e poi invece quando siede in Parlamento dice che il 41 bis è necessario per la lotta alla mafia. Io credo che i detenuti dicano una cosa ovvia e legittima, e che è lecito dire. Il risultato di questo non è stato il fatto che qualcuno si sia alzato in Commissione Giustizia per prendere posizione contro quel provvedimento, ma che qualcuno ha accettato… la scorta. Siamo arrivati a questo livello. Credo davvero che siamo in una situazione per la quale si può dire che il nostro sistema è ormai imbarbarito, e andrebbe denunciato a livello internazionale. Forse ci è rimasta solo la strada del diritto internazionale e degli organismi internazionali a difesa dei diritti umani, e noi la perseguiremo grazie anche al vostro aiuto.

Fonte: materiale tratto dai siti http://www.camerepenali.it/, http://www.confidenzialmente.com/, http://www.dikeonline.it/