Degli spettri si aggirano per le carceri italiane, sono
i detenuti sottoposti al 41bis. Si tratta di uomini imprigionati due volte.
Dei tribunali hanno tolto loro la libertà, una amministrazione ha decretato
la loro invisibilità. Si trovano qualche passo più in là,
oltre le sbarre e la griglia che ornano la finestra di questa cella. Pochi metri
di cortile mi dividono dal popolo dei murati vivi, i fantasmi della prigione.
Quando qualcuno di questi spettri traversa il carcere le porte blindate vengono
chiuse al loro passaggio. Altre lamiere s'aggiungono a ispessire il loro isolamento
e la loro distanza. Il 41bis è il regno dell'opaca afflizione, la pena
che rende invisibili. Il supplizio moderno ha vergogna di se stesso, fosse trasparente
probabilmente perderebbe molta parte della sua legittimazione sociale.
L'intero carcere è colmo di queste «assenze»
che si fanno pesanti presenze per tutti. Disciplina e regolamento dell'istituto
sono segnati dalle esistenze di questi spettri: non c'è socialità,
non ci sono attività rieducative o di formazione, è chiuso persino
il campo di pallone. Anche il televisore è imprigionato, imbullonato.
"Massima sicurezza" vuole dire deserto disciplinare,
spazi angusti e metallici dove i corpi in sovrannumero sono stipati e normati
in modo rigido e severo, mentre le menti si inaridiscono. L'unico svago concesso
viene dall'agognato carrello dell'infermeria che scandisce la giornata distribuendo
tre volte al giorno stupefacenti ricreazioni chimiche a base di benzodiazepine.
Gli «invisibili», come fantasmi, ogni tanto battono un colpo, anzi dei colpi
sui cancelli blindati. Quelle periodiche battiture ci ricordano che il loro
è un mondo di vivi che non rinuncia a resistere.
Recentemente il Senato ha reso definitivo il regime
del 41bis, una norma sospensiva del normale trattamento penitenziario e che
in origine doveva essere solo «eccezionale e transitoria». Non soddisfatti,
i senatori ne hanno prolungato la durata ed esteso la portata ad altre tipologie
di reato. Chi sostiene la validità di questo trattamento differenziato
afferma che esso è necessario per condurre a termine la lotta contro
il nemico di turno, che si tratti di mafiosi, dei terroristi, degli scafisti
non conta poi molto. I "nemici", si sa, sono intercambiabili. Le battaglie
di civiltà e le lotte per l'emancipazione si svolgono il più delle
volte sul terreno impervio delle questioni di principio. È sui punti
limite che si misurano i passaggi epocali, i momenti di rottura. Troppo comodo
e troppo facile, nonché ineffettuale, è l'atteggiamento di chi
pensa di poter difendere solo i diritti di coloro che sente più prossimi:
«poveri ma belli» oppure «ricchi e potenti». In entrambi i casi vi è
il segno speculare dell'atteggiamento strumentale di chi pensa di eliminare
il proprio nemico abolendo i suoi più elementari diritti, considerandolo
subspecie umana. È la peggiore guerra quella condotta nel nome del diritto
per abolire i diritti.
Sfugge a questa concezione una lucida consapevolezza
di ciò che è l'emergenza, dei suoi dispositivi di governo delle
relazioni sociali, del suo ricorso sistematico alla eccezione che addirittura
non sospende più le regole ordinarie ma si candida a rimpiazzarle stabilmente.
Sorprende che proprio chi si vuole radicale, antagonista, comunista non percepisca
come i pesanti dispositivi giudiziari e penitenziari dell'emergenza, sempre
più limitativi e costrittivi delle libertà individuali e collettive,
restino radicati nel tempo, mentre le tipologie di applicazione hanno vocazione
a variare. Ieri è toccato ai «terroristi», oggi ai mafiosi, persino ceto
politico e imprenditori ne hanno saggiato gli effetti, e domani?
La ruota gira e con i tempi che corrono, tra «guerre
preventive», estensione a dismisura della nozione di terrorismo fino a comprendere
comportamenti politici e sociali considerati semplicemente «non allineati»,
a chi giova rafforzare l'arsenale repressivo che un giorno potrebbe essere facilmente
rivolto verso tutti quelli che sono semplicemente «contro»?
Quei 61 collegi su 61 vinti in Sicilia dalla Casa delle
Libertà non avrebbero dovuto istruire sul fallimento delle politiche
unicamente repressive condotte dall'antimafia? Dieci anni di 41bis non hanno
sconfitto la mafia, al contrario il centrodestra ha fatto manbassa dei voti
come mai era riuscito alla Dc. Con la sua strategia fatta di carcere duro e
pentitismo remunerato, lo Stato è riuscito solo a favorire la selezione
di nuove élites mafiose e il ritorno alle strategie morbide e conniventi
di una Cosa Nostra tornata invisibile ma percettibile.
A cosa sono serviti allora questi lunghi anni di 41bis,
se non a perfezionare le tecniche di differenziazione penitenziaria, utilizzabili
domani, anzi oggi stesso, contro altri gruppi sociali scomodi, trasformati in
nemici?
Abolire le garanzie, restringere le maglie della società
non facilita le lotte contro i potenti, che dispongono comunque di altre risorse
per tutelarsi, mentre rende vulnerabili, espone al ricatto repressivo coloro
che non hanno potere, risorse sociali, economiche e culturali.
È ora di abbandonare l'idea che la lotta di
classe si possa fare con i tribunali e le prigioni. Ne trarrebbe giovamento
la critica e la lotta contro ogni forma di valorizzazione legale e illegale
del capitale.
Lasciamo al diritto la funzione di seguire le evoluzioni
della società, di registrare avanzate e sconfitte.
Staremo tutti meglio e saremmo più liberi di
lottare.