Come ti uccido l'anima
Luigi Manconi
L'Unità, 6 maggio 2004
A scanso di equivoci. Alcune rapidissime premesse acciocché nessuno si adonti. Sappiamo benissimo che: a) nel carcere di Abu Ghraib, gli uomini di Saddam Hussein hanno commesso azioni ancora più efferate di quelli compiute dai militari americani; b) l'hanno fatto per un periodo di tempo assai più lungo e nella più incondizionata impunità; c) attualmente, nel mondo, sono 70 i paesi nei quali - secondo Amnesty International - torture e maltrattamenti nei confronti di detenuti sono "assai diffusi"; in oltre 80 paesi questi trattamenti "hanno provocato morti"; d) è democratica quella società dove, come sta accadendo in questi giorni negli Stati Uniti e in Inghilterra, pratiche quali la tortura vengono sottoposte allo sguardo dei cittadini, al controllo dei mezzi d'informazione, al giudizio dei tribunali. Ma, detto tutto questo (a scanso di equivoci, appunto), si resta al di qua dell'orrore. L'orrore di quelle immagini esige di essere guardato: e non solo per fondamentali questioni di diritto e per altrettanto fondamentali questioni di politica internazionale ed interna. Non solo per questo.
Quell'orrore ci parla di qualcosa che credevamo appartenesse ormai all'altrove: un altrove temporale (secoli bui), geografico (culture primitive), politico (regimi dispotici), morale (differenti sistemi di valori). E, invece, eccoli qui, i figli e le figlie (alcune ventenni!) delle nostre più antiche democrazie, ridotti a sgherri di trucide rappresentazioni fetish: come in una filmografia postribolare per nazistelli onanisti. E, infatti, a leggere il rapporto di Antonio M. Taguba, il generale che ha redatto il dossier sulle torture a Bagdad, sembra di avere tra le mani il copione di un film di quel filone nazi-porno, nato nella scia del successo di Salò, di Salon Kitty e del Portiere di notte, e che produsse titoli come La bestia in calore e La svastica nel ventre. Robaccia della prima metà degli anni '70, reinterpretata dai "nostri ragazzi" con una "innocenza" che rasenta l'idiozia e precipita nel sadismo. Quelle immagini in posa, se sostituiamo i corpi derelitti e offesi dei torturati con le vetrine di un McDonald's o di una sala da gioco di Las Vegas o di un bowling di Atlanta, sembrano davvero le foto ricordo di una gita spensierata con i compagni di liceo o con i colleghi di lavoro. E se, invece, quei corpi derelitti e offesi vengono riportati dentro quelle foto, potremmo pensare che si tratti, al più, della raffigurazione di giochi spregiudicati e di fantasie trasgressive. Una incursione, tutto sommato innocua, nel mercato degli erotismi specialistici e delle pornografie "di nicchia". E, invece, no: sarà pure logora la frase di Hanna Arendt, ma resta insuperabile per definire questa condizione: è la "banalità del male" quella che qui viene consumata, dal momento che quei corpi sono propriamente corpi (carne ossa sangue nervi) e non figuranti o comparse, e neppure partner consenzienti. E colpisce il fatto che la gran parte di quelle sevizie hanno uno sfondo o una cornice di natura sessuale. Questo deve far riflettere. Qual è la cultura che alimenta, più che quegli atti, le motivazioni degli autori di essi? Quale il senso comune, le rappresentazioni, le fantasie, che scatenano, infine, quel meccanismo libidico e lo traducono in sopraffazione? Perché non c'è il minimo dubbio che, da sempre, quelle fantasie esistono e circolano nell'inconscio umano: ma o rimangono lì, sepolte e inoffensive, o vengono trasferite in giochi condivisi o in rappresentazione virtuali (la pornografia, appunto). Il problema e il dramma, va da sé, nascono quando si realizzano condizioni tali da tradurre quelle stesse fantasie in azioni efferate. Perché questo accada, i freni inibitori individuali e collettivi devono essere sciolti; di più: deve essere sollecitato l'allentamento di quei freni e deve essere incentivato il superamento dei meccanismi di auto-censura e di auto-controllo che governano le pulsioni umane. E quanto è accaduto, prevedibilmente, quando i militari in questione sono stati (o si sono sentiti) "autorizzati": dal clima creatosi, dalla sensazione di impunità, dalle disposizioni ricevute. È sufficiente questo perché quei militari si trasformino in "funzionari dell'ignobile" (ancora la Arendt). Ed è quanto dimostra che, per diventare "volenterosi carnefici", non deve esserci una predisposizione naturale. C'è già tutto nel "patrimonio umano": e le condizioni per farlo emergere non sono, certo, ordinarie, ma neppure così rare ed eccezionali. Gli esperimenti di Stanley Milgram, già negli anni '60, hanno documentato, inequivocabilmente, che l'esercizio della crudeltà è correlata più ai modelli di interazione sociale e a dinamiche di gruppo che a tratti della personalità individuale. "Basta" trovarsi a Bagdad, dunque, ed essere assegnati alla custodia dei prigionieri di guerra: da qui discendono (possono discendere) i rituali di degradazione, le procedure di annichilimento della personalità, le pratiche di reificazione. Non va dimenticato, d'altra parte, che - nel caso in questione - non si è trattato di sevizie "strumentali" (finalizzate, cioè, a ottenere confessioni), ma di azioni destinate a umiliare la vittima. D'altra parte, secondo Françoise Sironi, psicologa clinica, specializzata nell'assistenza alle vittime, "non è per far parlare che si tortura, ma per far tacere". Questo sembra emergere, con particolare evidenza, nella vicenda dei prigionieri iracheni. I meccanismi di mortificazione della loro personalità hanno fatto ricorso - come si è detto - a una pluralità di rituali sessuali: tanto più aggressivi e tanto più efficaci perché concentrati su una sfera (quella dell'eros) che, nella cultura musulmana, è sottoposta a censure e divieti, si nutre di tabù e si alimenta di interdizioni. Il mimare rapporti omosessuali, la costrizione a indossare indumenti femminili, la sottomissione a prevaricazioni messe in atto da donne: sono altrettanti dispositivi di spoliazione e di degrado. E nell'incentivare e nell'indurre a queste azioni ha contato, indubbiamente, la propaganda anti-islamica che ha preparato e accompagnato le guerre contro l'Afghanistan e contro l'Iraq. È anche questo che contribuisce a trasformare un "bravo ragazzo" in una "macchina di tortura" e a far precipitare quella continuità tra normalità e patologie in uno "slittamento" che, in ultima istanza, produce il carnefice. Attenzione a non considerarcene immuni. E non solo perché, come affermava Terenzio, "non reputo estraneo a me nulla di ciò che è umano": ma perché, più concretamente, abbiamo letto sul "Corriere della Sera" che quattro iracheni, arrestati dai carabinieri italiani in quanto sospettati della strage di Nassirya, sarebbero stati tenuti - secondo una procedura "imposta dagli Stati Uniti" - "chiusi in una cella al buio, inginocchiati, senza acqua né cibo, per quattro giorni". E la mancata confessione si spiegherebbe col fatto che i prigionieri erano stati "addestrati a non parlare". In altre parole, sono stati torturati e - forse - niente avevano da confessare. Ma, come ha detto una vittima (ricorda ancora la Sironi), "quando si è stati torturati, sulla terra non ci si sente più a casa propria".