Abbiamo chiesto a due avvocati milanesi, Ugo Giannangeli e Giuseppe Pelazza (che cogliamo l'occasione per ringraziare), un contributo al dibattito sulla situazione carceraria in Italia. Ecco il loro intervento.
Milano, maggio 2001
Prima degli anni 70 il carcere era avvolto dal più pesante dei silenzi: era
un luogo di segregazione ove veniva espiata la pena vista come colpa verso la
società. Tra il 1970 e il 1971 si verificano circa ottanta rivolte carcerarie
che impongono l'attenzione al problema. Denunce, scioperi della fame, suicidi,
contribuiscono, a loro volta, a rompere la barriera del silenzio.
Le lotte carcerarie ricevono molta solidarietà dall'esterno, e si assiste
al superamento di quella distinzione tra detenuti politici e detenuti comuni
che trova le proprie radici nell'epoca fascista. Numerosi sono i casi di detenuti
comuni "politicizzatisi" in carcere e, nello stesso tempo, i detenuti
politici non sono più un corpo separato: la repressione carceraria appare
unica e classista.
A cavallo di quegli anni, e in quel contesto, si avviano i disegni di legge
di riforma penitenziaria (progetti del 1968, 1971, 1972), che poi confluiranno
nella legge approvata nel 1975 (legge 24 luglio 1975 n. 354). Si moltiplicano,
inoltre, le inchieste e gli scritti sul carcere, anche dall'interno ("l'evasione
impossibile" di Sante Notarnicola; "Il carcere in Italia" di
Ricci e Salierno).
Sul piano normativo, a quell'epoca, esisteva, a completamento delle scarne disposizioni
del codice penale del 1930, solo il Regolamento Carcerario del 1931: tale Regolamento,
al di la di alcune enunciazioni di principio (individualizzazione del trattamento,
rieducazione attraverso il lavoro ecc), era incentrato essenzialmente sull'esigenza
del mantenimento dell'ordine: separazione degli stabilimenti penali secondo
"tipologie" delinquenziali, previsione di innumerevoli infrazioni
disciplinari (circa cinquanta infrazioni - dal riposo sul letto senza giustificato
motivo, al canto, alla bestemmia - con le relative punizioni - da pane e acqua,
al letto di contenzione al blocco di visite e pacchi). A vigilare sull 'esecuzione
della pena era prevista la figura di un giudice di sorveglianza; in astratto
era prevista anche una sorta di rozzo meccanismo premiale (ma , come si comprenderà,
del tutto privo di incidenza): lode del direttore, due francobolli al mese,
più visite dei famigliari.
Grande è, pertanto, l'impatto della riforma del 1975, che introduce alcuni
istituti giuridici di significativa rilevanza: l'affidamento in prova al servizio
sociale, che consente di uscire dal carcere, dopo tre mesi di osservazione,
nel caso di condanna inferiore ai due anni e mezzo; la semilibertà, una
volta espiata metà pena; la liberazione anticipata (40 giorni di riduzione
pena per buona condotta in relazione ad ogni anno espiato); i permessi per gravi
ragioni famigliari. Il regolamento del 1976, introduce, poi il lavoro esterno,
ma solo sotto scorta.
Ovviamente in questo quadro cresce in modo significativo il ruolo della magistratura
di Sorveglianza (sono istituite le sezioni di sorveglianza) competente a decidere
sulle indicate riduzioni di pena e sulle forme di controllo alternative alla
detenzione. Teoricamente il giudice di sorveglianza è anche "il
garante" dei diritti del detenuto, ma certamente si trova direttamente
coinvolto nella gestione della pena, unitamente al personale amministrativo
e di custodia, e del controllo sociale, unitamente ai servizi sociali ed alle
forze di polizia. Ciò non toglie che, soprattutto nel primo periodo,
si guadagnino un qualche spazio anche figure di giudici di sorveglianza effettivamente
"garantisti", capaci di entrare in contrasto con le Direzioni dei
Carceri o con l'apparato ministeriale. Ma questo fenomeno è destinato
a scomparire: la concreta applicazione del diritto, infatti, dipende in gran
parte dai rapporti di forza esistenti nella società. E, man mano che
sulla società si stenderà il velo dell'"omologazione"
ai (dis)valori capitalistici, anche questo tipo di magistratura - come la magistratura
più in generale, del resto - si farà garante e custode di tale
omologazione.
D'altra parte, in linea con la svolta che caratterizza, all'inizio degli anni
'80, il sistema penale, nel 1986 entrerà in vigore la cosiddetta legge
"Gozzini". Essa si colloca nel filone della produzione legislativa
che esalta il momento della valutazione dell'identità "politica"
(anche in senso lato) del soggetto imputato e condannato, lasciando solo sullo
sfondo le condotte concrete che sono oggetto dei processi: del 1980 è
la legge di conversione del decreto Cossiga, che introduce nelle indagini e
nei processi per fatti di lotta armata, la figura del "collaboratore";
del 1982 è la organica legge sui pentiti; del 1987 è la legge
sulla dissociazione.
Se questo è il quadro, la legge Gozzini interviene sul carcere allargando
la forbice punizione-premio. Del resto il principio fondamentale della "differenziazione"
era già passato nella "materialità" della costruzione
- al di fuori di ogni norma di legge - del circuito carcerario speciale o di
massima sicurezza, al quale era applicato l'art. 90 della legge del 1975, che
eliminava - di fatto - i principi della riforma. Quando poi, alla fine del 1984,
era stata ridotta l'area di applicazione dell'art. 90 attraverso la mancata
proroga dei decreti attuativi (limitati a soli cinque istituti penitenziari),
la Circolare Ministeriale del 31 ottobre aveva, in sostanza, disposto che i
detenuti prima "specializzati" avrebbero continuato a essere custoditi
nelle sezioni nelle quali si trovavano, dove non sarebbero stati inseriti detenuti
prima non differenziati; inoltre, essi sarebbero stati ammessi al godimento
dei diritti previsti dalla generale normativa solo "secondo le possibilità
esistenti e valutando le situazioni concrete e, nei limiti consentiti, in particolare
il grado di pericolosità" e, in ogni caso, in completa separazione
dagli altri detenuti.
La legge Gozzini, a questo punto, sistematizza la situazione: è formalmente
previsto il carcere più duro in determinate situazioni soggettive e/o
oggettive (artt. 14 bis, 41 bis), pur non riconoscendosi ancora, sul piano formale,
l'esistenza di una differenziazione dei circuiti carcerari (i carceri di massima
sicurezza ci sono ma non si deve dire che esistono). Sul piano premiale è
previsto un aumento della liberazione anticipata,(portata da 40 a 90 giorni
per anno di buona condotta): un'estensione dell'affidamento in prova al servizio
sociale anche per le pene tra i due anni e mezzo e i tre anni, anche se parte
residua di pena maggiore, e con possibilità, nel caso di pregressa custodia
cautelare, di non rientrare in carcere; l'introduzione dei permessi premio sino
a 45 giorni all'anno; il lavoro esterno senza scorta.
L'aspetto punitivo-premiale sarà rafforzato dalla legge 203/1991; che
vieterà la concessione di pressoché tutti i benefici previsti
dalla legge Gozzini a chi è detenuto per gravi reati comuni e non è
collaboratore di giustizia.
La successiva legge 356/1992, introducendo nella Gozzini l'art 18 bis, dimostra,
sul piano della concretezza delle dinamiche processuali, come l'aula giudiziaria
diventi sempre più una succursale del carcere e come il carcere influenzi
sempre più le vicende giudiziarie: tale articolo, infatti, prevede i
colloqui investigativi, e cioè autorizza personale della Direzione Investigativa
Antimafia a svolgere colloqui riservati non verbalizzati (consentendo così
ogni tipo di trattativa). L'art. 41 bis 2° comma (aggiunto anch'esso da
tale ultima legge e ricalcante il vecchio art. 90) prevede tali e tante restrizioni
ai diritti carcerari (limitazione della socialità interna, delle visite
dei famigliari, della corrispondenza ecc), che appare legittimo il sospetto
che sia finalizzato a favorire il "pentimento" dei detenuti più
che ad attenuarne la pericolosità sociale. Il trattamento derivante dall'art.
41 bis, inoltre, lede gravemente il diritto di difesa, dal momento che l'imputato
non può essere fisicamente presente al processo, ma vi può, per
modo di dire, partecipare solo in videoconferenza dal carcere.
Una prima lettura, infine, del nuovo Regolamento (DPR 230/2000) ci fa rilevare
una interessante connessione tra carcere e mercato del lavoro "particolare"(quello
dei "non garantiti"). Se, infatti, in precedenza le lavorazioni penitenziarie
dovevano essere organizzate e gestite dalle Direzioni, ora l'art. 47 prevede
che possano essere organizzate e gestite direttamente da imprese pubbliche e
private, che avranno perfino voce in capitolo nell'adozione del provvedimento
amministrativo di esclusione dell'attività lavorativa (art. 53). E la
commistione col mondo dell'impresa (piccolo assaggio di privatizzazione?) si
estende con la possibilità di appaltare loro "servizi interni, come
quello di somministrazione del vitto, di pulizia e di manutenzione dei fabbricati"
(art. 47 n. 3).
Ancora, questo Regolamento fa un piccolo, ulteriore, passo verso la formalizzazione
dell'esistenza di diversi circuiti carcerari, prevedendo l'attuazione "in
istituti autonomi o in sezioni di istituto, (di) regimi a custodia attenuata".
Coerentemente è iniziata, nell'ultimo periodo, la classificazione dei
detenuti in AS (alta sicurezza), media sicurezza, attenuata sicurezza, con condizioni
di vita diversissime: quelli in AS fanno socialità solo sezione per sezione,
subiscono perquisizione a ogni uscita di cella, non hanno lavoro, non hanno
contatti con i detenuti di altre sezioni e/o di altra classificazione; quelli
in media sicurezza hanno la cella sempre aperta, possono circolare nella sezione,
non hanno polizia penitenziaria in sezione, spesso trovano lavoro; quelli in
attenuata sicurezza (una esigua minoranza) fanno colloqui con i familiari in
appositi spazi all'aperto, beneficiano spesso di permessi, hanno sempre possibilità
di lavoro.
La pena varia quindi, non solo nella quantità ma anche nella qualità
con un duplice effetto: la minore afflittività, oltre ad alleviare le
condizioni di segregazione, favorisce un maggior numero di benefici e, naturalmente,
viceversa.
Se si aggiunge che i criteri di assegnazione non sono noti, soprattutto per
la distinzione tra alta e media sicurezza, e che l'assegnazione è fatta
dal Ministero o dalla Direzione, è facile capire come l'arbitrio, finalizzato
a raggiungere i non dichiarati scopi dell'Amministrazione, regni sovrano. Un
capitolo a sé, poi, è rappresentato dai malati (privi di cure)e
dai malati di Aids (molti sono terminali e ciononostante detenuti) e dagli stranieri
(quasi sempre privi di soldi, di difesa, di sostegni esterni e così impossibilitati
anche ad ottenere misure alternative).
A questo punto si può conclusivamente dire che il percorso di ristrutturazione
del sistema carcerario, passato prima attraverso l'introduzione di fatto delle
carceri speciali, con anche i braccetti della morte, della fine anni 70 / primi
anni 80, poi attraverso la successiva risistemazione organica di un meccanismo
differenziante punitivo/premiale, ha portato ad una sostanziale "normalizzazione"
(rotta, però, nella primavera scorsa da una serie di iniziative di lotta
per indulto, depenalizzazioni, automatismo nell'applicazione dei benefici) del
mondo carcerario, dove tende a passare stabilmente (fatte, naturalmente le debite
eccezioni) una completa desolidarizzazione, essendo, la vita dei detenuti, tutta
incentrata - appunto - sui meccanismi individualistici del premio e della punizione.
Del resto il carcere riflette la situazione sociale generale, e, nella società,
nel suo complesso, si è assistito ad un pesante rimodellamento, anche
sul piano ideologico e dei valori-disvalori, teso a costruire, anche qui, un
soggetto individualista, competitivo, desolidarizzato. Ma, si sa (e ci dà
speranza) che non tutte le ciambelle riescono col buco.
Sul tema, resta ancora da dire che la presenza del carcere non è stata
intaccata dalle misure alternative alla detenzione, che non hanno avuto un effetto
di "sostituzione", bensì di "affiancamento" e di
allargamento, sul territorio, del controllo.
I segnali, d'altra parte, sono nel senso di un ulteriore aumento di tale diversificato
controllo: ancora più carcere, determinato dalle recenti leggi quali
il pacchetto sicurezza, che incentiva l'adozione di misure cautelari dopo la
sentenza di appello; o quali le successive leggi sull'aumento e sul diverso
computo della custodia cautelare; ancora più controllo sul territorio,
delegato, questo (sempre dal "pacchetto sicurezza"), anche alle Forze
Armate, con poteri di fermo al di fuori di ogni controllo dell'autorità
giudiziaria, e spettacolarizzato dall'introduzione del cosiddetti "braccialetti
elettronici" per gli arresti domiciliari.
In un breve scritto sul carcere, infine, non può non citarsi la realtà
dei campi di detenzione amministrativa per stranieri, che riguardano migliaia
e migliaia di persone per le quali (in una ancor più generale logica
di differenziazione) viene man mano scritto un diritto penale (o comunque attinente
i diritti di libertà) del tutto particolare, perché differenziato
sulla base dell'appartenenza etnica.
Ulteriori elementi, dunque, per costruire un quadro assai fosco, ma (evviva
la dialettica) anche segnali di movimento e perfino di qualche forma organizzata
da parte di questi stessi cittadini/non cittadini.