I carcerieri del 41 bis: Polo e Ulivo uniti nella lotta
Ugo Giannangeli (Avvocato del Foro di Milano, membro dell’associazione
“Avvocati contro la guerra”)
Milano, 8 novembre 2002
In un’epoca in cui il rispetto della legalità e delle istituzioni
internazionali è visto come prova di debolezza (“Gli Stati Uniti
continueranno ad usare la forza senza scrupoli etici o vincoli giuridici in
un mondo che giudicano hobbesaniamente anarchico”, Robert Kagan, Power
and Weakness) è impensabile che anche le legislazioni interne dei singoli
Stati non risentano del progressivo svuotamento delle varie funzioni sociali
del diritto a favore di una normativa sempre più improntata a criteri
meramente repressivi quando non anche semplicemente vendicativi.
La forza soppianta il diritto e la ragion di Stato (intesa nella sua più
bieca espressione, “il fine giustifica i mezzi”) si impone sullo
Stato di diritto.
Se a livello internazionale si è giunti a parlare di guerra preventiva,
di uso legittimo della tortura (da tempo "regolamentata” in Israele,
pur tuttavia sempre considerato l’unico Stato democratico e di diritto
del Medio Oriente) e si pratica su larga scala la detenzione amministrativa,
cioè senza imputazione, senza diritto di difesa e senza limite di durata
(migliaia di palestinesi, gli afgani ingabbiati a Guantanamo…), appare
fuori luogo pretendere all’interno degli Stati una legislazione rispettosa
di principi quali quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali e, in Italia, anche della
Carta Costituzionale.
Così, venendo al tema che ci occupa, il c.d. “carcere duro”,
fa sorridere (amaramente) e sembra opera di archeologia giuridica rileggere
il 3° comma dell’art. 27 della Costituzione (“Le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
tendere alla rieducazione del condannato”) o il 4° comma dell’art.
13 della Costituzione (“È punita ogni violenza fisica e morale
sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”).
Un recente disegno di legge dell’ing. Castelli, inopinatamente Ministro
della giustizia, è intervenuto sugli artt. 4 bis e 41 bis dell’Ordinamento
Penitenziario, estendendo il requisito della “collaborazione con la
giustizia”, come condizione per usufruire dei vari benefici previsti
dall’Ordinamento Penitenziario, ai detenuti per reati commessi per finalità
di terrorismo nonché prorogando per altri quattro anni la disciplina
dell’art. 41 bis, e cioè il cosiddetto “carcere duro”.
Al Senato la norma ha subito una modifica che la rende non più a termine
ma permanente, sancendo così definitivamente che l’eccezionalità
diventa regola.
È necessario un passo indietro per meglio comprendere il senso della
“innovazione”.
Il 2° comma dell’art. 41 bis O.P. è entrato in vigore nel
1992, nell’estate degli attentati a Falcone e Borsellino, con il decreto
“Scotti-Martelli”, ma ha un precedente nell’art. 90 O.P.,
norma abrogata con l’introduzione dell’art. 41 bis, 1° comma,
nel 1986 (Legge “Gozzini”).
L’art. 90 ha trovato larga applicazione contro i detenuti politici,
cioè quelli giudicati o condannati per fatti di lotta armata negli
anni ’80.
In nome di pretese “esigenze di sicurezza” (questo il titolo dell’articolo)
era prevista la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti regolamentati
dalla legge penitenziaria.
Con lievi e non significative modifiche la norma è stata poi riprodotta
nel 1° comma dell’art. 41 bis nel 1986.
Che cosa abbia significato l’art. 90 O.P. bisogna chiederlo alle centinaia
(almeno 600) di detenuti politici immessi nel circuito differenziato o speciale
ed in particolare a quelli reclusi all’Asinara nel 1977: violenze psico-fisiche
di ogni tipo, umiliazioni, limitazione o azzeramento dei più elementari
diritti (tra i quali, per quelli in attesa di giudizio, lo stesso diritto
di difesa).
Analogo trattamento è stato successivamente riservato ai detenuti ritenuti
mafiosi, in particolare a quelli trasferiti a Pianosa nel 1992, subito dopo
gli attentati di Palermo, tanto da suscitare la reazione indignata del Magistrato
di Sorveglianza di Livorno, competente sull’isola.
L’art. 41 bis, 2° c., prevede che il Ministro della Giustizia possa
sospendere, parzialmente o totalmente, l’applicazione delle ordinarie
regole di trattamento penitenziario nei confronti di soggetti detenuti (anche
se imputati ancora sotto processo) per determinati reati (mafia, terrorismo,
sequestro di persona, rapina, estorsione, casi gravi di spaccio di stupefacenti
…).
Questo può avvenire solo per “gravi motivi di ordine e sicurezza
pubblica”.
La norma manifesta per più ragioni il proprio carattere di eccezionalità:
la sua efficacia sarebbe dovuta cessare nel 1995 (invece sono intervenute
continue proroghe sino all’attuale); il provvedimento del Ministro dovrebbe
avere efficacia temporanea (un anno, poi prorogabile per sei mesi), nella
realtà invece è sempre prorogato; le stesse gravi ragioni di
ordine pubblico dovrebbero essere contingenti, temporanee e, come tali, espressamente
enunciate e motivate, nella realtà si fa ricorso a formule di stile.
Per una certa categoria di persone, l’eccezionalità è
quindi diventata la norma e, di proroga in proroga, molti detenuti sono in
regime di 41 bis da quasi 10 anni.
Che cosa comporta il regime differenziato?
Ci si aspetterebbe una serie di misure atte a tutelare il ripristino dell’ordine
e della sicurezza pubblica.
Invece:
- sono totalmente sospese le visite di terzi che non siano stretti familiari;
- è sospesa la partecipazione ad attività culturali, ricreative
e sportive;
- è precluso il lavoro;
- non si possono acquistare alimenti da cucinare in cella;
- le visite dei familiari sono limitate a 1 ora al mese (i “comuni”
beneficiano di un colloquio settimanale oltre ad alcuni straordinari);
- i colloqui avvengono attraverso vetri divisori che impediscono il contatto;
- il contatto fisico è consentito solo con i bambini per 10 (dieci)
minuti al mese (nell’ambito dell’ora di colloquio!);
- la corrispondenza è sotto censura;
- “l’ora d’aria” nel cortile comune è limitata
nella durata e nel numero delle persone con cui può essere effettuata
(tre);
- le telefonate non possono essere indirizzate all’utenza dell’abitazione
ma presso un altro carcere ove i familiari devono quindi recarsi;
- non si può ricevere più di due pacchi al mese.
Chiunque, anche non pratico di carcere, comprende che nessuna di queste limitazioni
delle ordinarie regole ha qualcosa a che vedere con le esigenze di sicurezza
e sono tutte mere vessazioni.
Sarebbe facile fare dell’ironia sulla sicurezza tutelata dal divieto
di acquisto di alcuni generi alimentari (esempio: le banane o la marmellata)
o dal divieto di indossare i guanti di lana in inverno.
Se poi si pensa ai detenuti in attesa di giudizio, la compromissione del diritto
di difesa appare eclatante: la tutela della necessaria riservatezza nei colloqui
con il difensore è vanificata dalla necessità di parlare attraverso
il vetro blindato e sigillato e quindi con il citofono (quando funziona) o
urlando, quando non funziona.
Per non dire della videoconferenza (introdotta dalla L. 7/1/98 n. 11) riservata
agli imputati in 41 bis: costoro partecipano ai processi in video e hanno
rapporti con i difensori a mezzo telefono.
Anche per chi non ha pratica di aule di giustizia è facile comprendere
come la riservatezza e la tempestività delle scelte difensive siano
del tutto frustrate.
Anche in questo caso, l’ironia avrebbe spazio: poiché non tutti
i carceri sono attrezzati per la videoconferenza si è assistito spesso
alla paradossale situazione per cui in aula vi erano giudici ed avvocati e
nella stessa sala di un carcere lontano erano ammassati vari detenuti che
teoricamente non avrebbero dovuto incontrarsi; se li avessero tradotti in
aula, quantomeno sarebbero stati in gabbie separate.
Sulla detenzione speciale (ed indirettamente sulle sue reali finalità)
sono intervenuti due autorevoli organismi: il Comitato europeo per la prevenzione
della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (organo del
Consiglio d’Europa) e, più volte, la Corte Costituzionale tra
il 1993 e il 1997.
Il Comitato europeo ha criticato il fatto che il detenuto non possa far valere
le proprie ragioni prima dell’adozione del provvedimento e che la tutela
giurisdizionale prevista (reclamo al Tribunale di Sorveglianza e, successivamente,
alla Corte di Cassazione) ha tempi talmente lunghi da vanificare ogni eventuale
esito favorevole: sempre, infatti, interviene il provvedimento di proroga
che riproduce quello precedente.
Il Comitato ha anche criticato l’isolamento del detenuto, la sua non
partecipazione ad attività socio-educative, le modalità dei
colloqui con difensori e familiari, concludendo con la “raccomandazione”
alle autorità italiane perché modifichino le condizioni di detenzione,
non ravvisando alcun nesso tra queste e le asserite esigenze di ordine pubblico.
Sullo scopo reale del carcere duro il Comitato ha avuto il coraggio di dire
quello che tutti pensano e sanno; così, testualmente, nel “Rapporto
al governo italiano” del 5.9.2000, pagg. 42-43: “Considerato attentamente
il sistema in questione, potrebbe anche ritenersi che un obiettivo non dichiarato
del sistema è quello di porre in essere un mezzo di pressione psicologica
al fine di provocare la dissociazione o la collaborazione. A tale riguardo,
la Commissione prende nota con preoccupazione della dichiarazione delle autorità
italiane, fatta all’ONU: “grazie a questa misura speciale, un
numero crescente di detenuti ha deciso di cooperare con le autorità
giudiziarie fornendo indicazioni sulle organizzazioni criminali delle quali
faceva parte”.
Parole non di garantisti incalliti o velleitari (e, perché no, secondo
qualcuno anche collusi) ma di un organismo europeo insospettabile.
“Raccomandazioni” sono state rivolte anche dalla Corte Costituzionale
che, complessivamente, ha “salvato” il 41 bis dalle tante denunce
di illegittimità costituzionale, purché siano rispettati alcuni
principi nella sua concreta applicazione.
E così:
- il provvedimento non deve limitarsi a richiamare il titolo del reato ma
deve motivare congruamente sulle esigenze di ordine e sicurezza;
- le restrizioni imposte debbono essere limitate a quelle strettamente necessarie;
- in ogni caso non possono essere soppresse le attività di osservazione
e di trattamento individualizzato né possono essere precluse le attività
ricreative, culturali e sportive
(da ultimo, Corte Costituzionale, 26/XI – 5/XII 1997 n. 376).
Nulla è però cambiato nella prassi; i provvedimenti sono standard,
le motivazioni uguali per tutti, così pure le restrizioni: si fa riferimento
a non meglio precisati tentativi di evasione, a guerre di mafia, (che da qualche
anno sono inesistenti), a uccisioni di agenti di polizia penitenziaria (solo
in un caso viene fatto il nome, l’agente Montalto, ucciso nel 1994,
citato in un provvedimento di proroga del 2001 che dovrebbe basarsi su quanto
avvenuto durante l’ultimo semestre di sottoposizione al 41 bis).
I paletti posti dalla Corte sono stati facilmente travolti dalla prassi.
Chi vuole ricorrere lo faccia: prima della proroga successiva al più
riuscirà ad andare dinanzi al Tribunale di Sorveglianza e, se otterrà
ragione (i casi sono rarissimi), sarà doppiamente beffato, perché
il nuovo provvedimento riprodurrà fedelmente quello annullato, in un
continuo inseguimento, in cui il Ministro riuscirà sempre vincitore
rispetto al controllo giurisdizionale.
Chiarita, così, la genesi dell’istituto, le sue finalità
dichiarate, quelle non dichiarate perché non dichiarabili e il meccanismo
di aggiramento della tutela giurisdizionale e della Corte Costituzionale,
è possibile tornare al disegno di legge dell’ing. Castelli.
Oggi è vigente la legge 19/1/01 n. 4 che ha differito l’operatività
del carcere duro e della videoconferenza sino al 31/12/02.
Entro tale data dovrà quindi essere approvata la nuova legge.
Sgomenta, innanzitutto, l’unanimità attorno al disegno di legge.
Si è visto che, in buona sostanza, la norma, nella sua applicazione
pratica, è incostituzionale: ciononostante, il Senato l’ha approvata
e addirittura come norma permanente (su sollecitazione, anzi espressa richiesta,
dell’Ulivo) con 204 voti favorevoli, 6 contrari e 16 astenuti (nelle
commissioni antimafia e giustizia l’unanimità era stata completa).
Né si può dire che la nuova legge sia più rispettosa
dei moniti della Corte Costituzionale, anche se, con una ipocrisia certo non
nuova nell’attuale legislatore, la relazione afferma di avere “ben
presente quei principi sui quali si è più volte autorevolmente
espressa la Corte Costituzionale”.
Già una autorevole voce (Sandro Margara, “Fuori luogo”
25.10.2002, lo stesso magistrato che, quale Direttore generale del DAP, aveva
emesso una circolare di attenuazione del regime del 41 bis in ossequio alla
sentenza della Corte Costituzionale 376/97) si è alzata per denunciare
ulteriori profili di incostituzionalità della nuova legge.
È consentito, infatti, un aumento delle condizioni di afflittività;
è consentita una ulteriore riduzione del numero dei colloqui e delle
comunicazioni telefoniche; sarà possibile una riduzione dell'«aria»
e, testualmente, “la limitazione di ogni altra facoltà derivante
dall’applicazione delle regole di trattamento previste dalla presente
legge, ove ne sia ravvisato il contrasto con le esigenze di ripristino di
ordine e sicurezza”.
Giustamente osserva Margara che il legislatore ha rovesciato il ragionamento
della Corte secondo cui le restrizioni non devono violare i diritti dei detenuti;
si consente invece, ancora una volta, ogni tipo di restrizione a tutela delle
solite pretese esigenze.
Vedremo cosa avverrà alla Camera ove sembra che l’iter legislativo
dovrebbe essere più contrastato.
È auspicabile, tra le altre, la modifica di un articolo della legge
che è intervenuto non sull’art. 41 bis ma sul 4 bis O.P. che
elenca i reati per i quali è possibile il “carcere duro”.
L’art. 4 bis, anche nella nuova formulazione, riproduce la doppia classificazione
precedente: una serie di reati per i quali i benefici penitenziari possono
essere concessi solo a condizione che i detenuti abbiano collaborato con la
giustizia; un’altra serie di reati rispetto ai quali i benefici possono
essere concessi se non sussistono elementi tali da fare ritenere esistenti
collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata.
La modifica riguarda la collocazione dei reati commessi per finalità
di terrorismo, anche internazionale, o di eversione violenta dell’ordinamento
costituzionale.
I detenuti per questi reati, oggi, necessitano solo del requisito della insussistenza
di collegamenti con la criminalità organizzata.
Nella nuova legge, potranno invece beneficiare del lavoro all’esterno,
dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione solo se collaboratori
di giustizia.
Una norma transitoria, bontà sua, precisa che coloro che già
fruiscono dei benefici penitenziari, non saranno toccati dalla nuova normativa.
Quale la sorte di coloro che, detenuti per delitti commessi per finalità
di terrorismo, non beneficiano ancora di alcun istituto della Gozzini? Per
costoro il nuovo requisito è quello della collaborazione.
Qual è la logica della legge?
La relazione non lo dice e Castelli si limita ad accennare all’“inquietante
recrudescenza del fenomeno del terrorismo, come testimoniano le cronache recenti”.
È evidente il riferimento agli omicidi di D’Antona e Biagi.
L’inserimento del “terrorismo internazionale” è invece
un portato di quanto accaduto l’11/9/2001 e della successiva “guerra
preventiva” al c.d. “terrorismo” (categoria in cui sono
state inserite tutte le organizzazioni che praticano lotta di resistenza all’occupazione
o per l’indipendenza nazionale).
Si è voluta inserire una nuova misura di deterrenza: sappiano coloro
che saranno incarcerati per questi fatti che dovranno passare per la collaborazione
giudiziale se vorranno i benefici della Gozzini.
La norma irrobustisce la logica del doppio binario: doppio binario detentivo,
prodromico a un doppio binario giudiziario non solo nella prassi (come è
sempre stato) ma anche nel diritto vigente, con un ulteriore abbassamento
della già bassa soglia della prova del processo.
Mi chiedo quale sarà la sorte di quei detenuti per la lotta armata
degli anni 70 e 80 che, in galera ormai da oltre 20 anni, senza benefici per
non averli mai chiesti, si vedono chiedere la collaborazione per beneficiare
della Gozzini.
Verosimilmente chi nulla ha chiesto per oltre 20 anni, nulla chiederà
in futuro ed il problema potrebbe rimanere in termini astratti e teorico.
Visto, però, il deserto investigativo che caratterizza le indagini
sulle uccisioni di D’Antona e Biagi; viste le recenti misure cautelari
rivolte ad alcuni detenuti brigatisti nel carcere di Trani; vista l’insistenza
sui pretesi collegamenti tra detenuti, latitanti e “nuove BR”,
appare legittimo il dubbio che la nuova legge, con la modifica relativa ai
delitti per finalità di terrorismo, voglia aprire un varco per giustificare
l’applicazione del 41 bis anche ai vecchi detenuti.
La possibilità teorica è già presente nella vigente normativa:
l’art. 41 bis richiama l’art. 4 bis senza distinzione alcuna tra
i vari reati previsti.
Sinora, però, il carcere duro è stato riservato ai detenuti
per 416 bis (associazione di tipo mafioso) e gli altri reati di cui alla prima
parte del 1° comma del 4 bis.
Spostare ora in questo settore i detenuti politici può rappresentare
un segnale.
Ecco perché, all’inizio, ho parlato di spirito vendicativo più
che repressivo, che muove il legislatore: aumentare a dismisura il livello
di afflittività del carcere a detenuti reclusi da oltre 20 anni è
segno di grande debolezza; è un colpo di coda di un esecutivo incapace,
che reagisce rabbiosamente con iniziative di pura immagine e propaganda.
Una novità: la legge prevede il ricorso al Tribunale della libertà
contro i provvedimenti applicativi del 41 bis ai detenuti in attesa di giudizio
(per gli altri resta competente il Tribunale di Sorveglianza).
Il Tribunale della libertà è più rapido della Sorveglianza
e il Ministro rischia, almeno in prima istanza, la verifica giurisdizionale
del proprio provvedimento.
Ed allora si aggiunge: è possibile ricorrere in Cassazione ma il ricorso
non sospende l’esecuzione del provvedimento.
Considerati i tempi della Cassazione, certamente la sua decisione non giungerà
prima della proroga.
Nulla cambia: il primato dell’esecutivo sul giudiziario permane.
Chi volesse approfondire il tema può leggere l’interessante libro
“Barriere di vetro” edito da Palombi editore nel 2002.
L’opera è frutto del lavoro della Camera penale di Roma e contiene,
tra l’altro, un intervento del prof. Stefano Ferracuti sulle conseguenze
psicologiche e psichiatriche dei regimi detentivi di massima sicurezza nonché
moltissime lettere-testimonianze di detenuti in 41 bis.
Il libro conclude proponendo una battaglia di civiltà, non solo giuridica,
per l’abrogazione del 41 bis.
Sono concordi la maggior parte delle Camere penali italiane, tra cui quella
di Milano.
I penalisti italiani corrono così il rischio già corso da Sciascia
che anni fa fu accusato di connivenza con la mafia solo perché aveva
ribadito la necessità di non abdicare mai ai principi dello Stato di
diritto.
Perlomeno siamo in buona compagnia.
Fonte: pubblicato su Rosso XXI, bimestrale del Movimento per la Confederazione dei Comunisti. N.13 - dicembre 2002.