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Ho visto due prigionieri uccisi a colpi di mitra

Claudio Lazzaro

Il Corriere della Sera, 9 maggio 2004

L' accusa di un detenuto, uscito dal campo di Bucca: «Mi hanno rotto due costole e tolto 16 mila dollari. Poi si sono scusati». E un centro a Bagdad raccoglie le denunce.

«Al campo di Bucca, vicino a Bassora, dovevamo stare chiusi nelle tende. Erano grandissime, ognuna conteneva 500 detenuti, ma bisognava stringersi per terra. Gli americani ci trattavano come bestie, ci facevano sdraiare e coi loro scarponi, tirandosi dietro i cani da guardia, camminavano sui nostri corpi, come fossero un tappeto. Attorno a ogni tenda, nel campo di prigionia, avevano scavato un solco, in cui dovevamo fare i bisogni. Solo per quello si poteva uscire. Un giorno, due uomini, che non sapevano perché fossero rinchiusi, sono usciti per avere spiegazioni. Non stavano scappando. Abbiamo sentito le loro voci, poi le raffiche di mitra. Attraverso le fessure della tenda abbiamo visto che li avevano ammazzati». A raccontare questo duplice omicidio è un uomo che ha deciso di non proteggersi dietro l' anonimato. Anzi, esibisce un documento, datato 5 aprile 2003, intestato a Kirhla Alguzawy, che testimonia la sua permanenza nel carcere. Sul tesserino vengono indicati anche i suoi «id serial number» (codice d' identificazione numero 027384) e «internment serial number» (codice di detenzione USUSO273841ZCM). Kirhla, ieri, con il suo dishdasha migliore, stirato e ricoperto da una velo nero, i baffi e la faccia di cuoio incorniciati dal gutre, è venuto a denunciare il suo caso all' International occupation watch center, un osservatorio sulle violazioni dei diritti umani, fondato dalla giornalista e scrittrice irachena Iman Ahmed Khammas. «Era il 3 aprile - racconta -. I marines hanno fatto esplodere la mia porta di casa e sono entrati con le armi in pugno. Erano 40, fuori c' erano dieci carri armati. Quando trovavano una porta chiusa la facevano saltare con l' esplosivo, anche se la casa era piena di bambini. Mi hanno messo in testa una busta nera, mi hanno stretto i polsi con il laccio di plastica, mi hanno sbattuto per terra e trascinato per tutta la casa, poi caricato in macchina. Con la canna del fucile mi colpivano tra le costole, me ne hanno rotte due. Dopo alcuni trasferimenti, sono arrivato al campo di Bucca. Avevano preso anche mio figlio, io sulle mani avevo delle ferite che si erano infettate e nessuno me le curava. Ci hanno dato un braccialetto di plastica e un altro numero ce lo hanno scritto sul collo, col pennarello. I soldi me li hanno presi tutti. Faccio il commerciante, in cassa avevo 16.000 dollari e in dinari 8 milioni. Dopo un mese finalmente sono stato interrogato da un ufficiale, che credo fosse americano. L' interprete era del Kuwait. Mi hanno chiesto se lavoravo per Bin Laden, se avevo fatto parte del partito Baath, erano convinti che fossi un terrorista. Poi hanno controllato bene il mio nome e quello dei miei cinque figli. Alla fine mi hanno chiesto scusa. Erano entrati nella casa sbagliata. I soldi però non me li hanno dati. Sul braccialetto di plastica c' è il numero (MC 19759) del sacco in cui hanno messo le cose sequestrate al momento dell' arresto. "Abbiamo 12.000 sacchi - mi hanno detto - per trovare il tuo ci vuole tempo. Tu vai pure a casa, poi torni a prenderlo". Io sono tornato, tante volte, ma tutto attorno, a quattro chilometri dal campo di Bucca, c' è uno sbarramento di filo spinato. Mi fermo al posto di controllo, mostro il braccialetto. Ma loro mi rimandano indietro». Altre storie, come quella di Kihrla Alguzawy, verranno raccontate oggi, a Bagdad, nel corso di una conferenza stampa convocata dall' International occupation watch. «Bush continua a sostenere che gli omicidi commessi dai militari americani e le torture sono solo le cattive azioni di pochi - dice Iman Khammas -. Noi dimostreremo, con fotografie e testimonianze, che il sistema della tortura era diffuso in tutte le prigioni, non solo ad Abu Ghraib, ma anche a Bucca, a Rusafa, nel campo di Al Bagdadi, come in quello di White horse, vicino a Nassiriya». Iman sta anche conducendo una battaglia contro la norma, introdotta dagli Stati Uniti dopo la fine della guerra, che rende non perseguibili i soldati americani per le uccisioni di civili innocenti nel corso di operazioni di polizia. «Alle famiglie - spiega Iman - in alcuni casi viene riconosciuto un risarcimento di 2.500 dollari, purché firmino un documento in cui rinunciano a qualsiasi azione giudiziaria, anche futura». Iman si alza, indignata: «Se la vogliono esportare, dovrebbero sapere che la democrazia si basa su un principio elementare: tutti devono essere uguali di fronte alla legge».