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Il carcere privato dell’ex berretto verde

La Stampa, 26 luglio 2004

Washington smentisce ma prese da lui un prigioniero in consegna. Sotto processo in Afghanistan per torture: «Avevo l’approvazione del Pentagono».

Jonathan Idema sostiene che lui lavorava per il Pentagono, e ha le prove per dimostrarlo. Se fosse vero, lo scandalo per gli abusi dei prigionieri prenderebbe una svolta bizzarra in Afghanistan. Idema è un ex berretto verde, cioè un membro delle forze speciali americane, ed è sotto processo a Kabul per aver creato una prigione privata dove deteneva persone, le torturava, e conduce la sua guerra personale contro il terrorismo. Aveva due strani complici, Brent Bennett e il giornalista televisivo Edward Caraballo, più quattro afghani che facevano da interpreti, uomini delle pulizie, autisti e guardie. Idema è stato arrestato il 5 luglio scorso, dopo un breve scontro a fuoco, e dentro alla sua casa la polizia ha trovato otto persone imprigionate illegalmente. L'ex berretto verde e i suoi complici sono finiti in tribunale, dove il procuratore Muhammad Naeem Dawari li ha incriminati per cattura di ostaggi, detenzione in una prigione privata, ingresso illegale nel paese e possesso di armi vietate.

Davanti al giudice sono comparsi anche tre dei detenuti, Ghulam Sakhi, Maulavi Muhammad Siddiq, e Sher Jan, che hanno accusato i «vigilantes» di averli torturati, infilando le loro teste in secchi pieni d'acqua finché non svenivano. Quindi è arrivato il turno di Idema, che indossando una camicia con la bandiera americana cucita sulle spalle ha risposto così alle accuse: «Noi lavoravamo per il gruppo antiterrorismo degli Stati Uniti, il Pentagono e altre agenzie federali. Le autorità americane appoggiavano assolutamente quello che facevamo. Eravamo in contatto diretto via fax, e-mail e telefono con l'ufficio di Donald Rumsfeld, e siamo pronti a mostrare messaggi di posta elettronica, corrispondenza e conversazioni registrate per provarlo».

L'ex berretto verde ha detto di aver sventato diversi attentati e di aver consegnato parecchi sospetti terroristi all'Fbi: «Li abbiamo fermati 48 ore prima che uccidessero il ministro dell'Istruzione Yunis Qanuni, mettendo una bomba nel suo ufficio. L'Fbi ha già interrogato diversi prigionieri, e loro hanno ammesso che volevano far saltare in aria la base di Bagram colpendola con un camion cisterna». Il Pentagono e il dipartimento di Stato hanno smentito qualunque collegamento con Idema e il suo gruppo, ma ieri il maggiore Jon Siepmann ha ammesso che le forze regolari americane avevano preso in consegna da lui almeno un detenuto.

«La ragione per cui lo prendemmo era che si trattava di un sospetto terrorista. Poi, durante gli interrogatori, è diventato chiaro che era la persona sbagliata. Questo è stato l'unico contatto e ha confermato la già scarsa credibilità dell'accusato». Può darsi che sia andata davvero così, ma l'episodio confermerebbe che gli americani sapevano delle attività di Idema, almeno inizialmente le hanno tollerate, e hanno collaborato con lui finché non si è dimostrato inaffidabile. Questa storia del Rambo in guerra privata contro al Qaeda e i taleban rischia di danneggiare ancora l'immagine del Pentagono, già sotto accusa per le torture nel carcere di Abu Ghraib. Proprio ieri un rapporto del generale Paul Mikolashek ha rivelato che gli investigatori militari hanno accertato almeno 94 casi di abusi tra le prigioni dell'Iraq e dell'Afghanistan. Più di quanti se ne aspettavano, se le violenze fossero state davvero casuali e non sistematiche.