"Il mio inferno a Guantanamo"
marzo 2004
La testimonianza di uno dei cinque cittadini inglesi liberati dal supercarcere Usa dopo due anni di detenzione. Un prigioniero racconta: botte e torture per farci parlare. I detenuti britannici vogliono fare causa al governo americano per i danni subiti.
Londra - Picchiati selvaggiamente per la minima trasgressione. In catene
e manette fino a quindici ore di seguito. Chiusi in gabbie con il pavimento
di cemento, esposte agli elementi, infestate da ratti, scorpioni, serpenti.
Malnutriti con acqua infetta e cibo avariato. E sottoposti a torture psicologiche
di ogni genere. Anche sessuali, qualche volta: «Certi prigionieri, scelti
tra i musulmani più devoti, tra coloro che non avevano mai visto una
donna in pubblico senza il velo, erano costretti a guardare prostitute che
si spogliavano davanti a loro, si toccavano, li umiliavano. Uno spettacolo
degradante, organizzato allo scopo di spezzare l´equilibrio dei detenuti
e farli confessare».
Questo racconta Jamal al-Harit, uno dei cinque cittadini britannici tornati
liberi nei giorni scorsi, dopo due anni di prigionia a Guantanamo, il campo
di detenzione americano a Cuba, dove sono stati rinchiusi tutti i terroristi
e presunti terroristi catturati durante l´intervento militare Usa in
Afghanistan. Consegnati alle autorità del Regno Unito, i cinque sono
stati rimpatriati a bordo di un aereo della Raf, interrogati per una notte
dagli agenti dell´antiterrorismo, e quindi rilasciati. Jamal è
il primo a parlare del suo «inferno», così lo chiama, nel
supercarcere americano, in una lunga intervista al Daily Mirror, uno dei quotidiani
popolari londinesi, che deve avere pagato profumatamente il suo scoop. Ora,
insieme agli altri quattro, intende fare causa al governo americano per i
danni ricevuti.
Trentacinque anni, di origine giamaicana, divorziato, padre di tre figli,
convertito sei anni or sono all´Islam, Jamal afferma di essere partito
per il Pakistan nell´autunno del 2001, un mese dopo l´attacco
terroristico all´America dell´11 settembre, allo scopo di approfondire
i suoi studi religiosi e visitare la regione. Dopo qualche settimana a Karachi,
decide di spostarsi in Iran, ma il camionista a cui chiede un passaggio lo
porta invece in Afghanistan, senza che lui se ne accorga. Quando l´automezzo
viene fermato a un posto di blocco, i Talebani, insospettiti dal suo passaporto
britannico, lo arrestano, convinti che sia una spia inviata in perlustrazione
nell´imminenza dell´intervento angloamericano. Ed è appunto
in prigione, a Kandahar, che le forze americane lo ritrovano nel corso della
loro avanzata su Kabul. Nonostante le sue proteste di innocenza e le richieste
di essere messo in contatto con l´ambasciata britannica o con un avvocato,
viene arrestato e spedito a Guantanamo.
«Al campo mi hanno interrogato almeno quaranta volte, cercando con ogni
mezzo di farmi confessare che ero un terrorista», racconta. «Hanno
minacciato me e la mia famiglia. Una volta mi hanno iniettato non so quale
sostanza: poiché io ho opposto resistenza, è arrivata una squadra
speciale addetta alle punizioni, che mi ha riempito di botte. Ma non ho ceduto,
nemmeno quando mi hanno detto che sarei stato liberato subito se avessi firmato
una confessione. Alla fine, quando mi hanno liberato davvero, gli altri detenuti
dalle loro celle mi gridavano di non dimenticarmi di loro, di rivelare al
mondo le condizioni in cui sono rinchiusi».