Dell'utilizzo sistematico della tortura da parte delle truppe americane si parlava ormai da giorni, ma i militari statunitensi ieri hanno confessato una realtà ben più sconvolgente. In Iraq e Afghanistan 25 persone sono state seviziate fino alla morte. Lo scioccante bilancio di morte è stato fornito direttamente dai comandi americani ai giornalisti accorsi al Pentagono per una conferenza stampa. Il generale Donald Ryder, responsabile dell'applicazione delle pene nel sistema penitenziario militare, ha precisato che i morti comprendono due presunti omicidi di prigionieri da parte di soldati, l'uccisione di un detenuto che stava cercando di evadere e altri dieci casi attualmente sotto inchiesta. Ryder ha precisato che l'origine di 12 altri casi di morte tra i prigionieri resta al momento indeterminata.
Poche ore prima alcuni casi di torture in Afghanistan erano stati denunciati dal senatore repubblicano John Warner che aveva ascoltato un briefing dei comandi. «Ci sono stati episodi del genere anche in Afghanistan», aveva dichiarato Warner dopo un'audizione con i generali a Capitol Hill: «Non ci hanno detto tutto, ma ci hanno fatto capire che erano isolati e limitati nel numero». Il senatore democratico Ted Kennedy aveva invece detto di temere che gli abusi finora noti in Iraq siano «l'inizio piuttosto che la fine» delle accuse di tortura.
Alla luce di queste ultime notizie suonano grottesche le affermazioni del ministro della difesa statunitense. «L'America è un Paese meraviglioso e quello americano è un popolo meraviglioso. Le cose accadute nella prigione di Abu Ghraib sono del tutto inaccettabili e del tutto non americane e hanno riguardato un ristretto numero di individui, o perlomeno quello che spero sia un ristretto numero di individui»: sono parole di Donald Rumsfeld, segretario alla difesa Usa, e l'ultima sua osservazione era certamente una notizia, visto che per la prima volta quest'uomo dalle certezze assolute si trovava a manifestare qualcosa che somigliava al dubbio, confermato un momento dopo, quando ha detto «sperare» che «l'immagine delle forze armate americane nell'opinione del mondo» possa col tempo migliorare.
Appariva un po' strano Rumsfeld in versione «umile», ma in fondo le cose da farsi «perdonare» erano molte, e innanzi tutto il fatto che dopo una settimana dallo scoppio dello scandalo lui non aveva ancora letto l'ormai famoso rapporto del generale Antonio Taguba, che era stato redatto due mesi prima. Un giornalista presente gli ha chiesto conto di quella lentezza e lui ha impapocchiato una risposta burocratica. «Sono cose complicate, c'è tutta una catena di comando da rispettare. Il rapporto ha seguito il proprio iter». E il generale Peter Pace, il vice capo degli stati maggiori riuniti che era accando a lui ha rassicurato: «Non c'è stato nessun tentativo di nascondere questa storia». Nello stesso momento i colleghi di Pace erano al Senato, interogati dalla commissione forze armate. Quando ne sono usciti, oltre alle ovvie manifestazioni di sdegno che tutti i senatori si sono affrettati a manifestare davanti alle telecamere, ecco il presidente della commissione, il repubblicano John Warner, riferire di avere appreso che «incidenti simili» si sono verificati anche in Afghanistan. Intanto però, a smentire la giustificazione burocratica di Rumsfeld c'è il fatto che i due impiegati di ditte appaltatrici coinvolti nella vicenda di Abu Ghraib sono ancora tranquillamente al lavoro, nonostante il rapporto Taguba indichi esplicitamente la necessità di «rimuoverli». Il New York Times si è preso la briga di andare direttamente ala fonte e i titolari delle due compagnie, J.P. London della Caci che sta per California Analysis Center Inc. e Ralph Williams della Titan hanno risposto «perfino con irritazione», annota il cronista del Times, che il Pentagono non ha comunicato loro nulla.
«Il cliente», così lo chiama Mister London, «non ci ha mandato né informazioni né istruzioni, né tanto meno accuse, comunicazioni, citazioni o inviti a presentarci al Pentagono». E questo dopo due mesi che nel solito rapporto i dipendenti delle due compagnie (ora se ne conoscono anche i nomi, Steven Stephaniwicz della Caci e John Israel della Titan) venivano indicati come responsabili «diretti o indiretti degli abusi di Abu Ghraib».
La Caci ha 9.400 dipendenti e un bilancio di 843 milioni di dollari. Il 63 per cento della sua attività si svolge attraverso contratti col Pentagono, il 29 per cento con altre entità federali equel poco che rimano con clienti privati. La sua specialità è l'ottenimento di materiale di intelligence, l'analisi, la fornitura di materiale e quella di «supporto umano». Quest'ultima, dice sempre Mister London, potrebbe comprendere quelle che lui chiama le «interviste» compiurte ad Abu Ghraib.
Il bilancio della Titan è di due miliardi di dollari l'anno e i suoi dipendenti sono 12.000. I suoi contratti col Pentagono riguardano soprattutto servizi di traduzione e, dice Mister Williams, «non abbiamo nessun contratto che implichi la gestione fisica dei prigionieri». Insomma il suo uomo avrebbe «assistito» ai festini, presumibilmente impegnato a tradurre i lamenti dei torturati, ma senza avere parte attiva.
L'organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch ieri si è rivolta direttamente alla consigliera per la sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, la più ascoltata da George Bush, proponendo azioni concrete da intraprendere per evitare gli abusi, non solo questi venuti alla luce ma anche - per esempio - le cose che accadono a Guantanamo senza che nessuno lo sappia. Fra i punti indicati: indagini a tappeto su Pentagono e Cia, maggiore accesso ai prigionieri, presenza obbligatoria di telecamere durante gli interrogatori dei detenuti.