A Guantanamo con i pentiti talebani
Marco Nese
Corriere della Sera, 20 novembre 2003
Visita a Camp Delta, la base americana a Cuba. Regime speciale per 150 che «collaborano»: camerette, scacchi e scarpe per giocare a pallone
Guantanamo - Anche i talebani si pentono. Circa 150 detenuti collaborano con gli americani e hanno ottenuto una specie di libertà vigilata all’interno di Camp Delta, nella base militare di Guantanamo, a Cuba, dove sono rinchiusi 660 «nemici combattenti» catturati in Afghanistan.
I pentiti si godono i privilegi nel settore 4 di Camp Delta. I settori 2
e 3 ospitano persone ritenute docili. Nel settore 1, di massima sicurezza,
sono invece isolati i cattivi. E proprio lì ci guida il sergente maggiore
Anthony Mendez. Dobbiamo varcare 4 cancelli. Sono sally door , vuol dire che
prima di vedere il soldato aprire quello davanti, un altro militare deve aver
chiuso il cancello alle nostre spalle.
Finiamo in un lungo corridoio. A destra e a sinistra sono allineati almeno
20 blocchi di 48 celle ognuno. Di nuovo l'agghiacciante rumore metallico di
una chiave e si apre il cancello del block A.
Saliamo tre scalini, ed ecco le celle, due file da 24, dove i militari controllano
a vista i detenuti. Se ne occupa perfino un italiano, Gregorio Langevin, 32
anni, nato in Veneto ed emigrato bambino coi genitori. Quando smetterà
di sorvegliare talebani, sogna di comprare una fattoria in Italia e andare
allo stadio a vedere la Juventus.
Le celle, una saldata all'altra, sono larghe 2 metri e lunghe 2 e mezzo. Attraverso
le pareti di grate metalliche passa l'aria convogliata da un sistema di ventilazione
che mantiene la temperatura al di sotto dei 30 gradi. Dentro è ammesso
solo il Corano, il tasbih e lo spazzolino da denti. In un angolo, il water
alla turca.
I duri indossano una tuta arancione e ci scrutano con occhi torvi. Uno vorrebbe
attaccar discorso, ma Mendez raccomanda di non rispondere assolutamente.
Se la passano decisamente meglio i pentiti del settore 4, protetto da un solo
cancello. Ce lo apre il sergente Wireman, mostrandoci una scena abbastanza
sorprendente. In pratica, siamo in mezzo ai talebani.
Vagano tranquilli, sorvegliati solo da pochi soldati dalla cima di una torre
denominata Liberty Tower . Alcuni chiacchierano, accomodati sulle panchine,
un paio pregano inginocchiati, altri prendono il sole. Tutti giovani, con
lunghe barbe. Invece della tuta arancione, ne indossano una bianca, simbolo
di purezza.
Hanno a disposizione un grande piazzale circondato da bassi edifici in muratura,
dove sono ricavate le camerette. All'interno di ognuna, un paio di ventilatori,
acqua minerale, ghiaccio, e vari tipi di giochi, scacchi, backgammon, domino.
I pentiti si sono conquistati anche un materasso più confortevole di
quello dei cattivi. Possono scrivere ai familiari e ricevere posta. Pregano
con le ginocchia appoggiate su un morbido tappeto e calzano scarpe sportive
quando corrono dietro a un pallone o giocano a pallavolo sui due campetti
a loro riservati.
Un lusso ottenuto grazie a confessioni che il generale Geoffrey Miller definisce
«molto importanti, le loro informazioni sono state subito trasmesse
agli uomini sul campo e hanno dato risultati di rilievo».
Il generale Miller, un texano nostalgico del suo ranch, non entra nei particolari,
spiega però come avvengono gli interrogatori. «La nostra missione
consiste nell'accertamento di tre aspetti. Primo, cosa facevano questi nemici
combattenti nel luogo in cui è avvenuta la cattura. Secondo, quale
organizzazione li ha reclutati, in che modo, dove, con quale scopo. E infine,
le risorse economiche, come vengono raccolti i fondi, chi cura gli aspetti
finanziari».
Le accuse di maltrattamenti circolate negli ultimi tempi fanno indignare il
generale. «Bugie - sibila -. Nessun Paese al mondo tratta i detenuti
meglio di noi americani. E le buone maniere producono frutti: oggi altri 2
si sono meritato il diritto di passare nel settore 4».
Nonostante le buone maniere, 21 hanno cercato di strangolarsi appendendosi
a corde ricavate da strisce di lenzuolo, 11 ci hanno provato due volte. Solo
uno stava per morire, è rimasto in coma 3 mesi, adesso è fuori
pericolo, ma è ancora ricoverato nell'ospedale costruito all'interno
del campo.
Quando sono arrivati a Guantanamo, ci spiega l'ufficiale medico Steve Edmonson,
«molti erano denutriti, poi l'alimentazione americana li ha fatti salire
troppo di peso e così abbiamo studiato una dieta ad hoc che fornisce
2.200 calorie al giorno».
Ci pensa l'ufficiale Frankie Hand, supervisore delle cucine, grandi quanto
un campo di calcio, dove cuochi e inservienti giamaicani preparano il cibo,
lo stesso per detenuti e militari.
Il pranzo di oggi prevede fagioli, mais, pomodori, pollo (in alternativa pesce
o uova) e un filoncino di pane ribattezzato Taliban Bread . Come frutta, mela
e banana. Un paio di volte a settimana arriva anche il dessert, un dolce turco
Baclava.
Siamo in tempo di Ramadan, non tutti mangiano. Per chi rispetta il digiuno
islamico, alle 10 di sera viene servito uno snack a base di pane arabo, miele,
datteri e formaggio. Attraverso un cd la voce del muezzin chiama alla preghiera
5 volte al giorno. Ma non tutti sono musulmani, ci avverte il cappellano militare
Dane Odean, «professano varie fedi, ci sono anche cattolici».
Su mille militari che lavorano nella base, un centinaio sono donne. Nelle
bacheche dei loro uffici è messo in evidenza un numero telefonico che
possono chiamare in caso di molestie sessuali. Jennifer McWilliams è
una bella ragazza di 32 anni che fa la guardia ai talebani.
Racconta che i detenuti la scrutano con aria minacciosa. «Alcuni mi
urlano qualcosa in tono aspro. Non capisco la loro lingua, ma credo che mi
insultino. Penso che mi scaglino addosso parole offensive perché la
loro cultura non contempla un ruolo attivo delle donne. Faccio finta di non
sentirli. Sono un soldato. Continuo il mio lavoro senza reagire. Ci hanno
addestrati a comportarci così».
Come donna, dice Jennifer, «non credo di aver diritto a privilegi. Io
sono qui per due ragioni, per aiutare il mio Paese a difendere la libertà
che ci vogliono portare via, e per dare un avvenire a mia figlia Jeanna di
6 anni. Sono una ragazza madre».
Uscendo dal campo, svoltiamo a sinistra seguendo la strada che fiancheggia
la costa dove approdò Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio. A
picco sul mare blu, un altro recinto, Camp Iguana, dal nome dei rettili che
lo circondano (per inciso, sono protetti in tutta la base: ammazzarne uno
può costare una multa di 10 mila dollari).
A Camp Iguana vivono 3 minorenni catturati in Afghanistan. Il più piccolo
ha 13 anni, il più grande 16. «Li facciamo studiare - dice il
sergente Innigar -. Lingue, aritmetica. Si sono appassionati all'astronomia,
guardano in continuazione videocassette che spiegano il sistema solare e l'universo».
La strada, chiamata con molta fantasia Sherman Avenue, ci riporta verso Camp
Delta. Lo superiamo e cinquecento metri più avanti i lavori in corso
fanno capire che gli americani intendono mantenere la prigione per lungo tempo.
Costruiscono blocchi di cemento e una barriera metallica che si incassa nell'asfalto
quando un veicolo è autorizzato a passare.
Sullo sfondo, un edificio rettangolare pronto per i processi. «Il primo
- ci ha detto a Washington il colonnello dell'Esercito Frederic L. Borch,
capo della corte militare - si terrà presto». Forse a gennaio.
In una piccola valle, le sconvolgenti gabbie in cui i talebani furono rinchiusi
all'inizio sono sommerse da rampicanti che sfoggiano bei fiorellini gialli.
Stiamo per mettere piede nel regno dei marines e su un blocco di cemento una
scritta ammonisce: «Entra se hai il coraggio».
L'ufficiale dei marines appare ospitale. Lui e i suoi uomini proteggono la
porta di Nord Est, l'unica via di accesso alla Cuba di Fidel. Al di là
della recinzione di 26 chilometri che separa la base americana, i cubani ci
scrutano col binocolo. Non bisogna fare gesti o indicare con la mano, potrebbero
interpretare male.
Ma qualcosa è cambiato. Da quando sono arrivati i talebani, americani
e cubani si parlano. Il generale Solar Hernandez, uno che era con Castro al
tempo della rivoluzione, varca una volta al mese la porta di Nord Est. «Viene
nella base - dice il capitano Leslie McCoy -. Parliamo di problemi comuni.
A volte chiacchieriamo solo di baseball e cicloni in arrivo».
Però dialogano. Chissà che alla fine i talebani non favoriscano
il disgelo con L'Avana.