Lettera di Paolo Persichetti
a Sandro Curzi, direttore del quotidiano Liberazione
ottobre 2002

Degli spettri si aggirano per le carceri italiane, sono i detenuti sottoposti al 41bis. Si tratta di uomini imprigionati due volte. Dei tribunali hanno tolto loro la libertà, una amministrazione ha decretato la loro invisibilità. Si trovano qualche passo più in là, oltre le sbarre e la griglia che ornano la finestra di questa cella. Pochi metri di cortile mi dividono dal popolo dei murati vivi, i fantasmi della prigione. Quando qualcuno di questi spettri traversa il carcere le porte blindate vengono chiuse al loro passaggio. Altre lamiere s'aggiungono a ispessire il loro isolamento e la loro distanza. Il 41bis è il regno dell'opaca afflizione, la pena che rende invisibili. Il supplizio moderno ha vergogna di se stesso, fosse trasparente probabilmente perderebbe molta parte della sua legittimazione sociale.
     L'intero carcere è colmo di queste «assenze» che si fanno pesanti presenze per tutti. Disciplina e regolamento dell'istituto sono segnati dalle esistenze di questi spettri: non c'è socialità, non ci sono attività rieducative o di formazione, è chiuso persino il campo di pallone. Anche il televisore è imprigionato, imbullonato.
     "Massima sicurezza" vuole dire deserto disciplinare, spazi angusti e metallici dove i corpi in sovrannumero sono stipati e normati in modo rigido e severo, mentre le menti si inaridiscono. L'unico svago concesso viene dall'agognato carrello dell'infermeria che scandisce la giornata distribuendo tre volte al giorno stupefacenti ricreazioni chimiche a base di benzodiazepine. Gli «invisibili», come fantasmi, ogni tanto battono un colpo, anzi dei colpi sui cancelli blindati. Quelle periodiche battiture ci ricordano che il loro è un mondo di vivi che non rinuncia a resistere.
     Recentemente il Senato ha reso definitivo il regime del 41bis, una norma sospensiva del normale trattamento penitenziario e che in origine doveva essere solo «eccezionale e transitoria». Non soddisfatti, i senatori ne hanno prolungato la durata ed esteso la portata ad altre tipologie di reato. Chi sostiene la validità di questo trattamento differenziato afferma che esso è necessario per condurre a termine la lotta contro il nemico di turno, che si tratti di mafiosi, dei terroristi, degli scafisti non conta poi molto. I "nemici", si sa, sono intercambiabili. Le battaglie di civiltà e le lotte per l'emancipazione si svolgono il più delle volte sul terreno impervio delle questioni di principio. È sui punti limite che si misurano i passaggi epocali, i momenti di rottura. Troppo comodo e troppo facile, nonché ineffettuale, è l'atteggiamento di chi pensa di poter difendere solo i diritti di coloro che sente più prossimi: «poveri ma belli» oppure «ricchi e potenti». In entrambi i casi vi è il segno speculare dell'atteggiamento strumentale di chi pensa di eliminare il proprio nemico abolendo i suoi più elementari diritti, considerandolo subspecie umana. È la peggiore guerra quella condotta nel nome del diritto per abolire i diritti.
     Sfugge a questa concezione una lucida consapevolezza di ciò che è l'emergenza, dei suoi dispositivi di governo delle relazioni sociali, del suo ricorso sistematico alla eccezione che addirittura non sospende più le regole ordinarie ma si candida a rimpiazzarle stabilmente. Sorprende che proprio chi si vuole radicale, antagonista, comunista non percepisca come i pesanti dispositivi giudiziari e penitenziari dell'emergenza, sempre più limitativi e costrittivi delle libertà individuali e collettive, restino radicati nel tempo, mentre le tipologie di applicazione hanno vocazione a variare. Ieri è toccato ai «terroristi», oggi ai mafiosi, persino ceto politico e imprenditori ne hanno saggiato gli effetti, e domani?
     La ruota gira e con i tempi che corrono, tra «guerre preventive», estensione a dismisura della nozione di terrorismo fino a comprendere comportamenti politici e sociali considerati semplicemente «non allineati», a chi giova rafforzare l'arsenale repressivo che un giorno potrebbe essere facilmente rivolto verso tutti quelli che sono semplicemente «contro»?
     Quei 61 collegi su 61 vinti in Sicilia dalla Casa delle Libertà non avrebbero dovuto istruire sul fallimento delle politiche unicamente repressive condotte dall'antimafia? Dieci anni di 41bis non hanno sconfitto la mafia, al contrario il centrodestra ha fatto manbassa dei voti come mai era riuscito alla Dc. Con la sua strategia fatta di carcere duro e pentitismo remunerato, lo Stato è riuscito solo a favorire la selezione di nuove élites mafiose e il ritorno alle strategie morbide e conniventi di una Cosa Nostra tornata invisibile ma percettibile.
     A cosa sono serviti allora questi lunghi anni di 41bis, se non a perfezionare le tecniche di differenziazione penitenziaria, utilizzabili domani, anzi oggi stesso, contro altri gruppi sociali scomodi, trasformati in nemici?
     Abolire le garanzie, restringere le maglie della società non facilita le lotte contro i potenti, che dispongono comunque di altre risorse per tutelarsi, mentre rende vulnerabili, espone al ricatto repressivo coloro che non hanno potere, risorse sociali, economiche e culturali.
     È ora di abbandonare l'idea che la lotta di classe si possa fare con i tribunali e le prigioni. Ne trarrebbe giovamento la critica e la lotta contro ogni forma di valorizzazione legale e illegale del capitale.
     Lasciamo al diritto la funzione di seguire le evoluzioni della società, di registrare avanzate e sconfitte.
     Staremo tutti meglio e saremmo più liberi di lottare.


Fonte: pubblicata sul quotidiano Liberazione del 30 ottobre 2002