I prigionieri incappucciati nelle gabbie di Guantanamo
Rui Ferreira*
La Repubblica, 25 gennaio 2002
Centosessanta celle, quattro torri, fari accesi tutta la notte per sorveglianza. La base americana a Cuba trasformata in carcere per i Taliban catturati in Afghanistan
Guantanamo - Nelle loro celle che assomigliano pericolosamente a gabbie per
animali, i prigionieri della guerra dell'Afghanistan confinati a Guantanamo
si trovano letteralmente alla mercé dei venti. "Se arriva un uragano
questa gente si bagnerà, si bagnerà molto", dice senza
nascondere un sorriso tra le labbra il tenente colonnello Bill Costello, portavoce
del centro di detenzione XRay, situato a mezzo miglio appena dalla frontiera
con Cuba.
Il nome dell'accampamento che ospita già 158 prigionieri è in
sé già un'ironia. Le celle misurano due metri per due e si trovano
praticamente all'aria aperta. Hanno un tetto di compensato e pavimento di
cemento, ma invece di pareti sono avvolte da due file di fil di ferro che
le danno l'aspetto di una gabbia.
Siccome non ci sono pareti, le guardie hanno una visione completa di ciò
che fanno i detenuti, come se si trattasse, per l'appunto, di una macchina
a raggi X. "È una collocazione provvisoria finché non sarà
terminata la prigione che dobbiamo costruire", spiega Costello. Il problema
è che non c'è una data in vista per il completamento di questa
costruzione, che d'altronde non è stata nemmeno iniziata. Una volta
cominciati i lavori, le prime 300 unità non sarebbero pronti prima
di 55 giorni.
La Base Navale di Guantanamo, sulla costa sud-occidentale di Cuba, è
sotto amministrazione statunitense dal 1903. Quando arrivò al potere
nel 1959, Fidel Castro denunciò l'accordo, bloccò l'accesso
alla base, tagliò la fornitura di acqua potabile e la circondò
di mine e di una recinzione rafforzata. Da allora, il recupero della base
è diventata nel discorso ufficiale cubano una questione di sovranità.
I militari non potrebbero aver scelto un posto migliore per costruire il campo
XRay. Vicino alla frontiera con Cuba si trova la zona più arida e asciutta
di tutta la base. Lì la temperatura a metà della mattina raggiunge
facilmente i 40 gradi centigradi. La brezza c'è appena.
Ci sono 160 celle, una baracca per la polizia militare che li guarda, quattro
torri di controllo, una piccola infermeria da campo, circa 30 latrine portatili
e due recinzioni attorno a tutto il perimetro. La sera, vengono accese 16
potenti fasci di luce che non sono spenti per tutta la notte. Sono tanto forti
che danno l'idea che il sole non tramonti mai nell'accampamento XRay.
"Le guardie devono avere una visione totale e assoluta di quello che
fanno i detenuti", dice il colonnello Terry Caricco, capo dell'accampamento.
I militari autorizzano la stampa ad avvicinarsi a circa 200 metri dal posto
e controllano costantemente i loro movimenti all'interno della base, l'uso
di binocoli è indispensabile per vederli. Le regole per i giornalisti
sono così severe che ai fotografi è vietato usare obiettivi
che superino i 200 millimetri. È perché non si possa identificarli,
secondo la spiegazione dei portavoce militari. Lo stesso succede con l'arrivo
alla base da Kandahar. La stampa può assistere allo sbarco da una collina
adiacente alla pista principale dell'aeroporto, ma non si può fotografare
in maniera assoluta. Di fatto, le uniche fotografie dei prigionieri che scendono
dagli aerei è possibile scattarle grazie a Fidel Castro, che ha dato
accesso alla stampa internazionale a un osservatorio dalla parte cubana in
una collina adiacente alla pista. I portavoce dei militari ammettono in privato
che è una situazione ridicola, ma spiegano che il comandante della
base, il generale Michael Lehnert, ha deciso che non si possono fotografare
gli arrivi. E gli ordini sono ordini.
Sabato scorso, il C141 della forza aerea ha toccato terra nell'aeroporto della
base alle 2.09 del pomeriggio. Cinque minuti più tardi si è
fermato davanti a un gruppo di ufficiali della base e di personale di terra
all'inizio di una delle piste. Con i motori ancora accesi, quattro camionette
con a bordo fanti di marina armati di mitragliette di grosso calibro hanno
circondato il velivolo, mentre attorno si spiegavano circa 30 agenti antisommossa,
armati da caschi con la visiera di plastica, scudi e manganelli elettrici.
Una immensa struttura metallica di colore blu, con tazze e lavelli rudimentali,
è stato ciò che è sceso per primo dall'enorme pancia
dell'aereo. "Sono bagni portatili", ha detto Costello. "Nei
voli normali hanno le porte, ma le hanno tolte per questo viaggio".
I prigionieri sono scesi 25 minuti più tardi, uno a uno, scortati da
due uomini della polizia militare con casco e guanti di gomma gialli. Ma hanno
potuto appena vedere, sentire o annusare l'ambiente nel quale si trovavano,
giacché sono arrivati con occhi bendati, con tappi nelle orecchie,
una maschera che copriva loro il naso e la bocca e quello che sembra essere
un pesante cappotto di colore blu sopra la solita tuta arancione dei prigionieri
negli Stati Uniti. Inoltre calzavano pesanti guanti e semplici scarpe di tela
con suola di plastica, anche queste di colore arancione, e calze blu. Erano
tutti ammanettati piedi e mani alla cintura.
Quando arrivano all'accampamento, i prigionieri sono sottomessi a un controllo
che dura circa due ore, durante le quali restano rannicchiati come sono arrivati,
vale a dire ammanettati, con gli occhi bendati e le orecchie tappate. Passano
un controllo medico, gli si scatta una foto, si prendono le impronte digitali
e li si consegna gli unici oggetti personali che hanno il permesso di tenere
con sé.
Se sono arrivati con la tuta arancione, made in Messico, gli consegnano anche
un paio di ciabatte fabbricate nella Repubblica Popolare Cinese, due secchi
americani, tre asciugamani di provenienza sconosciuta, un dentifricio, una
spazzola senza manico per evitare che questo possa servire da arma offensiva,
una saponetta e uno shampoo.
Questo ultimo articolo richiama l'attenzione. Prima di lasciare l'Afghanistan,
i militari hanno tagliato loro la barba e rapato la testa, il che rende lo
shampoo un articolo superfluo all'interno delle piccole celle. Ma il generale
non si è scomposto quando gli si è fatto notare l'incongruenza.
"Stiamo valutando se permettere loro di lasciarsi crescere la barba e
i capelli", dice. Il taglio dei capelli è stata fatto soltanto
per motivi igienici, ma una volta nella base potrebbe non essere motivato,
ha aggiunto. "Per noi la barba non è un problema. Nelle forze
armate abbiamo molti bravi soldati musulmani per i quali abbiamo stabilito
delle norme per l'uso della barba che la loro religione esige e non abbiamo
avuto problemi", ha tenuto a precisare Lehnert. Tuttavia, non hanno ancora
deciso come procedere quanto ai riti religiosi. Per il momento, su una delle
torri è stato collocato un cartello che indica ai reclusi la direzione
verso cui devono girarsi per pregare cinque volte al giorno verso la Mecca.
Ma contrariamente a quanto promesso non è stato ancora consegnato loro
il Corano. Secondo una fonte che conosce bene il problema, sembra che nessuno
a Washington abbia deciso ancora quale delle cinque versioni conosciute del
Corano è adatta ai prigionieri della base navale di Guantanamo. Martedì
è arrivato qui un cappellano musulmano della marina, ma in principio
aiuterà soltanto le guardie a gestire i prigionieri. Non è chiaro
se avrà un contatto diretto con loro.
I prigionieri ricevono tre pasti al giorno, almeno uno di questi caldo, confezionati
secondo i precetti religiosi musulmani. Passano la giornata quasi sempre sdraiati,
quando vogliono recarsi alle latrine o alle docce devono chiedere permesso
e sono scortati da due soldati. Il portavoce della base non ha voluto confermare
se restano ammanettati anche quando fanno la doccia. "Questo riguarda
la sicurezza e non posso fare commenti in proposito", ha detto. La proporzione
tra le donne e gli uomini soldato che stanno a guardia dei prigionieri è
di uno a dieci. I soldati tentano di evitare il contato visivo con il prigioniero.
Anche quando gli parlano non lo guardano negli occhi. Ma alcune volte è
impossibile evitarlo. E quello che incontrano fa raggelare il sangue. "Fa
spavento. Soltanto pensare che vogliono uscire dalle celle e sgozzarci, è
veramente terribile", dice la soldatessa Jodi Smith di 22 anni.
Le donne non hanno avuto alcun addestramento particolare a causa della loro
condizione, ma una fonte militare ha detto che devono riferire ogni incidente
con i prigionieri di natura sessuale. "Chiaramente, in casi d'insulti
o aggressioni riceveranno una risposta adeguata, la stessa che se lo facessero
a un uomo", ha riferito la fonte.
Una delle soldatesse ha detto durante un incontro con i giornalisti che questa
settimana uno dei prigionieri ha fatto un gesto di resistenza quando lei ha
dovuto condurlo alle latrine.
"Non ha ottenuto molto. Il mio collega lo ha afferrato con più
fermezza e mi ha detto di fare loro stesso. Lo abbiamo portato in due. Se
non gli è piaciuto, a me non importa", ha spiegato.
In generale, le guardie e i prigionieri hanno un rapporto molto freddo e distante.
È un comunicare in tono di comando, con un linguaggio che non ammette
discussioni, spiega il tenente Angel Lugo, responsabile dell'unità
medica del campo.
"Non possono scambiare alcuna parola, né dire loro dove si trovano",
ha aggiunto l'ufficiale, originario di Porto Rico. Tuttavia, i prigionieri
non lo ignorano del tutto. Quando sono arrivati a Guantanamo, le autorità
hanno permesso loro di spedire una cartolina ai familiari, indicando che si
trovavano in una base navale degli Stati Uniti nella baia di Guantanamo. "Se
sanno o no dove si trova Cuba, non lo so, né m'importa", dice
Costello.
* Rui Ferreira, giornalista del Miami Herald, ha scritto questo reportage in esclusiva per Repubblica - Traduzione di Guiomar Parada