Modello Guantanamo
Judith Butler
La Rivista del manifesto, gennaio 2003
Judith Butler è una delle figure di maggiore spicco nel panorama
internazionale della teoria femminista, e se non la più importante
certo la più discussa filosofa femminista statunitense. Docente all'università
di Berkeley in California e frequentatrice di Women's Studies europei, ha
pubblicato nell'87 il suo primo libro (Subjects of Desire) e nel '90 il secondo,
Gender Trouble, testo cruciale per la messa a fuoco delle categorie del sesso,
del genere e dell'identità, accolto come un manifesto del lesbismo
e della queer theory e tuttora testo cult nei campus americani. Del '93 è
Bodies that Matter, tradotto da Feltrinelli nel '95 col titolo Corpi che contano
e con una introduzione di Adriana Cavarero, del '97 The Psychic Life of Power.
Filosofa di talento e di solida formazione classica, Butler appartiene a quella
stagione post-strutturalista che si caratterizza non solo per il suo debito
nei confronti dei pensatori della crisi del soggetto (Nietszche, Freud, Foucault,
Lacan, Derrida, Deleuze), ma anche per uno stile del pensiero che intreccia
e interroga la filosofia con la psicoanalisi, la linguistica, la critica testuale.
Femminista dichiarata, Butler appartiene a quella generazione del femminismo
americano costitutivamente attraversata e tormentata dalle differenze sociali,
etniche e sessuali fra donne e dalla frammentazione dell'identità che
ne consegue. Decostruzione della categoria dell'identità, analisi della
costituzione del corpo sul confine fra materialità e linguaggio, critica
del paradigma normativo eterosessuale e dei dispositivi di inclusione/esclusione,
accettazione/abiezione che esso comporta, critica del potere e del biopotere
sono gli assi principali del suo lavoro, che sul piano politico sfocia in
una strategia di radicalità democratica basata sulla destabilizzazione
e lo shifting delle identità. Sia pure latenti, questi assi sono riconoscibili
anche fra le righe del testo che qui proponiamo, un atto d'accusa feroce del
passaggio di sovranità che negli Stati Uniti si va producendo all'ombra
dell'emergenza antiterrorista: fine della divisione dei poteri, progressivo
svincolamento del potere politico dalla soggezione alla legge, crollo dello
Stato di diritto con le relative conseguenze sul piano del diritto penale
(demolizione delle garanzie processuali) e del diritto internazionale (violazione
di trattati e convenzioni). Non a caso infatti il ragionamento di Butler si
sviluppa a partire dal caso dei detenuti di Guantanamo, che non è solo
emblematico del rapporto fra detenzione indefinita e guerra infinita, ma è
anche paradigmatico di quel dispositivo simbolico di abiezione dei "corpi
che non contano", che nelle società occidentali ordina gerarchicamente
le differenze etniche e sociali, penetrando le esistenze individuali, le identità
collettive nonché le categorie politiche apparentemente più
garanti dell'universalismo dei valori e dei diritti. Fino alla generalissima
categoria dell'umano, fondativa dei diritti fondamentali, dalla quale 'gli
animali' in gabbia di Guantanamo risultano di fatto esclusi, anzi, per l'appunto,
abietti.
Il testo è stato pronunciato da Judith Butler l'estate scorsa in una
conferenza presso l'Università di Utrecht; ringrazio Rosi Braidotti
per avermelo segnalato.
Ida Dominijanni
Il 21 marzo di quest'anno il Dipartimento della Difesa, d'intesa col Dipartimento
della Giustizia, ha emanato nuove direttive per i tribunali militari dinanzi
ai quali sarebbero stati processati dagli Stati Uniti alcuni dei presunti
terroristi detenuti e dei prigionieri catturati, nel paese e a Guantanamo
Bay. Ciò che sin dall'inizio è stato sorprendente in questi
arresti, e continua a essere motivo di allarme, è che alla maggior
parte dei detenuti non sono stati garantiti l'assistenza legale e nemmeno
il diritto a un processo. I nuovi tribunali militari sono in effetti una cosa
diversa dalle corti di giustizia alle quali i detenuti hanno diritto. Alcuni
di loro verranno processati, altri no, e nessuno lo è stato ancora
al momento in cui scrivo. Il diritto all'assistenza legale, all'appello e
al rimpatrio, sancito dalla Convenzione di Ginevra, non è stato garantito
a nessuno dei detenuti di Guantanamo, e sebbene gli Stati Uniti abbiano dichiarato
di considerare i Talebani 'coperti' dall'accordo di Ginevra, è ormai
chiaro che anche i Talebani non godono dello status di prigionieri di guerra;
anzi, nessuno dei prigionieri di Guantanamo ne usufruisce.
In nome di un allarme dettato da ragioni di sicurezza e dall'emergenza nazionale,
siamo davanti ad una vera sospensione del diritto nelle sue forme nazionali
e internazionali. E insieme con la sospensione del diritto emerge un nuovo
modo di esercitare la sovranità dello Stato, che si realizza al di
fuori della legge e attraverso una elaborazione delle burocrazie amministrative,
per cui i funzionari ora non solo decidono chi verrà processato e chi
verrà detenuto, ma si arrogano il potere definitivo di decidere sulla
possibilità di detenere qualcuno a tempo indeterminato.
È estremamente importante porsi alcuni interrogativi: in quali condizioni
gli uomini cessano di essere titolari dei diritti umani fondamentali, se non
universali? Come interpreta il governo degli Stati Uniti queste condizioni?
E in quale misura siamo in presenza di una lente razziale ed etnica attraverso
la quale si guardano e si giudicano queste vite imprigionate, in maniera tale
che le si considera meno che umane o comunque deviate rispetto alla comunità
umana riconosciuta? Affermando che alcuni prigionieri saranno detenuti indefinitamente,
lo Stato si arroga il potere, prolungato all'infinito, di esprimere un giudizio
su chi è pericoloso e non è titolare dei diritti fondamentali
riconosciuti dalla legge. Tenendo indefinitamente in stato di detenzione alcuni
prigionieri, lo Stato si attribuisce un potere sovrano definibile solo oltre
e contro gli ambiti esistenti: civile, militare e internazionale. I tribunali
militari possono prosciogliere qualcuno da un reato; tuttavia non solo il
proscioglimento è soggetto a riesame amministrativo obbligatorio, ma
il Dipartimento della Difesa ha anche chiarito che esso non necessariamente
mette fine alla detenzione. Inoltre, secondo le disposizioni del nuovo tribunale,
chi rientra sotto la sua competenza non può avvalersi del diritto di
appello presso le corti civili degli Stati Uniti. È evidente, dunque,
che la legge stessa è o sospesa o considerata uno strumento che lo
Stato può usare allo scopo di tenere sotto controllo e sorveglianza
una certa parte di popolazione. Lo Stato non è soggetto alla norma
giuridica, e la legge può essere sospesa o usata in modo strumentale
e non imparziale per rispondere alle esigenze di uno Stato sovrano, che agisce
nel nome dell'autoconservazione e, in nome dello stesso principio, estende
il proprio potere.
Emergenza indefinita Lo Stato accresce il proprio potere in almeno due modi.
Nel contesto dei tribunali militari, i processi sono in realtà strutture
consultive per l'esecutivo, poiché è proprio l'esecutivo che
non solo decide se un 'detenuto' deve subire o no un processo, ma designa
il tribunale, sottopone a revisione il processo e ha l'ultima parola in materia
di colpevolezza e innocenza e della pena da comminare, se dovuta. Non esiste
alcuna parvenza di separazione dei poteri in simili circostanze, perché
questi processi non sono un diritto per i detenuti, che viceversa sono esposti
alla volontà (ad libitum) del potere esecutivo. I casi che riguardano
i detenuti a tempo indeterminato sono riesaminati periodicamente da funzionari,
non dalle corti. Questi atti non hanno fondamento nella legge, ma in un'altra
forma di provvedimento. In questo senso sono già fuori dalla sfera
giuridica, dato che la decisione, ad esempio, sul quando e sul dove si può
fare a meno di un processo e considerare infinita una detenzione non ha luogo
all'interno di una procedura legale; non è una decisione presa da un
giudice, per ottenere la quale bisogna esibire prove, né una tesi che
si dimostra rispettando procedure definite o attenendosi a protocolli precisi
di prove e argomentazioni. Si tratta invece di provvedimenti unilaterali emanati
da funzionari, funzionari di governo, che suppongono, puramente e semplicemente,
che un certo individuo o, per meglio dire, un gruppo costituisca un pericolo
per lo Stato. Questa 'supposizione' si verifica nel contesto di una situazione
di emergenza che, si sottintende, giustifica la sospensione della legge, incluso
il processo dovuto a questi individui. Ma se la detenzione può essere
infinita, e tali detenzioni si giustificano presumibilmente sulla base di
una situazione di emergenza, allora il governo immagina una situazione di
emergenza protratta nel tempo, se non indefinita. La detenzione 'indefinita'
del prigioniero non sottoposto a processo - o del prigioniero processato dal
tribunale militare e detenuto, a prescindere dall'esito - è una pratica
che presuppone il prolungamento indefinito della guerra al terrorismo. E se
questa 'guerra' diventa una parte permanente dell'apparato statale, una condizione
che giustifica ed estende l'uso dei tribunali militari, allora l'esecutivo
configura una propria funzione giudiziaria, tale da calpestare la separazione
dei poteri, il principio dell'habeas corpus (per i prigionieri di Guantanamo
Bay) e il diritto a un giusto processo.
Questi prigionieri sono detenuti, a tempo indeterminato; essi però
non vengono chiamati 'prigionieri', perché se così fosse, entrerebbero
in gioco i diritti propri dei prigionieri. Sono detainees, detenuti in attesa
di incerti giudizi, e per loro l'attesa può non aver mai fine. Fino
a quando lo Stato decide che questa situazione pre-legale sia 'indefinita',
afferma che ci sono individui trattenuti dal governo per i quali la legge
non si applica, non solo nel presente, ma anche per un futuro indefinito.
In altre parole, ci sono individui per i quali la tutela della legge è
indefinitamente rimandata. Lo Stato, in nome del suo diritto di proteggere
se stesso e, dunque, in nome della sua sovranità, estende il proprio
potere aldilà della legge; perché, se la detenzione è
indefinita, allora lo è anche l'esercizio illegittimo della sovranità
dello Stato. In questo senso, la detenzione indefinita fornisce la condizione
per l'esercizio indefinito del potere statale extra-legale. Anche se la giustificazione
della mancata celebrazione dei processi, e della concomitante assenza del
diritto a un giusto processo, all'assistenza legale, al diritto di appello
e così via, è che siamo in una situazione di emergenza nazionale,
una situazione che si considera fuori dall'ordinario, tuttavia dalla pratica
della detenzione indefinita discende che anche questo potere extra-legale
dello Stato si prolungherà a tempo illimitato. Si tratta dunque non
già di una circostanza eccezionale, ma di uno strumento attraverso
il quale l'esercizio extra-legale del potere dello Stato giustifica se stesso
più o meno indefinitamente, ponendosi come fattore più o meno
permanente della vita politica degli Stati Uniti.
Prove e processi I tribunali militari si usano non solo per coloro i quali
sono stati arrestati all'interno degli Stati Uniti, ma anche per gli alti
gradi dell'organizzazione attualmente detenuti a Guantanamo Bay. Il "Washington
Post" ha riferito che "c'è poco spazio per l'utilizzazione
dei tribunali perché la grande maggioranza dei 300 prigionieri trattenuti
presso la base navale americana di Guantanamo Bay, a Cuba, è costituita
da manovalanza. I funzionari dell'amministrazione hanno altri progetti per
molti dei prigionieri subalterni attualmente a Guantanamo Bay: detenzione
indefinita senza processo. I funzionari americani intraprenderebbero questo
tipo di azione nei confronti dei prigionieri che a loro avviso potrebbero
rappresentare un pericolo di terrorismo anche se non hanno prove di reati
compiuti in passato".
"Potrebbero rappresentare un rischio di terrorismo." Questo significa
che alla base di una detenzione indefinita senza processo c'è una congettura.
Si potrebbe semplicemente rispondere a questi fatti dicendo che qualunque
detenuto merita un processo, e credo che questa sia la cosa giusta da dire,
e la dico. Ma non sarebbe sufficiente: dobbiamo considerare quale senso avrebbe
un processo nei casi in cui un fermato fosse processato presso questi nuovi
tribunali militari.
A quale genere di processo ha diritto un qualunque individuo? In questi nuovi
tribunali i criteri probatori sono molto vaghi. Di fatto notizie indirette
o un semplice 'sentito dire' avranno il valore di prove rilevanti, mentre
sarebbero respinti nei processi regolari, tanto nel sistema delle corti civili
quanto in quello delle corti militari regolarmente costituite. E se è
vero che i processi sono generalmente la sede in cui possiamo verificare se
un 'sentito dire' risponde o no a verità, in cui le notizie indirette
devono essere documentate da prove persuasive oppure respinte, allora il più
profondo significato del processo è stato stravolto dall'idea di una
procedura che ammette esplicitamente affermazioni non comprovate, e in cui
le affermazioni che sono ammissibili non possono essere valutate in termini
di equanimità e con i metodi non coercitivi usati negli interrogatori
per raccogliere le informazioni.
Il Dipartimento della Difesa dice esplicitamente che questi processi vengono
predisposti "solo per individui che operano a livelli relativamente alti
tra i Talebani o in Al Qaeda, contro i quali esistono prove convincenti di
terrorismo o di crimini di guerra" (21 marzo 2002). Se i processi sono
riservati ai capi contro i quali esistono prove convincenti, questo vuol dire
o che i fermati di livello relativamente basso sono coloro a carico dei quali
non esistono prove convincenti o che, anche se ci sono prove contro di loro,
non hanno diritto di conoscere il capo di imputazione, di preparare una tesi
difensiva o di ottenere il rilascio o la sentenza attraverso le normali procedure
di un tribunale. Dato che la nozione di 'prova convincente' è stata
di fatto riscritta fino a includere prove ritenute convenzionalmente non convincenti,
come il 'sentito dire' e le notizie indirette, e dato che esiste una possibilità
che gli Stati Uniti ritengano che un tribunale militare nuovo non troverebbe
alcuna prova convincente contro i membri di quell'organizzazione, gli Stati
Uniti ammettono in effetti che né il 'sentito dire' né le informazioni
indirette avrebbero valore di prova per condannare i militanti di basso grado.
Dato inoltre che si pensa che sia stata l'Alleanza del Nord a cedere i fermati
Talebani e di Al Qaeda alle autorità degli Stati Uniti, sarebbe importante
sapere se quell'organizzazione ha avuto fondati motivi per identificare gli
individui detenuti, prima che gli Stati Uniti decidessero di fermarli a tempo
indeterminato. Se manca questa prova, allora ci si potrebbe chiedere addirittura
perché siano detenuti. E se c'è la prova, ma a questi individui
non si permette di andare al processo, ci si potrebbe a buona ragione chiedere
quale valore venga attribuito a queste vite, visto che si opera come se fossero
escluse da quel paniere di garanzie previsto dalle leggi vigenti negli Stati
Uniti e dalla legge internazionale sui diritti umani.
Un equivoco dell'umano Il Dipartimento della Difesa ha diffuso foto di prigionieri
incatenati e in ginocchio, con le manette ai polsi, la bocca coperta da maschere
chirurgiche e gli occhi nascosti da occhialoni scuri. Stando a quanto si dice,
a ognuno sono stati somministrati sedativi ed è stata rasata la testa;
le celle in cui sono detenuti misurano circa m. 2,44 per 2,44 per m. 2,16
di altezza, sono più ampie delle loro coperture e, come riferisce Amnesty
International nell'aprile 2002, notevolmente più piccole di quanto
consenta la legge internazionale. C'è da chiedersi se la lamiera chiamata
'tetto' riesca ad assolvere a una qualche funzione di protezione contro il
vento e la pioggia. Le fotografie hanno suscitato una protesta internazionale
perché quella degradazione - e la pubblicizzazione della degradazione
- contravviene alla Convenzione di Ginevra, come ha osservato la Croce Rossa,
e perché questi individui sono raffigurati senza volto e in una situazione
di completa abiezione, come se fossero animali in gabbia. Lo stesso linguaggio
usato dal segretario Rumsfeld durante le conferenze stampa sembra confermare
l'idea che i detenuti non sono come gli altri esseri umani che entrano in
guerra, ma sono, per questo aspetto, non 'punibili' dalla legge, ma meritevoli
di un'incarcerazione eseguita con la forza, immediata e prolungata. Quando
gli chiesero perché quegli uomini venissero imprigionati con la forza
e trattenuti senza processo, il segretario Rumsfeld spiegò che, se
non fossero stati imprigionati, avrebbero ucciso ancora. Insinuava che la
detenzione è la sola cosa che impedisce loro di uccidere, che si tratta
di esseri la cui sola inclinazione è uccidere: lo fanno come una cosa
naturale. Sono pure e semplici macchine assassine? Se è così,
non sono esseri umani, che devono essere imprigionati, che hanno diritto a
un processo, alle dovute procedure, a conoscere e a comprendere i capi di
imputazione. Sono meno che creature umane. Rappresentano, per così
dire, un equivoco dell'umano, che fornisce la base allo scetticismo sull'applicabilità
della tutela e delle garanzie legali.
Nella conferenza stampa del 21 marzo, il consulente generale del Dipartimento
della Difesa, Haynes, risponde alla domanda di un giornalista in un modo che
conferma come questo equivoco sia ben vivo e operante nella loro mente. Il
pericolo che questi prigionieri rappresenterebbero sarebbe diverso dai pericoli
che si potrebbero provare in una corte di giustizia e risarcire attraverso
una pena. Un giornalista, preoccupato per il tribunale militare, chiede se
un individuo che venisse assolto da questo tribunale sarebbe rilasciato. Haynes
risponde: "Se si tenesse un processo proprio in questo momento, si può
pensare che qualcuno potrebbe uscirne assolto, ma non potrebbe essere rilasciato
automaticamente. Le persone che sono detenute a Guantanamo Bay, a Cuba, sono
combattenti nemici che abbiamo catturato sul campo di battaglia mentre cercavano
di nuocere ai soldati americani o alleati, e sono persone pericolose. Per
il momento, non abbiamo intenzione di rilasciarne nessuno, a meno che non
scopriamo che non rispondono a quei criteri. Una volta o l'altra in futuro...".
Il giornalista a questo punto interrompe, dicendo: "Ma se non potete
condannarli, se non riuscite a provarne la colpevolezza, perché continuate
con il ritornello "pensiamo che siate pericolosi anche se non possiamo
imprigionarvi", perché continuate a metterli in carcere?"
E dopo qualche scambio di battute, Haynes va al microfono e spiega che "le
persone che tratteniamo a Guantanamo sono trattenute per un motivo preciso
che non è legato a nessun crimine particolare. Essi non sono trattenuti
sulla base del fatto che sono necessariamente criminali". Non saranno
rilasciati, a meno che gli Stati Uniti scoprano che "non rispondono a
quei criteri", ma non è chiaro di quali criteri Haynes stia parlando.
D'altra parte, se è il nuovo tribunale militare che stabilisce i criteri,
quel tribunale non garantisce il rilascio del prigioniero, anche qualora lo
assolva. La ragione di questo sta nel fatto che del prigioniero si può
supporre che sia pericoloso, ma non ci vengono forniti i criteri in base ai
quali quel convincimento si forma. Stabilire la pericolosità non è
come stabilire la colpevolezza e, a modo di vedere di Haynes, in seguito confermato
dai portavoce dell'amministrazione, il potere dell'esecutivo di giudicare
pericoloso un detenuto vanifica qualsiasi decisione di colpevolezza o innocenza
presa da un tribunale militare.
Sulla scia di questo approccio altamente qualificato ai nuovi tribunali militari,
noi pensiamo che questi sono tribunali le cui norme probatorie si allontanano
in modo radicale sia dalle norme procedurali delle corti civili sia dai protocolli
delle corti militari, che esse vengono usate contro alcuni detenuti, che l'Ufficio
del Presidente decide chi ha i requisiti necessari per questi tribunali militari
secondari, e che in materia di colpevolezza o innocenza l'esecutivo ha l'ultima
parola. Se un tribunale militare assolve una persona, la persona può
ancora essere considerata pericolosa, il che vuol dire che la decisione del
tribunale può essere vanificata da un giudizio extra-legale di pericolosità.
Dato che il tribunale militare è esso stesso extra-legale, ci troviamo
di fronte, a quanto pare, alla replica del principio della prerogativa dello
Stato sovrano che non conosce confini. A ogni passo del percorso, l'esecutivo
decide la composizione del tribunale, designa i suoi membri, stabilisce se
chi deve essere processato ne ha diritto, si assume il potere sul verdetto
finale; ad alcuni impone il processo e ad altri no; fa a meno della procedura
probatoria convenzionale. E giustifica tutto ciò ricorrendo a una decisione
di 'pericolosità' che esso solo è in condizione di prendere.
Un certo livello di pericolosità porta un essere umano fuori dai confini
della legge, e persino fuori dai confini dello stesso tribunale militare,
riduce quell'essere umano a una proprietà dello Stato, lo mette in
una condizione per cui può essere trattenuto all'infinito. Ciò
che vale come 'pericoloso' è ciò che è considerato pericoloso
dallo Stato, cosicché, ancora una volta, lo Stato postula che cosa
è pericoloso, e nel farlo stabilisce le condizioni per vanificare e
usurpare la legge, idea di legge che è già stata usurpata da
un tragico facsimile di processo.
Se gli individui sono puramente e semplicemente considerati pericolosi, allora
non si tratta più di decidere se siano stati commessi atti criminosi.
In effetti 'supporre' qualcuno pericoloso è un giudizio campato in
aria che, in questi casi, opera per vanificare quelle decisioni per le quali
sono richieste prove. La licenza di stigmatizzare e categorizzare e di trattenere
sulla base del semplice sospetto, che si esprime in questa operazione del
'supporre', è potenzialmente enorme. Abbiamo già visto come
opera nelle questioni razziali, nella detenzione di centinaia di arabi residenti
o di cittadini arabo-americani, talvolta sulla sola base del cognome; si verificano
attacchi a individui del Medio Oriente per le strade degli Stati Uniti, e
si designano come bersagli i professori nelle università.
In realtà, quando Rumsfeld ha gettato nel panico periodicamente o ha
'allertato' gli Stati Uniti, non ha detto alla popolazione cosa cercare, ma
solo di aumentare il livello di sorveglianza rispetto ad attività sospette.
Questo panico privo di un oggetto si trasforma troppo rapidamente in sospetto
nei confronti di tutte le persone con la pelle scura, specialmente quelle
che sono arabe o sembrano tali a una popolazione non sempre abituata a distinguere,
per esempio, tra sikh e musulmani o sefarditi o ebrei arabi e pakistani-americani.
Una popolazione di persone islamiche, o ritenute islamiche, viene designata
come bersaglio da questo mandato del governo di stare su alti livelli di allerta,
con il risultato che la popolazione araba degli Stati Uniti viene visivamente
accerchiata, fissata, sorvegliata, braccata e controllata da un gruppo di
cittadini che si vedono nel ruolo di soldati di fanteria nella guerra contro
il terrorismo. Quale genere di cultura pubblica stiamo creando se fuori dalle
prigioni, sulla metropolitana, negli aerei, per strada, sul posto di lavoro
si attua un certo 'contenimento indefinito'?
Animali fuori controllo Se una persona o una popolazione vengono ritenute
pericolose, e non è necessario mostrare o provare alcun atto pericoloso
per stabilire che questo è vero, lo Stato stabilisce unilateralmente
la popolazione detenuta, sottraendola alla giurisdizione della legge, privandola
delle tutele legali a cui i soggetti sottoposti alla legge nazionale e internazionale
hanno diritto. Sono popolazioni che non sono soggetti, esseri umani che non
vengono concepiti come tali all'interno di un quadro di cultura politica,
in cui la vita umana è sostenuta da diritti legali, leggi, e dunque
esseri umani che non sono umani.
Abbiamo visto la prova di questa assenza di riconoscimento dell'essere umano
nelle foto diffuse dal Dipartimento della Difesa che ritraggono i corpi incatenati
di Guantanamo. Il Dipartimento della Difesa non le ha tenute nascoste, anzi
le ha rese di pubblico dominio senza problemi. La mia ipotesi è che
abbiano interpretato queste fotografie come l'espressione di una vittoria,
il ribaltamento dell'umiliazione nazionale, il segno di una difesa ben riuscita
della propria reputazione. La reazione internazionale è stata imbarazzata:
invece di una sorta di trionfo morale, molti, tra i quali vari parlamentari
inglesi e attivisti europei dei diritti umani, vi hanno visto un fallimento
morale. Invece di un'operazione di difesa, molti hanno visto vendetta, crudeltà
e un disprezzo nazionalista e compiaciuto delle convenzioni internazionali.
E parecchi paesi hanno chiesto che i loro cittadini venissero rimandati in
patria per essere processati.
Ma c'è qualcos'altro in questa degradazione che richiede un'attenta
lettura. C'è una riduzione di esseri umani allo stato animale, quello
in cui ci si rappresenta l'animale fuori controllo, ed è perciò
necessario privarlo totalmente della libertà. Il linguaggio che gli
Stati Uniti usano per descriverli indica che queste persone sono eccezionali,
che non possono minimamente essere individui, che bisogna imprigionarle perché
non uccidano, che sono realmente riducibili a una brama di uccidere e che
i normali codici penali e internazionali non sono applicabili a esseri simili.
Il modo di trattare questi prigionieri è considerato un'estensione
della guerra stessa, non un problema post-bellico che attiene a processi e
pene appropriati. La detenzione mette fine ai loro crimini. Se non fossero
detenuti, e con la forza quando è necessario, certamente comincerebbero
a uccidere; sono esseri in guerra permanente e perpetua. Ora è possibile
che esponenti di spicco di Al Qaeda parlino in questo modo - Moussaui lo fa
-, ma questo non vuol dire che ogni detenuto incarni quella posizione o che
abbia l'obiettivo esclusivo di proseguire la guerra. Notizie provenienti anche
dalla squadra investigativa di Guantanamo rivelano che alcuni detenuti erano
coinvolti nello sforzo bellico solo marginalmente e transitoriamente. Ma lo
stesso generale Dunlavey, che fa queste ammissioni, sostiene che il rischio
è ancora troppo alto per pensare di rilasciarli. E Rumsfeld cita a
supporto della detenzione forzata le ribellioni nelle prigioni afghane, durante
le quali i prigionieri hanno cercato di impadronirsi delle armi e di dare
vita a una battaglia all'interno del carcere. In questo senso, la guerra non
è, e non può essere, finita; esiste la possibilità di
guerra nelle prigioni, e c'è una giustificazione per la costrizione
fisica, cosicché la prigione post-bellica diventa la prosecuzione del
luogo medesimo della guerra. Sembrerebbero in campo le norme che regolano
i combattimenti, non le norme che regolano il modo più appropriato
di trattare i prigionieri separati dalla guerra stessa. In realtà,
se si tratta di una guerra contro il terrorismo, come può finire?
Quando al consulente generale Haynes fu chiesto: "Potete davvero tenere
prigionieri questi uomini per anni senza formulare un'accusa, solo per tenerli
lontani dalla strada, anche se non li accusate di niente?", rispose:
"È nostro pieno diritto, e non credo che qualcuno metta in discussione
la nostra facoltà di tenere prigionieri dei combattenti nemici per
tutta la durata del conflitto. E il conflitto è ancora in corso e per
adesso non ne vediamo la fine" (corsivo mio).
Potere extra-legale L'esercizio del potere sovrano è legato alla situazione
extra-legale di questi discorsi ufficiali. Essi diventano lo strumento attraverso
il quale il potere sovrano estende se stesso; più riesce a produrre
ambiguità, più aumenta di fatto il proprio potere apparentemente
al servizio della giustizia. Queste dichiarazioni ufficiali sono anche rappresentazioni
mediatiche, un modello di discorso di Stato, che delimita una sfera propria
del modo di parlare ufficiale e distinta dal discorso giuridico. Quando molte
organizzazioni e Paesi chiesero se gli Stati Uniti stessero rispettando i
protocolli della Convenzione di Ginevra relativi al trattamento dei prigionieri
di guerra, l'amministrazione cincischiò: sostenne che i prigionieri
di Guantanamo venivano trattati in un modo "compatibile con" la
Convenzione di Ginevra, non dissero di ritenere che gli Stati Uniti erano
obbligati a onorare quella legge o che quella legge aveva valore vincolante
per gli Stati Uniti. In realtà, nell'ultimo mese sono stati parecchi
i casi in cui gli Stati Uniti hanno considerato la Convenzione di Ginevra
non vincolante. Il primo esempio fu quell'affermazione che apparentemente
onora la Convenzione, cioè che gli Stati Uniti stanno agendo in un
modo compatibile con la convenzione o, in alternativa, che gli Stati Uniti
stanno agendo nello spirito degli accordi di Ginevra. Dire che gli Stati Uniti
agiscono compatibilmente con gli accordi è come dire che agiscono in
modo da non contraddire gli accordi, ma non vuol dire che, in quanto firmatari
degli accordi, si considerano vincolati ad essi. Riconoscere quest'ultima
proposizione significherebbe riconoscere i limiti che gli accordi internazionali
pongono alle rivendicazioni di sovranità. Agire compatibilmente con
l'accordo significa definire la propria azione e giudicare quell'azione, sia
pure in termini generali, compatibile con gli accordi. Le cose peggiorano,
comunque, quando vediamo che certi diritti contemplati negli accordi di Ginevra
all'Articolo 3, come il diritto alla consulenza legale, l'informazione sul
capo di imputazione, l'esame da parte di una corte regolarmente costituita,
il diritto di appello e il rimpatrio tempestivo, non vengono garantiti e non
sono in programma. La vicenda si complica ulteriormente, ma forse diventa
finalmente più chiara, quando ascoltiamo, come in realtà è
avvenuto, che, ebbene, nessuno dei detenuti di Guantanamo deve essere considerato
prigioniero di guerra secondo la Convenzione di Ginevra, perché nessuno
di loro appartiene a "eserciti regolari". Sotto pressione, l'amministrazione
Bush ha riconosciuto che i Talebani sono coperti dalla Convenzione di Ginevra,
in quanto rappresentanti del governo afgano, ma non hanno diritto a essere
considerati prigionieri di guerra in nome di quell'accordo. In realtà
l'amministrazione ha finalmente detto con grande chiarezza che l'accordo di
Ginevra non è stato pensato per questo genere di guerra, e dunque sono
anacronistiche le clausole concernenti chi è o non è considerato
prigioniero di guerra, chi ha o non ha titolo a godere dei diritti che tale
condizione garantisce. L'amministrazione perciò respinge l'accordo
in quanto anacronistico, ma afferma di agire in coerenza con esso.
Quando si manifestò un'indignazione diffusa, in risposta alla pubblicazione
dei corpi incatenati di Guantanamo, gli Stati Uniti asserirono che stavano
trattando con umanità questi prigionieri. L'espressione 'con umanità'
fu usata assai di frequente, insieme con l'affermazione che gli Stati Uniti
stavano agendo in modo compatibile con la Convenzione di Ginevra. È
importante ricordare che uno dei compiti della convenzione di Ginevra era
stabilire che cosa qualifica o no come umano il trattamento dei prigionieri
di guerra. In altre parole, si trattava di cercare di stabilire un significato
universale dell'espressione "trattamento umano" e di accordarsi
su quali dovessero essere le condizioni da soddisfare prima che di affermare
che veniva offerto un trattamento umano. L'espressione "trattamento umano"
ha ricevuto così considerazione giuridica, e il risultato è
stato un insieme di condizioni, formulate esplicitamente, che, se soddisfatte,
configurano un trattamento umano. Quando dunque gli Stati Uniti dichiarano
di trattare i prigionieri con umanità usano l'espressione a modo loro
e per i loro scopi, ma non accettano che l'accordo di Ginevra stabilisca come
si dovrebbe legittimamente usare. In realtà, riprendono l'espressione
dall'accordo proprio nel momento in cui proclamano di agire compatibilmente
con l'accordo. Ma, nello stesso momento, sostengono in realtà che l'accordo
non ha potere su di loro. Analogamente, se gli Stati Uniti dicono di riconoscere
che i Talebani devono essere considerati coperti dalla Convenzione di Ginevra,
ma poi dicono che nemmeno i soldati talebani hanno titolo allo status di prigionieri
di guerra, in realtà mettono in discussione il valore vincolante dell'accordo.
Dato che l'accordo afferma che deve essere costituito un tribunale competente
per decretare la condizione di prigioniero di guerra, e che tutti i prigionieri
devono essere trattati come prigionieri di guerra fino a diversa decisione
del tribunale competente, e dato che gli Stati Uniti non hanno provveduto
a nessuno di siffatti tribunali e hanno preso unilateralmente le proprie decisioni,
gli Stati Uniti disattendono ancora una volta i termini dell'accordo: il risultato
è che il 'riconoscimento' che i Talebani sono coperti da un accordo
che gli Stati Uniti considerano non-vincolante è di fatto privo di
valore, specialmente quando continuano a negare lo status di prigionieri di
guerra agli stessi individui che apparentemente riconoscono.
Gli Stati Uniti mostrano tracotanza, se non disprezzo, sia rispetto alla propria
Costituzione che ai meccanismi del diritto internazionale, riducendo il diritto
a strumento dello Stato o sospendendo la legge nell'interesse dello Stato.
Quando un giornalista chiese ai rappresentanti del Dipartimento della Difesa
perché si volesse un sistema di tribunali militari, dato che esistono
già un sistema di corti civili e uno di corti militari, risposero che
avevano bisogno di un altro 'strumento', viste le nuove circostanze. La legge
non è ciò a cui lo Stato è soggetto, non è ciò
che distingue tra azione statale legittima o illegittima, ma viene ora espressamente
intesa come strumento, strumento di potere, che si può applicare o
sospendere a piacere. La sovranità consiste ora nell'applicazione incostante,
nel contorcimento e nella sospensione del diritto; è, nella sua forma
corrente, un rapporto col diritto: di sfruttamento, strumentale, sprezzante,
vanificante, arbitrario.
Partecipando a un programma della rete C-SPAN nel febbraio scorso, Rumsfeld
apparve esasperato dai problemi legali sul caso Guantanamo, che in quel momento
riguardavano soprattutto il trattamento umanitario e la condizione di prigionieri
di guerra. Egli invece fece più volte riferimento a un concreto obiettivo
militare e pubblico per giustificare il trattamento dei prigionieri a Cuba.
Si chinò sul microfono ed esclamò che cercava solo di tenere
questi individui lontani dalle strade e dalle centrali nucleari, in modo che
non potessero uccidere. Dunque, bisogna che le persone siano messe in carcere
perché non uccidano. Rispondendo a chi gli chiedeva se esse potessero
aspettarsi dei processi, disse di ritenerlo ragionevole, senza tuttavia assumere
alcun impegno in tal senso. Ma ancora una volta non capiva che il Dipartimento
della Difesa è comunque tenuto ad agire tempestivamente in quella direzione
dopo la conclusione di un conflitto o, per meglio dire, a impegnarsi a seguire
la legge internazionale che ne fa un preciso obbligo e un diritto non subordinato
ad alcuna condizione. Era "perfettamente ragionevole" tenerli lontani
dalle strade, disse, in modo che non potessero uccidere. E dunque quel che
sembra perfettamente ragionevole è la base di quel che lui e il governo
stanno facendo, e la 'legge' è lì certamente per essere consultata,
e le convenzioni internazionali sono lì come una sorta di modello,
ma non come schema d'azione obbligatorio. L'azione è autonoma, al di
fuori della legge: guarda alla legge, la prende in considerazione, la consulta,
forse in qualche occasione opera persino in modo compatibile con essa. Ma
l'azione è di per sé extra-legale, e si considera giustificata
in quanto tale. In realtà la legge sembrava infastidire Rumsfeld. Rispondendo
a tutte queste domande sui diritti e sulle responsabilità legali, sottolineò
che intendeva lasciare questi problemi ad altri, a persone che, al contrario
di lui, non avevano abbandonato gli studi giuridici. E poi rise, come se avesse
inaspettatamente offerto una qualche lodevole prova della sua virilità
americana. L'ostentazione della forza indifferente alla legge si condensava
già prima nello slogan di Bush "vivo o morto", riferito a
Osama bin Laden, e Rumsfeld sembra continuare nella situazione attuale questa
tradizione senza scrupoli di una giustizia da vigilanti.
Non si preoccupa delle lamiere usate come tetti sulle celle in cui si trovano
i prigionieri. Dopo tutto, dice convinto, sono stato a Cuba, e lì c'è
bel tempo. E poi, come se questi problemi fossero zanzare intorno alle sue
caviglie in un giorno di gran caldo a Cuba, dichiara: "Non sono un avvocato.
Non mi interesso di quell'aspetto del problema".
Terrorismo Potreste dedurre che io voglio solo che venga rispettata la legge.
E in un certo senso questo è, almeno in parte, ciò che voglio.
Ma ho anche un problema rispetto alla legge. E credo che dovrebbe essere sottoposta
a critica e a revisione. Ho scritto su questo tema su "The Nation"
del 1° aprile 2002, e non voglio riprendere qui tutte le argomentazioni
di allora. Ma in breve, sono preoccupata, ragionevolmente preoccupata, del
fatto che la Convenzione di Ginevra è, in parte, un discorso di civiltà,
e non sancisce in nessun luogo un diritto alla tutela dalla degradazione e
dalla violenza e i diritti a un giusto processo in quanto diritti universali.
Altre convenzioni internazionali lo fanno, e molte organizzazioni per i diritti
umani sostengono che si può e si deve interpretare la Convenzione di
Ginevra come valida per tutti. Il Comitato internazionale della Croce Rossa
ha sostenuto questa tesi pubblicamente (8 febbraio 2002). Kenneth Roth, direttore
dello Human Rights Watch, ha argomentato con forza che ai prigionieri di Guantanamo
devono essere garantiti quei diritti (28 gennaio 2002), e il Memorandum di
Amnesty International al governo degli Stati Uniti (15 aprile 2002) chiarisce
che cinquant'anni di diritto internazionale hanno costruito una presunzione
di universalità, codificata chiaramente nell'Articolo 9 (4) dell'International
Covenant on Civil and Political Rights, ratificato dagli Stati Uniti nel 1992.
Posizioni analoghe sono state prese dalla International Commission on Jurists
(7 febbraio 2002); e il gruppo di esperti dei diritti umani della Organization
for American States ha fatto la stessa affermazione (13 marzo 2002), appoggiato
dal Center for Constitutional Rights.
Di conseguenza il ricorso alla Convenzione di Ginevra, redatta nel 1949, intesa
come unico documento regolativo di questa tematica, è in se stesso
problematico. Bisogna assolutamente stabilire e applicare un criterio selettivo
per il problema che attiene a chi abbia o non abbia diritto alla protezione
in base alle clausole in essa contenute. In un certo senso, la Convenzione
di Ginevra dà per scontato che certi prigionieri non possano essere
protetti dal suo statuto, e privilegia chiaramente quei prigionieri che provengono
da guerre tra Stati ben individuabili. In effetti, nella misura in cui la
Convenzione di Ginevra dà appiglio a una distinzione tra combattenti
legali e illegali, opera una distinzione tra violenza legittima e illegittima.
La violenza legittima è quella operata da Stati o 'Paesi' riconoscibili,
come dice Rumsfeld, e la violenza illegittima è precisamente quella
commessa da chi è senza terra, senza Stato.
Nel clima attuale questa formulazione accresce la sua forza visto che varie
forme di violenza politica vengono chiamate 'terrorismo', non perché
ci siano tipi di violenza distinguibili gli uni dagli altri, ma perché
così si caratterizza la violenza commessa da, o in nome di, autorità
considerate illegittime dagli Stati riconosciuti. Il risultato è che
Ariel Sharon liquida radicalmente e totalmente l'Intifada palestinese come
'terrorismo', proprio lui che usa senza scrupoli la violenza di Stato per
distruggere cose e persone. L'uso del termine 'terrorismo' serve dunque per
delegittimare certe forme di violenza attuate da entità politiche non
statuali, nel momento stesso in cui sancisce una risposta violenta da parte
degli Stati riconosciuti. Ovviamente questa è una tattica usata da
molto tempo, perché gli Stati coloniali devono vedersela con i palestinesi
o con i cattolici irlandesi, e fu anche una tesi sostenuta contro la ANC in
Sudafrica.
Ma la nuova forma che queste argomentazioni stanno assumendo e la naturalezza
di cui si rivestono non fanno che accrescere le conseguenze estremamente dannose
che esse proiettano sulla lotta per l'autodeterminazione palestinese. Israele
trae vantaggio da questa formulazione non ritenendosi responsabile verso alcuno
Stato di diritto proprio nel momento in cui si sente impegnato in una autodifesa
legittima, in virtù del fatto che si tratta di violenza di Stato. Nell'ambito
della concettualizzazione della violenza mondiale, 'terrorismo' diventa il
nome per descrivere la violenza della guerra illegittima, mentre quella legittima
diventa prerogativa di chi può fare affidamento su un riconoscimento
internazionale in quanto Stato legittimo. 4K-Movies.Biz
Il fatto che questi prigionieri siano visti come semplici contenitori di violenza,
come sostiene Rumsfeld, indica che essi non diventano violenti per lo stesso
ordine di ragioni degli altri esseri politicizzati, che la loro violenza è
in qualche modo costitutiva, senza ragioni e infinita, se non innata. Se questo
è terrorismo piuttosto che violenza, è azione che non ha alcuno
scopo politico, o che non si può leggere politicamente. Nasce, come
si dice, dai fanatici, dagli estremisti, che non sposano un punto di vista,
esistono al di fuori della 'ragione', e non hanno posto nella comunità
umana. Che sia terrorismo o estremismo islamico vuol dire solo che la de-umanizzazione
che l'orientalismo già provoca è elevata all'ennesima potenza,
così che l'unicità e l'eccezionalità di questo tipo di
guerra la rende esente dalle presunzioni e dalle protezioni dell'universalità
e della civiltà.
Quando ad essere chiamata in causa è la stessa condizione umana dei
prigionieri, è segno che abbiamo usato uno schema troppo angusto per
comprendere l'umano e abbiamo mancato di espandere la nostra concezione dei
diritti umani, fino a potervi includere anche coloro i cui valori possono
mettere alla prova i limiti dei nostri. L'immagine dell'estremismo islamico
è molto riduttiva in questo momento, data l'estrema ignoranza sulle
varie forme politiche e sociali che l'Islam assume, le tensioni, per esempio,
tra i musulmani sunniti e sciiti, e l'ampia gamma di pratiche religiose che
hanno poche implicazioni politiche, se pure ne hanno, o le cui implicazioni
politiche sono pacifiste. Se presumiamo che ogni essere umano va alla guerra
come noi, o che la violenza che usiamo è violenza che ricade nell'ambito
della natura umana riconoscibile, facciamo uso di una cornice culturale limitata
e limitante per comprendere quello che si deve intendere per umano. Essere
umani implica molte cose, una delle quali è che siamo esseri che devono
vivere in un mondo in cui ci sono e ci saranno scontri di valori, e che questi
scontri sono un segno di quel che è una comunità umana. Una
prova della nostra reale umanità è verificare se continuiamo
a far valere una concezione universale dei diritti umani nei momenti di risentimento
e di incomprensione, proprio quando pensiamo che gli altri si siano messi
al di fuori della comunità umana quale noi la conosciamo. Sbagliamo,
perciò, se pensiamo che una sola definizione, o un solo modello di
razionalità, possa essere l'unico elemento distintivo dell'umano, e
poi procediamo per deduzioni da quella visione precostituita dell'umano fino
a tutte le sue varie forme culturali. Quella strada ci porterebbe a chiederci
se alcuni esseri umani che non incarnano la ragione e la violenza nel modo
stabilito dalle nostre definizioni sono ancora umani o se sono "eccezionali"
(Haynes) o "unici" (Hastert) o "davvero cattivi" (Cheney),
visto che ci presentano un caso limite dell'umano, che, sfortunatamente, non
abbiamo finora accolto.
Ripensare l'umano Affrontare quello che per qualcuno è un caso limite
dell'umano è una sfida per ripensare l'umano. E il compito di ripensare
l'umano fa parte del percorso democratico di una dottrina dei diritti umani
in evoluzione. Non dovrebbe essere sorprendente trovare che esistono schemi
razziali ed etnici attraverso i quali generalmente si forma ciò che
è riconoscibile come umano. Un'operazione critica di ogni cultura democratica
è contestare questi schemi, permettere a un insieme di strutture dissonanti
e sovrapponentesi di diventare visibili, accettare le sfide della traduzione
delle culture, specialmente quelle che emergono quando ci troviamo a vivere
in prossimità di coloro i cui valori e convincimenti sfidano i nostri
a livelli davvero fondamentali. Cosa ancora più importante, non si
tratta del fatto che 'noi' abbiamo un'idea comune di quello che è umano,
perché gli americani sono formati da molte tradizioni, incluso l'Islam
in varie forme, dunque ogni valutazione di sé radicalmente democratica
dovrà venire a patti con l'eterogeneità dei valori umani. Questo
non è un relativismo che indebolisce le rivendicazioni universali;
è la condizione per cui si potrà articolare una concezione concreta
e aperta dell'umano, il modo in cui le concezioni dell'umano anguste e implicitamente
limitate dal punto di vista razziale e religioso dovranno lasciare il posto
a una concezione più aperta di come ci pensiamo in quanto comunità
globale. Non comprendiamo ancora i modi, e in questo senso la legge dei diritti
umani deve ancora imparare a conoscere il significato pieno dell'umano. È,
potremmo dire, un compito continuo dei diritti umani rielaborare l'umano quando
la loro presunta universalità non ha campo d'azione universale.
Il problema di chi viene trattato umanamente presuppone che risolviamo prima
il problema di chi conta o no come essere umano. Ed è questo il punto
in cui il dibattito sulla civiltà occidentale e l'Islam non è
solo un dibattito accademico, una strampalata caccia all'orientalismo da parte
di Bernard Lewis, Samuel Huntington e simili, che con regolarità producono
resoconti monolitici dell''Est', combattendo i valori dell'Islam con i valori
della 'civiltà' occidentale. In questo senso, 'civiltà' è
un termine che lavora contro una concezione aperta dell'umano, un termine
che non trova posto in un internazionalismo che prende seriamente l'universalità
dei diritti. Il termine 'civiltà', e ciò che ne consegue nella
pratica, determina una produzione dell'umano differenziata e offre uno standard
culturalmente limitato di quello che si presume essere l'umano. Non è
solo che alcuni esseri umani sono trattati come esseri umani e altri vengono
de-umanizzati; è che la de-umanizzazione diventa la condizione per
produrre l'umano fino al punto che una civiltà 'occidentale' definisce
se stessa al di sopra e contro una popolazione considerata illegittima per
definizione, e umana con qualche dubbio.
Il problema è, piuttosto, come una nozione falsa di civiltà
fornisca la misura in base alla quale si definisce l'umano nello stesso momento
in cui una distesa di cosiddetti esseri umani, spettralmente umani, decostituiti,
vengono mantenuti e detenuti, fatti vivere e morire all'interno di una sfera
di vita extra-umana ed extra-giuridica. Non è solo il trattamento disumano
dei prigionieri di Guantanamo, che attesta che questi esseri incatenati sono,
politicamente, indegni dei diritti umani fondamentali. Vediamo all'opera un
capriccioso proceduralismo estraneo alla legge, e la trasformazione del carcere
nel luogo in cui diventano più forti certi metodi operativi non vincolati
alla legge, senza relazione col processo, con la pena e con i diritti dei
prigionieri. Vediamo, in effetti, lo sforzo di mettere in piedi un sistema
giudiziario secondario e una sfera di detenzione non-legale, che di fatto
fa della prigione stessa una sfera extra-legale mantenuta dal potere extra-giudiziario
dello Stato.
Legge e sovranità Potrebbe sembrare che il sottinteso normativo della
mia analisi sia l'idea che lo Stato deve essere vincolato alla legge e non
considerare la legge come qualcosa di meramente strumentale o superfluo. È
vero. Ma non mi interessa il principio della legge di per sé, bensì
il posto che la legge occupa nell'articolazione di una concezione internazionale
dei diritti e degli obblighi che limitano e condizionano le pretese della
sovranità dello Stato. Sono ben consapevole che i modelli internazionali
possono essere sfruttati a proprio vantaggio da coloro i quali esercitano
il potere, ma penso che un nuovo internazionalismo debba nondimeno battersi
per i diritti delle persone senza Stato e per le forme di autodeterminazione,
che non si risolvano in forme capricciose e ciniche di sovranità dello
Stato. Autodeterminazione per un dato popolo, a prescindere dalla situazione
attuale dello Stato, non è la stessa cosa dell'esercizio extra-legale
della sovranità allo scopo di sospendere i diritti alla cieca. Ne consegue
che non può esserci esercizio legittimo di autodeterminazione che non
sia condizionato e limitato da una concezione internazionale dei diritti umani,
che fornisca una cornice vincolante per l'azione dello Stato. Sono favorevole,
per esempio, all'autodeterminazione palestinese, e anche alla creazione dello
Stato palestinese, ma quel processo dovrebbe attuarsi con il supporto e i
vincoli dei diritti umani internazionali. Analogamente, sono ancora più
appassionata alla rinuncia di Israele alla religione come prerequisito per
i diritti di cittadinanza, e credo che nessuna democrazia contemporanea possa
e debba basarsi su condizioni di partecipazione escludenti, come la religione.
L'amministrazione Bush ha rotto negli ultimi due anni numerosi trattati internazionali,
molti dei quali avevano a che fare con il controllo e il traffico delle armi,
e molti di questi annullamenti sono stati decisi prima degli eventi dell'11
settembre. Anche la richiesta degli Stati Uniti di una coalizione internazionale
dopo quegli eventi era tale da lasciar presumere che gli Stati Uniti avrebbero
stabilito i termini, preso l'iniziativa, determinato il criterio per l'adesione
e capeggiato gli alleati. Questa è una forma di sovranità che
cerca di assorbire e strumentalizzare la coalizione internazionale, più
che sottoporla a una prassi di autolimitazione, in virtù dei suoi obblighi
internazionali. Analogamente l'autodeterminazione palestinese verrà
assicurata in quanto diritto solo se esiste consenso internazionale sul fatto
che di fronte a un esercizio violento e smisurato delle prerogative sovrane
da parte di Israele bisogna far valere questi diritti. Il mio timore è
che la detenzione indefinita dei prigionieri di Guantanamo, dove non sono
possibili diritti di appello presso le corti federali, diventerà un
modello per marchiare e gestire i cosiddetti terroristi nelle varie parti
del mondo in cui non sono immaginabili appelli ai diritti e alle corti internazionali,
e che vedremo risorgere una sovranità dello Stato violenta e autoesaltantesi,
a scapito di ogni impegno alla cooperazione mondiale, che possa appoggiare
e ridistribuire in modo totalmente nuovo i diritti di riconoscimento dovuti
a qualsiasi essere umano. Dobbiamo ancora diventare umani, a quanto sembra,
e per il momento questa prospettiva sembra ancor più radicalmente in
pericolo, se non preclusa per un tempo imprecisato.
Traduzione di Maria Caterina Dominijanni