Quelle gabbie che fanno male all’America
Gianni Riotta
Corriere della Sera, 11 ottobre 2003
Dopo un'ispezione la Croce Rossa denuncia «le condizioni inumane». Senza rivelazioni dai 663 prigionieri, il danno che gli Usa ricavano dalla vicenda cancellerà ogni vantaggio di intelligence.
New York - Nessuno sa con esattezza che tipo di informazioni gli apparati
di sicurezza americani stanno ottenendo dai 663 detenuti, tre minorenni, della
prigione di Guantanamo, a Cuba, ma se non ci saranno presto rivelazioni clamorose,
il danno che gli Stati Uniti ricavano dalla vicenda cancellerà ogni
vantaggio di intelligence. Il sito Internet della Croce Rossa Internazionale
http://www.icrc.org
ha ospitato la denuncia di Cristophe Girod, massimo dirigente dell'organizzazione
umanitaria a Washington, dopo una sua visita tra le gabbie, il filo spinato,
le celle scoperte e il terriccio di Guantanamo, all'interno dell'antica base
della Marina militare Usa.
Girod considera inaccettabile la detenzione dei prigionieri, per la gran parte
catturati alla fine della guerra in Afghanistan, nell'autunno del 2001, perché
non è in corso alcun processo giuridico nei loro confronti. Il carcere
preventivo è dunque «senza tempo», ma i guerriglieri catturati
non «possono essere tenuti in questa situazione e in queste condizioni
indefinitamente». Ventuno casi di tentato suicidio e molti di depressione
punteggerebbero la squallida vita quotidiana del campo, una Torre di Babele
dove 2800 soldati, quattro per ogni prigioniero, sorvegliano gente arrivata
da quaranta Paesi diversi parlando diciassette lingue, dall'arabo, all'Urdu
pakistano al Pashto afghano.
Era stato il presidente della Croce Rossa, Jakob Kellenberger, a chiedere
ai ministri del presidente George W. Bush accesso al campo, avviando l'ispezione
durata due mesi e conclusa dal drammatico esposto. Su mandato del ministro
della Giustizia John Ashcroft e con l'avallo del ministro della Difesa Donald
Rumsfeld, gli ex guerriglieri, molti talebani del Mullah Omar, altri militanti
del gruppo terroristico Al Qaeda di Osama Bin Laden, sono classificati «combattenti
stranieri non ufficiali», non protetti dalla Convenzione di Ginevra
e dai suoi protocolli sui prigionieri di guerra.
Se trasportati negli Stati Uniti, i 663 godrebbero delle garanzie del processo
legale, che la Costituzione offre agli imputati, cittadini e no, civili o
militari. La detenzione tra le piante grasse e i lucertoloni di Guantanamo
crea una sorta di Limbo giuridico, che permette interrogatori senza fine e
non chiarisce se i talebani siano attesi da una corte civile, una corte marziale
o una detenzione senza fine. La débâcle di immagine è
completa. Se Ashcroft e Rumsfeld non hanno dossier colmi di confessioni -
e finora non se ne ha notizia - il lugubre campo di Guantanamo è la
Silicon Valley dell'antiamericanismo, l'officina operosa dell'astio contro
Washington dal mondo arabo all'Europa.
Le critiche della Croce Rossa, rarissime per l'organizzazione che collabora
con i governi a scopi umanitari, arrivano poche ore dopo la visita a Guantanamo
di diciannove personalità americane, diplomatici, ex magistrati federali,
ufficiali dell'Esercito e della Marina in pensione. Il gruppo, dalle solide
credenziali istituzionali e patriottiche, ha denunciato «la detenzione
indefinita dei prigionieri senza che venga mosso loro un preciso capo d'accusa,
senza libero accesso ad avvocati difensori e senza una vera possibilità
legale di opporsi al loro stato».
L'ex ufficiale di Marina Leslie Jackson, catturato dai tedeschi durante la
Seconda guerra mondiale e detenuto in un lager, ora membro della missione
a Cuba, racconta: «I diritti umani sono decisivi. Tocca a noi dare l'esempio,
trattando tutti in modo onorevole, o finiremo presto nei guai». Jackson
è uno dei cofirmatari di sette esposti alla magistratura in sostegno
alle richieste di appello alle Corti superiori, avanzate da due cittadini
inglesi, due australiani e dodici del Kuwait, che languono a Guantanamo.
Finora i primi gradi di giudizio, per esempio alla Corte di Appello del Distretto
di Columbia, hanno dato ragione alle tesi del ministro Ashcroft, sentenziando
che i detenuti sono «aliens», stranieri illegali, si trovano in
territorio non americano e quindi non sono garantiti dalla Costituzione. Non
la pensa così John Gibbons, ex magistrato della Corte d'Appello, che
a sua volta ha cofirmato gli esposti: «L'idea di considerare una base
navale americana come territorio straniero è ridicola. Guantanamo è
in totale controllo Usa da un secolo».
Gibbons cita numerosi precedenti per le basi militari in Europa, dalla Germania
all'Italia, e in Asia, dalla Corea al Giappone, in cui la dottrina legale
ha ritenuto «suolo patrio» le basi militari.
A testimonianza del clima che dall'11 settembre 2001 alla guerra in Iraq ha
finito per dividere gli Usa un sito Internet www.mrsdutoit.com elenca i nomi
di «tutti coloro che si macchiano di azioni antipatriottiche»
ed è lesto a includere nella lista maccartista i nomi dei 19 ispettori
a Guantanamo, considerati «traditori». Da New York reagisce Ken
Hurwitz, dirigente del Comitato degli Avvocati per i Diritti Umani, che dopo
aver letto i rapporti della Croce Rossa e dei 19, commenta: «Il Pentagono
ha inventato un buco nero legale ed interpreta la Convenzione di Ginevra in
modo del tutto opposto ai dirigenti della Croce Rossa, corretti nel ricordare
che nessun prigioniero può essere privato di uno stato giuridico».
La Croce Rossa non fa menzione di specifiche privazioni, sanitarie o alimentari,
né testimonia, come altre fonti, di interrogatori pesanti o sevizie.
Il suo comunicato si indirizza alla terra di nessuno giuridica, invitando
indirettamente il presidente Bush a conferire uno status ai prigionieri. Il
generale Geoffrey Miller, che comanda la prigione militare, ripete laconico:
«Esercitiamo 300 interrogatori la settimana e il materiale che otteniamo
migliora ogni giorno». «La massima pressione permessa - rivela
il quotidiano Chicago Tribune - è promettere premi in cibo, un hamburger
McDonalds con patatine, perfino quelli in confezione con giocattolo per bambini».
Ad imbarazzare ancora i duri Ashcroft e Rumsfeld, le indagini per spionaggio
in corso, perché nel rigore di Guantanamo un cappellano militare musulmano,
il capitano James Yee, è accusato di avere rubato una mappa della base,
forse a scopo di sabotaggio, e due traduttori, uno in forza all'Aviazione
l'altro civile, sono stati arrestati perché in possesso di materiale
segreto. Potrebbero, secondo i primi rilevamenti, avere manipolato gli interrogatori,
deformando le domande dei militari e le risposte dei prigionieri.
Insomma una base dove il mondo vede i prigionieri in tuta arancio costretti
con le catene ai piedi su grottesche carriole, dove le organizzazioni umanitarie
lamentano violazioni ai diritti umani, l'opinione pubblica Usa trova motivi
di amari dissensi, le propaggini del terrorismo fondamentalista proverebbero
a mettere radici, Castro trae retorica soddisfazione contro i suoi storici
avversari e, finora, nessuna rivelazione sgomina le trame di Al Qaeda.
Con amarezza William Webster, che il sito della caccia alle streghe avrà
difficoltà a bollare come antiamericano in quanto ex magistrato, ed
ex direttore dell'Fbi e della Cia, conclude: «Non risolveremo i nostri
problemi evitando quel processo democratico che sta alla base della nostra
identità».
E' la battaglia dei prossimi mesi a Washington e negli Stati Uniti: se combattere
la guerra al terrorismo con gli strumenti della democrazia e della tradizionale
buona fede americana nella forza della legge, o invece, in nome del pericolo,
chiudersi in un cupo sentimento di repressione. Difficile dire se questo secondo
atteggiamento paghi nell'estorcere segreti, di certo è nocivo alla
credibilità e legittimità nel mondo. Benchè il governo
australiano abbia confermato che i due suoi cittadini David Hicks e Mamhoud
Abib, accusati di terrorismo a Guantanamo, «sono trattati umanamente»,
il padre di David, Terry Hicks, crea emozione in tv piangendo e gridando:
«Li torturano!».
E sul giornale scozzese Aberdeen Press parla invece Azmat Begg: «Chiedo
che mio figlio Moazzam, cittadino inglese a Guantanamo, sia almeno processato
in Inghilterra!». Pochi hanno notato che le 306 pagine del Rapporto
annuale del governo di Sua Maestà Britannica sulle violazioni dei diritti
umani nel mondo, mentre esprime la soddisfazione dell'alleato di guerra Tony
Blair per «il miglioramento della situazione in Iraq dopo la cacciata
di Saddam Hussein» formula però preoccupazione per i nove inglesi
costretti a Guantanamo: «Il governo e il premier Blair continuano ad
insistere con l'aministrazione americana perché arrivi presto a una
decisione per l'inizio di un processo pubblico e legale, senza dare carta
bianca a corti marziali e procedimenti segreti». Se, come dicono le
voci di Washington, l'unilateralismo dei ministri Ashcroft e Rumsfeld è
alle corde per il difficile dopoguerra a Bagdad, se la stella tollerante del
segretario di Stato Colin Powell illumina la consigliera per la sicurezza
nazionale Condy Rice, forse la triste vicenda di Guantanamo potrà concludersi
secondo gli auspici di Webster.