Un britannico racconta 22 mesi nella prigione antiterrorismo «Gli americani giravano video su torture e interrogatori umilianti». Le denunce di un ventiseienne londinese di famiglia marocchina. «Spray al peperoncino in faccia, testa nel water. Calci e pugni». «Mi tenevano per otto ore legato. E quando me la facevo addosso un'agente donna entrava e gridava: "Vergognati"».
«Avevano già perquisito me e la mia cella due volte, quel giorno, messo le mani sulla mia roba, toccato il mio Corano, esaminato tutto il mio corpo, intorno alle parti intime. E adesso volevano rifarlo, per provocarmi, ma io ho detto di no, perché, se ti sottometti a ogni cosa, ti trasformi in uno zombie. Ho sentito una guardia parlare nella sua radio, "Erf, Erf, Erf" e sapevo che stava arrivando la Extreme Reaction Force. I cinque codardi, li chiamavo io, cinque tizi che si sono precipitati dentro la mia cella con equipaggiamento antisommossa. Mi hanno spruzzato in faccia dello spray al peperoncino e ho iniziato a vomitare: in tutto devo aver tirato su cinque tazze di roba. Mi hanno inchiodato a terra e hanno iniziato ad attaccarmi cacciandomi le dita negli occhi, mi hanno spinto la testa nella tazza del water e hanno tirato l'acqua. Mi hanno legato come una bestia e poi si sono inginocchiati sopra di me, prendendomi a calci e pugni. Alla fine mi hanno trascinato fuori dalla cella in catene, nel cortile, e mi hanno rasato la barba, i capelli, le sopracciglia». Tarek Dergoul, 26 anni, britannico, nato e cresciuto nell'East End londinese e rilasciato senza imputazioni dopo 22 mesi nella prigione di Guantanamo, sta descrivendo una delle molte aggressioni che sostiene di avere subìto mentre si trovava sotto la custodia degli americani. Mentre il mondo è sotto choc per le foto degli abusi commessi ad Abu Ghraib in Iraq, la testimonianza di Dergoul suggerisce che Guantanamo possa nascondere un altro terribile segreto: la prova, sotto forma di centinaia di video girati dai secondini Usa, che anche lì la guerra dell'America contro il terrore ha portato a brutalità immorali e gratuite contro detenuti inermi. Dergoul, 26 anni, è stato rilasciato insieme a quattro altri cittadini britannici a marzo, ma era rimasto troppo traumatizzato per raccontare la sua storia - fino a ora. Ha anche rivelato la sua personale esperienza delle tecniche sperimentate dal precedente comandante di Guantanamo, il generale Geoffrey Miller, ora a capo di Abu Ghraib, per «preparare» i prigionieri agli interrogatori, tecniche che poi lo stesso Miller ha «consigliato» in Iraq durante una visita nell'autunno scorso. Umiliazioni, esposizione prolungata a caldo e freddo, privazione del sonno, catene e posizioni strazianti. Infine, la minaccia di essere «restituiti» a un Paese arabo per le torture «vere». «Gran parte della sua storia è conforme ad altri resoconti sulle carceri in Afghanistan e a Guantanamo» ha commentato John Stifton, un responsabile newyorchese di Human Rights Watch. «Dichiarazioni semplicemente false» ha ribattuto il portavoce militare Usa. Dergoul ha rivelato un modo per provare le denunce: quando si ricorreva a una «squadra Erf» tutto veniva registrato su video digitale: «C'era sempre questo tizio che filmava quello che succedeva». Il tenente colonnello Leon Sumpter, portavoce a Guantanamo, ha confermato l'esistenza dei video, che erano conservati in un archivio del campo. Ha rifiutato di dire quante volte siano state usate le squadre Erf, né ha voluto parlare del loro addestramento o della loro composizione. Magro, esile, Dergoul ha difficoltà a camminare. Per settimane gli americani hanno trascurato i suoi piedi semicongelati, finché un alluce non si è incancrenito e ha dovuto essergli amputato. Ha anche perso quasi tutto il braccio sinistro, come risultato di una ferita da schegge. È nato a Mile End (una zona di Londra, ndt) da genitori marocchini nel 1977. Molti dei suoi amici venivano dal Pakistan, dove dice di essersi recato per una vacanza nel luglio 2001: «Prima di partire non avevo mai sentito parlare di Osama Bin Laden o dei talebani. Non ero mai andato alla moschea». Quando comincia la guerra ai talebani, racconta Dergoul, con due amici pachistani decide di investire 5.000 sterline in Afghanistan: «Il piano era comprare case a basso prezzo per rivenderle alla fine della guerra». Vanno a Jalalabad. Passano la notte in una villa che volevano comprare. Mentre dormivano, racconta, una bomba uccide i suoi amici. Lui è ferito. Viene preso dall'Alleanza del Nord che lo consegna agli americani. Dergoul sostiene di essere stato comprato per cinquemila dollari (secondo Human Rights Watch è il prezzo standard per un sospetto terrorista). Finisce nella prigione della base aerea di Bagram vicino a Kabul. L'Alleanza del Nord aveva detto agli americani che aveva combattuto con Al Qaeda a Tora Bora. Allora, insiste lui, non ne aveva mai sentito parlare. Ma nel corso di 20-25 interrogatori gli dicono che se non collabora i beni della sua famiglia saranno confiscati. «Soffrivo per le ferite, faceva un freddo tremendo. Dissero che se avessi confessato sarei tornato a casa. Alla fine dichiarai di essere stato a Tora Bora - anche se non ammisi di avere incontrato Bin Laden». Da Bagram a Khandahar. Febbraio 2002. Setticemia al piede, ulteriore amputazione. Due docce in tre mesi. Primo maggio, gli fanno indossare un vestito arancione, gli iniettano un sedativo e lo portano in aereo a Guantanamo (Cuba). Passa in isolamento 12 dei 22 mesi a Camp Delta. Regime più duro del «livello 4», nessun genere di conforto, «con la sola concessione di un lenzuolo tra le undici e mezzo di sera e le cinque e mezzo del mattino». Per la prima volta si rivolge alla religione: «La mia fede mi dava la forza di resistere». Un modo in cui fece infuriare i secondini fu quello di tradurre i loro dialoghi in arabo, a vantaggio degli altri detenuti; partecipò all'organizzazione di scioperi della fame e di non-collaborazione, in cui i prigionieri rifiutavano di sottoporsi agli interrogatori o rinunciavano alle due docce settimanali e ai 15 minuti di esercizio fisico. Senza dubbio, dice Dergoul, tutto questo lo ha reso ancora di più un bersaglio per le Erf. Ma non è mai stato violento, dice e, al contrario di altri detenuti, non ha mai cercato di usare i suoi escrementi come munizioni. Come lo interrogavano? Per un mese, lo scorso anno, ogni giorno i secondini lo portavano in catene fino a una stanza, lo facevano sedere, lo incatenavano a un anello nel pavimento e lo lasciavano lì, da solo, anche per otto ore. «L'aria condizionata forte mi provocava un dolore terribile ai moncherini. Alla fine sentivo un bisogno fortissimo di urinare e tentavo di rovesciare la sedia, fino a cadere. Loro mi guardavano attraverso uno specchio finto. Non appena me l'ero fatta addosso, un'agente donna entrava urlando: "Guarda cos'hai combinato! Sei disgustoso"». Lo riportavano in cella per tre ore. Poi una guardia ricompariva e gli diceva, nello slang di Guantanamo: «Hai una prenotazione». Nuovo interrogatorio. E tutto ricominciava da capo. Dergoul descrive «il gancio corto», catene d'acciaio per tenere il soggetto rannicchiato in modo innaturale, mentre era incatenato al pavimento. «Dopo un po' , era una vera agonia. Sentivi i secondini che scherzavano, bussavano alle pareti. Era un tentativo di spezzarti». Un'altra tecnica era negare abiti puliti o lenzuola per tre settimane o dargli vestiti più piccoli di molte taglie. A volte, dice Dergoul, gli interrogatori venivano filmati. Queste esperienze l'hanno trasformato in un musulmano devoto e politicizzato. «Ora guardo all'America come a uno Stato terrorista e condanno la Gran Bretagna per aver contribuito a tutto questo. Metà della gente che ho incontrato a Cuba era stata "comprata". Se fossero stati catturati sul campo di battaglia, come sostengono gli americani, forse potrei capirlo. Ma può darsi che adesso stiano avendo il loro giusto castigo. Dopo quello che è successo ad Abu Ghraib, se io fossi negli americani avrei distrutto quei video. Lasciate che siano proiettati. Allora il mondo saprà che sto dicendo la verità».
Traduzione di Gabriela Jacomella per il Corriere della Sera