Mi hanno umiliato, come faccio a tornare a casa?
Claudio Lazzaro
Corriere della Sera, 6 maggio 2004

Proteste davanti al carcere: «È questa la vostra democrazia?» «Cosa vi insegna il cristianesimo?». Un prigioniero appena uscito: ogni giorno mi picchiavano e mi pompavano acqua nelle orecchie.

Di fronte al filo spinato che circonda le torrette del carcere ci sono 500 iracheni venuti da Bagdad (che dista 30 chilometri) con i loro cartelli di protesta: «Gli americani sono crudeli. Abu Ghraib lo dimostra». «Vergogna. È questa la democrazia che portate?». «Americani, tornate a casa». «Avete dato una brutta impressione del cristianesimo». Finita la manifestazione, sono rimaste le donne, ammantate fino ai piedi, che da mesi attendono di vedere figli e mariti. «Di notte sono venuti i soldati a prenderli e li hanno portati via - racconta Om Alì, il volto rugoso che emerge dalla tunica nera -. Da otto mesi non so più nulla di mio marito e dei nostri quattro figli». Un soldato legge numeri a quattro cifre. I detenuti sono circa 8.000. Le donne aspettano. Se esce il numero giusto potranno entrare. «Non sono vere visite ai parenti - spiega Hussein Salah, 25 anni, che dal carcere è appena uscito, dopo un mese di detenzione -. I parenti devono stare nel cortile, non devono superare una linea. A 20 metri c'è un'altra linea, dietro la quale stanno i detenuti. Per capirsi, tutti insieme, devono gridare a squarciagola». Hussein è piccolo, moro, ha due solchi rossi attorno ai polsi e sulle gambe i lividi tondi, cerchiati di sangue, prodotti dalla canna del fucile. «La notte mi svegliavano ogni cinque minuti, la guardia passeggiava su e giù colpendoci con la canna, per non farci dormire. I prime tre giorni solo acqua, neanche un pezzo di pane. Io stavo nelle tende, come tanti altri, perché le celle sono tutte occupate. I polsi non me li hanno mai slegati, per tutto il tempo che sono stato in prigione. E non ho fatto niente, soltanto mi hanno fermato, durante una retata. Per farmi confessare mi picchiavano ogni giorno, mi pompavano acqua nelle orecchie e mi obbligavano a mangiare la terra. Io non sapevo cosa confessare». Ieri una ventina di detenuti sono stati liberati, ma solo Hussein ha trovato il coraggio di parlare. Gli altri, barbe e capelli lunghi, facce scavate dalla sofferenza, cercavano rifugio tra le braccia dei parenti. Un altro, Hayder Sabbar Abd, uno di quelli ripresi nelle foto che hanno fatto scoppiare lo scandalo, ha potuto raccontare la sua storia al New York Times. I corpi nudi ammonticchiati, le percosse a chi rifiutava di prestarsi alle oscenità davanti alla macchina fotografica. «Mi vergogno talmente - racconta Sabbar - che non trovo il coraggio di tornare a Nassiriya. Sarei perfino disposto a trasferirmi in America, piuttosto che tornare al mio paese».