Folli
Nelle gabbie, qualcuno decide di farla finita. Per sempre. E nell'unico modo
possibile. Impiccandosi. Meglio, provando a impiccarsi. È accaduto trentadue
volte. Con ventisette dannati diversi. Perché qualcuno ha provato più
di una volta. Senza mai riuscire. È una statistica fluida, che si muove
con il passare dei mesi e il gonfiarsi della disperazione. Ma che ripropone
un identico canovaccio mortuario. Il suicida annoda uno straccio nel punto più
alto di una delle pareti della gabbia, dove il nido d'ape in acciaio della grata
si unisce al tetto in cemento pieno della cella. E dello straccio fa un cappio
all'estremità. Vi infila la testa, lasciandosi quindi trascinare verso
il basso dal peso del busto e del bacino. Il suo corpo ne resta piegato, ora
a squadra, ora con le ginocchia sospese. "In preda a convulsioni terribili
", raccontano. Perché in uno spazio così angusto quale quello
della gabbia, con altezze così ridotte, il soffocamento non è
mai definitivo. Gli arti di chi non riesce neppure a morire prendono allora
a battere in ogni direzione, governati da movimenti riflessi, nell'eccitazione
delle grida di aiuto nel braccio. Sul suo corpo cianotico restano, indelebili,
segni cerebrali e fisici. Chiedo di uno dei sopravvissuti al suicidio al di
qua del paravento che ne protegge la branda nel "Detention Hospital",
la struttura di contenzione medica che chiude il perimetro occidentale di Camp
Delta. Un tendone condizionato dall'odore di lisoformio, i pavimenti in linoleum
tirati a lucido e i colori tenui del verde, nelle cui corsie da venti letti,
novanta tra medici e infermieri cavano denti, amputano braccia e gambe, raddrizzano
ossa e spesso, tamponano malattie antiche solo per chi le ha debellate, come
la tubercolosi. Chi ha visitato l'ospedale nelle settimane precedenti il mio
arrivo, ha riferito di un uomo appeso alla vita grazie a una macchina per la
rianimazione. Alimentato con un sistema di tubi collegati chirurgicamente allo
stomaco. In uno "stato vegetativo permanente". Apparentemente irreversibile.
"Si sta riprendendo. E ne siamo molto soddisfatti", rassicura il capitano
Kelleher. "Ha ricominciato a parlare, muove anche qualche passo. Certo,
ha difficoltà a tenere in mano una tazza..." Come nei bracci, anche
qui nelle corsie dell'ospedale, chi di lui si sta prendendo cura non lo chiama
per nome. Ma con un numero. Quello della cella in cui si è appeso. E,
ogni notte, il suo corpo viene incatenato alla branda su cui riposa, come quello
di chiunque altro viene qui ricoverato. Ogni letto, una catena. Ogni catena,
un guardiano che scruta le intenzioni, le parole, le reazioni al dolore fisico,
affinché nessuno pensi di poterlo simulare. In nessun istante del giorno
e della notte. In nessuna delle corsie. Anche e soprattutto quelle dei dannati
cui si è rotto per sempre qualcosa nella testa. Gli "acuti"
(nove letti), gli "stazionari" (ventidue letti), i "ristretti"
(quattro letti), gli "isolati" (due letti), i "convalescenti"
(due letti). Deve essere lacerante per un medico, per un infermiere, avere a
che fare con corpi che non hanno un nome. Con convalescenze in catene. Con pazienti
che anche nel momento del dolore fisico si sentono apostrofare con una cifra.
"Lei davvero crede?", chiede Kelleher. "Io non trovo. Io e tutto
il mio staff siamo qui per sollevare dalla pena fisica uomini che in qualche
caso non sono mai entrati in un ospedale. Per il semplice motivo che sono cresciuti
in Paesi i cui regimi e la cui povertà lasciano morire un essere umano
piuttosto che prendersene cura. No, guardi, non credo proprio che non chiamarli
per nome sia per questi pazienti un problema... E poi, francamente, quando pure
mi capita di pormi questo problema, penso alla ragione per cui sono finiti qui".
Anche quando, evidentemente, a dover essere curata è la testa e non il
corpo. La depressione non è soltanto la molla di un desiderio di morte.
Ma il cancro silenzioso che mangia lentamente i corpi dei dannati. Abbassandone
le soglie di difesa immunitaria. Ottenebrando il livello di sorveglianza che
ogni essere umano esercita su se stesso, auscultando i propri malesseri. In
pochi mesi, lo staff di psichiatri è dunque passato da tre a trenta unità.
E i detenuti sotto osservazione sono arrivati a novanta. La terapia farmacologica
cui sono sottoposti è coperta da segreto. "Tranquillanti. Dei normalissimi
tranquillanti", ripetono genericamente all'ospedale. Ma quali e in quali
quantità vengono somministrati non è dato sapere. Né sulla
base di quale anamnesi, se è vero, come è vero, che alle oggettive
difficoltà linguistiche di comunicazione va aggiunto quel diaframma di
separazione imposta dal regolamento non solo tra secondino e detenuto, ma anche
tra medico e paziente. Il comandante Brian Grady, che guida lo staff psichiatrico,
sostiene che il male di vivere, i suoi sintomi e le sue eruzioni, siano "un'eredità
che i prigionieri si trascinano dietro, fardello di esistenze storte, non un
fungo che cresce a Guantanamo. "Esiterei a sostenere che gli effetti di
quel che riscontriamo nei nostri pazienti vadano cercati nel regime di segregazione
che regola la vita del campo. Nell'incertezza che i detenuti nutrono sul loro
futuro. Mettiamola così: non direi che queste circostanze si trasformino
necessariamente in fattori alla base di un disordine mentale". Shaha Mobamed,
pakistano, ha solo vent'anni e a Camp Delta, dove è rimasto segregato
oltre un anno, ha provato a uccidersi quattro volte. Racconta: "La mia
vita lì dentro mi provocava solo disgusto. So bene che il suicidio è
contro la lettera del Corano, ma vivere in quello stato mi era semplicemente
impossibile, intollerabile. E come per me lo era per tanti miei compagni, accusati
pur sapendo di essere innocenti". Era finito nel "braccio degli arabi",
Mohamed. "Non riuscivo a scambiare con loro neppure una parola. Non c'era
niente da fare. Non ci capivamo. Io non parlavo la loro lingua, loro non parlavano
la mia. Fu così che cominciai a sprofondare in un precipizio della mente
che si allunga per undici mesi. Trecentotrenta giorni di isolamento nell'isolamento.
"Finché un pomeriggio non presi la mia coperta e la annodai alla
gabbia. Di quel che accadde dopo non ricordo molto. So che mi risvegliai in
ospedale, mentre mi facevano un'iniezione. Non so che roba fosse. So che per
molte settimane non sono stato in grado di alzare la testa, articolare parola,
mangiare da solo". Una volta dimesso, Muhammad, nonostante le sue insistite
richieste di essere trasferito "con pakistani", sarebbe tornato nel
"braccio degli arabi". E qui, per altre tre volte, avrebbe tentato
il suicidio. E per altre tre volte sarebbe tornato nelle corsie dell'Ospedale
di contenzione. "Dove hanno continuato a darmi pillole fino al giorno del
mio rilascio". Che nei bracci la scelta di darsi la morte possa essere
anche solo la risposta disperata a un diniego percepito come intollerabile,
è un filo che annoda anche i ricordi di Rustam, ventidue anni, combattente
talebano provincia afghana meridionale di Helmand. Anche lui si è appeso
nella sua gabbia per un "inspiegabile no". "Mi avevano messo
nel blocco degli Uzbeki. Gente completamente fuori di testa. Passavano le loro
giornate a battere il capo contro le pareti delle celle. A gridare insulti alle
guardie. Sentivo che stavo impazzendo. Che non avrei retto a lungo. Cominciai
inutilmente a chiedere di essere trasferito in un altro blocco. Di poter essere
interrogato. Finché non decisi di impiccarmi. Le guardie mi soccorsero
subito. Mi liberarono e quindi mi trasferirono di blocco, dopo avermi riempito
di medicine". Del resto, se esiste un emolliente naturale che la mente
umana potrebbe ricevere, a Camp Delta, ragioni di sicurezza ne strozzano la
somministrazione. Il contatto con le famiglie, solo epistolare, è governato
dalle procedure impiombate della burocrazia del sospetto. Chi non sa scrivere
in inglese o sa che a casa nessuno è in grado di decrittare quella lingua,
può star certo che i suoi messaggi in partenza dalla baia sulle cartoline
prestampate della Croce Rossa resteranno a lungo impigliati nella rete della
censura. Dei suoi traduttori. Un "danno collaterale", per usare la
definizione di Amnesty International, che trasforma i vivi in morti. Perché
se nelle gabbie muore il ricordo delle famiglie, nelle case in cui se ne attende
un cenno muore anche il detenuto di cui non si hanno o non si riesce più
ad avere notizia.