Baghdad, sospesi nella città-prigione
Stefano Chiarini
il manifesto, 2 marzo 2004
Ad Abu Ghraib sarebbero rinchiusi almeno 10.000 prigionieri politici, altri 3.000 sarebbero invece sparsi nei vari centri di detenzione «provvisoria» sparsi nel paese. Contro di loro nessuna accusa, né alcun processo. Mentre le famiglie aspettano, inutilmente, notizie.
Passando in auto davanti ad uno degli ingressi della grande città-prigione di Abu Ghraib, all'estrema periferia occidentale di Baghdad, si rimane un attimo confusi, incerti se ci si trovi nel febbraio del 2004 o in quello del 2002. Una cinquantina di donne, la gran parte, ma non tutte, nel tradizionale mantello nero che le copre dalla testa ai piedi, aspettano preoccupate davanti all'ingresso della prigione, una volta triste simbolo della repressione del regime di Saddam Hussein, e ora principale centro di detenzione delle autorità d'occupazione. Le madri, le mogli, le sorelle, pronte a tutto pur di sapere la sorte dei loro cari, per anni hanno affollato gli ingressi della grande prigione sino all'amnistia generale dell'ottobre del 2002. Ora, dopo pochi mesi di assenza, eccole di nuovo là: «Mio figlio è stato arrestato cinque mesi fa - ci dice emozionata una anziana signora ormai alla disperazione - e da allora non ho saputo più nulla di lui. Proprio come successe con mio marito ai tempi di Saddam. Potete fare qualcosa per noi?».
I raid notturni di rapina
Nella sola prigione di Abu Ghraib vi sarebbero rinchiusi almeno 10.000 prigionieri
politici, altri 3.000 sarebbero invece sparsi nei vari centri di detenzione
provvisoria in tutto il paese - la lista ufficiale dei prigionieri sul sito,
in arabo, della Coalition provisional authority, fa il numero di 8.477. Contro
di loro non viene formulata alcuna accusa, né viene svolto alcun processo.
Molti sono in carcere da mesi e mesi, arrestati spesso in raid notturni nel
corso dei quali, come sostengono numerose denuncie degli organismi internazionali
per i diritti umani, i soldati distruggono tutte le suppellettili della casa,
terrorizzano i bambini, impediscono alle donne di coprirsi e di mettersi il
velo, mettono gli scarponi sulla testa degli uomini stesi per terra davanti
alla loro famiglia - vero e proprio sacrilegio per l'onore di tutto il clan
- prendono gioielli, risparmi e automezzi, proprio come farebbe una delle
tante bande che agiscono impunemente in Iraq.
Nel caso dell'albergo Samarra a Baghdad, denunciato in un rapporto di «Occupation Watch», i soldati dopo una perquisizione (il 28 giugno scorso) sono andati via con la cassaforte della pensione nella quale si trovavano tutti i risparmi dei clienti, in genere immigrati e contadini che vendono le loro mercanzie al mercato. Lo stesso è avvenuto nella chiesa copta di al Jumhariyah dove, nel corso di una perquisizione lo scorso 26 luglio, oltre a rompere porte e finestre, i soldati hanno aperto la cassaforte e si sono portati via i primi fondi raccolti per ristrutturare la chiesa, circa 5100 dollari e 4.150.000 dinari iracheni, oltre a 12 passaporti. Non solo. Cosa ancor più grave per la locale sensibilità religiosa spesso il libro del Corano, la parola di dio, nel corso delle perquisizioni viene gettato in terra e calpestato. Se non anche strappato.
Le famiglie degli arrestati spesso non sanno in quale degli oltre tredici centri di detenzione siano stati portati, né di che cosa siano accusati, né, come ha denunciato Amnesty International, possono incontrarli o mandargli un avvocato. Alcuni arrestati, come nel caso di un membro della famiglia Mandeel del quartiere di al Khadra a Baghdad, scompaiono nel nulla dopo essere stati feriti nel corso di irruzioni dell'esercito.
I prigionieri vengono interrogati per giorni, anche nel caso di ragazzi al di sotto dei quindici anni, costretti a stare all'aperto, incappucciati e legati, picchiati, torturati anche con scosse elettriche, e impossibilitati a prendere sonno per le luci accecanti e per la musica ad alto volume. Spesso i prigionieri vivono sotto le tende esposti alle intemperie, non hanno possibilità di cambiarsi anche dopo due mesi, vivono in condizioni di sovraffollamento con poca acqua da bere e per lavarsi, ricevono pasti scarsi e a volte maleodoranti.
I rastrellamenti si susseguono quasi ogni notte e le prigioni si vanno riempiendo sempre più. L'arresto del capofamiglia ha spesso effetti devastanti sulle famiglie rimaste senza alcun sostentamento, nel terrore per i continui raid dell'esercito americano, senza avere idea di dove si trovino i loro cari a causa dei continui trasferimenti da un centro di detenzione all'altro e infine in questo o quel carcere. Se poi nei registri i nomi vengono traslitterati in modo inappropriato, a quel punto se ne perdono del tutto le tracce.
L'inchiesta del governo britannico
Tra i casi più gravi denunciati da Amnesty International, sui quali
si è fatta un po' di luce, ci sono quelli di Radi Numa arrestato dai
britannici a Bassora lo scorso maggio e morto in carcere durante l'interrogatorio
e quello di Baha al- Maliki, sempre a Bassora, arrestato il 14 settembre e
morto tre giorni dopo per le percosse subite. Quest'ultimo caso è salito
agli onori della cronaca, con l'apertura di un'inchiesta ufficiale da parte
del Ministero della difesa britannico - anche se «ci vorrà tempo
per arrivare a delle conclusioni», aggiungono le autorità britanniche
- quando un soldato inglese, angosciato dai sensi di colpa «per non
aver fatto nulla per salvarlo» ha raccontato delle sevizie subite dal
poveretto per due lunghi giorni, fino al momento della sua morte nella base
britannica di Bassora, al quotidiano popolare inglese The Sun. Se in questo
caso il velo di silenzio è stato rotto, non si può dire lo stesso
per quanto riguarda altri casi analoghi di torture e morti sospette avvenute
nella prigione di Abu Ghraib per mano dei soldati Usa. Numerosi addetti alle
pulizie hanno raccontato alla stampa irachena di aver assistito a pestaggi,
torture e maltrattamenti e alcune famiglie hanno denunciato con forza la morte
sospetta dei loro cari tanto che dopo sei mesi di silenzio, agli inizi del
mese di febbraio, il Comando Centrale dell'esercito americano, ha annunciato
l'apertura di un'inchiesta sui questi «presunti incidenti». Tra
i casi emersi grazie al lavoro degli organismi per i diritti umani c'è
quello del cinquantacinquenne, Sadiq Zoman Abrahim, preso dai soldati Usa
a Kirkuk lo scorso agosto e trovato alcuni giorni dopo dalla famiglia in coma
irreversibile per un violentissimo trauma cranico in un ospedale di Tikrit.
Questi «incidenti» sarebbero in realtà solamente la punta dell'iceberg. Lo prova l'annuncio fatto da un portavoce dell'esercito Usa a Baghdad, il colonnello William Darley, lo scorso 23 febbraio, secondo il quale diciassette soldati americani sarebbero stati «sospesi» in attesa della conclusione dell'inchiesta sui maltrattamenti ai prigionieri di Abu Ghraib ordinata dal generale Ricardo Sanchez comandante delle forze Usa nel paese. Si ignora però a quali casi si riferisca questa misura precauzionale. Si parla, ma senza ancora elementi concreti, di un prigioniero al quale durante un interrogatorio sarebbe stato spezzato il collo. Il mese scorso tre riservisti erano già stati dimessi dall'esercito per aver maltrattato i prigionieri nella base di «Camp Bucca», nell'estremo sud del paese, sul confine con il Kuwait.
In questo regno assoluto dell'arbitrio e del terrore gestito dagli Stati uniti con i loro alleati fedeli, si può essere arrestati per un nonnulla. Uno sguardo di troppo verso un soldato, l'abitare in una certa zona dove la guerriglia è più attiva, l'avere un parente o un vicino che è riuscito a sfuggire alla cattura, o semplicemente per non aver accettato un volantino distribuito dai soldati. Si può essere arrestati per il fatto di frequentare una certa moschea, o semplicemente per essere gia stati arrestati ed essere rimasti senza documento. O, come hanno denunciato in questi giorni gli studenti di scienze dell'Università di Baghdad, per essere chimici, biologi, scienziati nucleari e rifiutarsi di andare a lavorare nei laboratori militari americani per le armi di distruzione di massa.
Risarcimenti? Attesa inutile
Un altro campo vastissimo e ignorato dai media è quello delle uccisioni
di cittadini iracheni da parte dei soldati Usa e più in generale dei
danni, dal sequestro al danneggiamento, inflitti da questi alle proprietà
ed in particolare agli automezzi dei cittadini iracheni. L'unico punto di
contatto tra gli iracheni e le autorità militari Usa sono a questo
proposito i «Civilian Military Operation Center» dove sulla base
del «Foreign Claims Act» i cittadini iracheni, dal momento che
i soldati Usa sono immuni da qualsiasi azione legale sotto le leggi civili,
possono rivolgersi per chiedere il risarcimento dei danni subiti. Ci si aspetterebbe
a tale riguardo che gli occupanti portassero avanti in tal modo una operazione
tesa a ingraziarsi i favori della popolazione locale. Nulla di più
lontano dalla realtà. La gente fa la fila per ore, una volta alla settimana,
fuori dalle basi, al freddo o sotto il sole brillante, esposta alle autobombe
e alla polvere, per riavere l'auto sequestrata, in alcuni casi un carretto
con l'asinello, unica fonte di reddito, i gioielli spariti, o per denunciare
l'uccisione di un familiare da parte dei soldati.
In quest'ultimo caso vengono presi in esame solamente le morti avvenute dopo il primo maggio del 2003, dopo la fine delle operazioni militari ma, sulla base di un diabolico «Comma 22» (viene esentato dal servizio militare chi è pazzo, ma chi chiede di essere esentato non è pazzo) vengono risarciti solamente i casi che si riferiscono ad operazioni «non di combattimento». In realtà tutte le operazioni nei quali vengono uccisi dei civili nella stragrande maggioranza dei casi vengono considerate tali. Anche perché in Iraq le regole di ingaggio dell'esercito americano sono segrete. Inoltre in questi centri aperti al pubblico una volta la settimana, non vi sarebbero copie in arabo delle procedure per i risarcimenti, le risposte sono in inglese e i documenti vengono regolarmente persi durante il passaggio da un ufficio all'altro senza che ne rimanga traccia.
Il tragico meccanismo di tante morti è ormai ricorrente: i commando della resistenza attaccano i soldati e si dileguano e i soldati americani aprono il fuoco all'impazzata contro passanti e automobilisti.
Tipico da questo punto di vista quanto avvenuto al mercato di Abu Ghraib il 10 settembre del 2003. Due convogli americani sono fermi nel traffico davanti ad un piccolo mercato. Un ragazzino di una quindicina d'anni si arrampica su un carrarmato e lancia nell'abitacolo una bomba a mano per poi fuggire via prima dello scoppio dell'ordigno. L'equipaggio del secondo carro apre il fuoco a raffica contro il mercato uccidendo una bambina di 7 anni, Afrah e un uomo di trentasette Hassan con ancora in mano la busta della spesa.
Truppe Usa, una diffusa impunità
Il fatto che nessuna misura venga presa contro le unità responsabili
di queste uccisioni - sostengono Ismaeel Daud e Paola Gasparoli in un rapporto
congiunto dell'«Associazione irachena per la difesa dei diritti umani
in Iraq» e di «Occupation Watch» - potrebbe portare ad un
aumento di queste violazioni dei diritti umani tanto più che ormai
nelle truppe Usa si sarebbe diffuso un senso di generale impunità.
Fino al punto che su alcuni mezzi di pattuglia i soldati hanno scritto, in
spregio della popolazione locale, «Uccidili tutti» o «Morte
dall'alto».
L'atteggiamento sempre più arrogante degli occupanti, insieme alla mancanza di energia elettrica, benzina, gasolio, e posti di lavoro, sta portando a livelli di guardia l'esasperazione della popolazione irachena che ha visto svanire sotto un'occupazione del tutto insensibile, le già tenui speranze di un futuro migliore. La tragedia del popolo iracheno non potrebbe essere meglio rappresentata da quelle donne vestite di nero che dopo pochi mesi sono tornate davanti al tetro cancello di Abu Ghreib, a chiedere con il loro silenzio notizie dei loro parenti di nuovo scomparsi nel nulla.
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Iraq: sono 10 mila gli iracheni arrestati dai militari Usa
di Francesco Agresti
Vita, 8 marzo 2004
La maggior parte non ha commesso alcun reato ma è solo incappata nei rastrellamenti delle truppe
Il più anziano ha 75 anni il più giovane appena 11, sono due
degli oltre 10 mila iracheni fatti prigionieri dai militari Usa da quando
è iniziata l'occupazione militare. "L'Iraq sta diventando una
grande Guantanamo", ha dichiarato al New York Times, Adil Allami, avvocato
di Human Rights Organizzation of Iraq. Alcuni prigionieri rilasciati nei giorni
scorsi hanno dichiarato di aver subito percosse e di essere stati rinchiusi
in fredde e umide celle. Lo scorso mese 17 tra militari Usa sono stati sospesi
perché accusati di avere commesso degli abusi nel carcere di Abu Ghraib
dove sono rinchiusi migliaia di prigionieri.
Alcuni detenuti sono accusati di gravi reati molti invece sono stati arrestati
nel corso di retate rei di essersi trovati nel posto sbagliato al momento
sbagliato. Qualche giorno fa i giudici militari hanno raccomandato la liberazione
di 963 detenuti su 1166 casi esaminati. Le autorità americane hanno
realizzato un database dei prigionieri per fornire informazioni ai parenti
molti dei quali da mesi non hanno notizie dei loro congiunti.