«Noi inglesi, due anni a Guantanamo. In catene imploravamo le
condanne»
David Rose
The Observer, 14 marzo 2004
Traduzione di Gabriela Jacomella per il Corriere della Sera
«Quando mi svegliai, non avevo idea di dove fossi. Ero sdraiato sopra a dei cadaveri, respirando il fetore del sangue e dell'urina. Avevano ammassato forse 300 di noi in ciascun container, stipati così stretti che le nostre ginocchia erano pressate contro il petto, quasi subito iniziammo a soffocare. Siamo sopravvissuti perché qualcuno fece dei buchi con la mitragliatrice, anche se sparavano basso e ne sono morti ancora di più a causa dei proiettili. Quando uscimmo, circa 20 in ogni container erano ancora vivi». In una casa sicura nel Sud dell'Inghilterra, il cittadino britannico Asif Iqbal racconta come è sopravvissuto, insieme ai suoi amici Ruhal Ahmed e Shafiq Rasul (tutti e tre originari di Tipton, in Gran Bretagna), dopo un massacro compiuto in Afghanistan nell'autunno del 2001 dalle forze dell'Alleanza del Nord, spalleggiate dagli americani, l'inizio di un incubo durato 26 mesi, finito la scorsa settimana con il loro rilascio dal campo di detenzione statunitense della baia di Guantanamo. Un giorno, forse, ci sarà qualche inchiesta su Guantanamo. Fino ad allora, alcune delle loro affermazioni - che gli Stati Uniti con tutta probabilità smentiranno - non potranno essere confermate. Lo scorso ottobre ho trascorso quattro giorni a Guantanamo. Molto di quanto i tre uomini raccontano l'ho visto o sentito narrare da ufficiali statunitensi. Dopo essere sopravvissuti al massacro all'interno del container, i tre sono quasi morti di fame in una prigione gestita dal signore della guerra afghano, il generale Dostum. Poi con il consenso degli ufficiali britannici, furono consegnati agli americani, prima per settimane di abusi fisici in un campo di prigionia a Kandahar, poi per oltre due anni nella desolazione di Guantanamo. Mese dopo mese sono stati interrogati, per 12 ore alla volta o più, dalle commissioni di sicurezza statunitensi e ripetutamente dall'Mi5. In totale, dicono, hanno sopportato ciascuno 200 «sessioni». Le autorità da ambo le parti dell'Atlantico sono state costrette ad accettare quello che i tre uomini hanno sostenuto per tutto questo tempo - che non sono mai stati membri delle forze talebane, di Al Qaeda o di qualsiasi altro gruppo militante. Gli americani hanno giustificato la loro prigionia sostenendo che erano «combattenti nemici», ma essi non sono mai stati armati, e non hanno combattuto. «Formalmente ci hanno detto che stavamo tornando a casa domenica scorsa», dice Rasul. «Abbiamo avuto un ultimo incontro con l'Fbi, e hanno tentato di spingerci a firmare un pezzo di carta che diceva qualcosa del tipo che ammettevo di avere avuto legami con il terrorismo, e che se avessi mai rifatto qualcosa di simile, gli Stati Uniti avrebbero potuto arrestarmi». Come gli altri due prigionieri liberati la settimana scorsa, Tarek Dergoul e Jamal al-Harith, i tre si sono rifiutati di farlo.
Sangue
Sono le 3 del mattino del 13 gennaio 2002 quando Rasul, detenuto a Kandahar,
viene spostato in una nuova tenda con Iqbal. La mattina seguente i loro numeri
di riconoscimento furono chiamati ad alta voce e furono obbligati a starsene
seduti mentre dei soldati li incatenavano stretti, li facevano sedere all'interno
di una tenda e fissavano un'altra catena a un gancio nel pavimento. Al posto
delle tute blu, vennero vestiti con completi arancioni, incatenati e ammanettati
e obbligati a portare dei guanti spessi, cuciti alle maniche. Poi, dice Rasul,
«ci fecero sedere fuori, sulla ghiaia, mentre processavano tutti. Non
ci è stata data acqua per tutto il giorno». Il dispositivo di
controllo che ora erano costretti a indossare sarebbe diventato molto familiare
per i 26 mesi successivi, il «completo tre pezzi», la cintura
con una catena metallica che conduceva giù fino ai ceppi delle gambe
e a cui erano attaccate le manette. Rasul racconta: «Dissi alla guardia
che me l'avevano stretto troppo addosso, e lui rispose, sopravvivrai».
In aereo vennero incatenati al pavimento senza schienali cui appoggiarsi,
e persino quando chiesero di andare in bagno non furono liberati dalle catene.
«Ti pisciavi tutto addosso, sulle gambe. L'unica cosa che alleviava
questa deprivazione sensoriale e che mi tenne occupato nelle 22 ore di volo
fu che sentivo un dolore molto forte», dice Rasul. «Le guardie
mi dicevano di dormire, ma la cintura mi stava scavando nella carne. Quando
sbarcammo a Cuba, stavo sanguinando. Ho perso la sensibilità nelle
mani per i sei mesi successivi».
Obbedienza
Rasul e Iqbal si trovavano sul secondo volo verso il nuovo Campo Raggi X (il
primo aveva avuto luogo tre giorni prima). Quando Rasul e Iqbal atterrarono,
non avevano nessuna idea di dove fossero: «Tutto quello che sapevo era
che mi trovavo da qualche parte dove faceva un caldo terribile», dice
Rasul. «Una voce americana urlò: sono il sergente Tizio Caio,
Marina degli Stati Uniti, state arrivando alla vostra destinazione finale.
Il sole batteva senza tregua e il sudore mi colava negli occhi. Urlai per
chiedere un dottore, qualcuno mi versò dell'acqua negli occhi e poi
lo sentii di nuovo: traditore, traditore». Rasul fu l'ultimo a essere
processato, e quando alla fine raggiunse la sua cella, era ormai buio. Per
prima cosa venne completamente spogliato e, senza che gli venissero tolti
i ceppi e le catene, ricevette un pezzo di sapone e gli fu detto di farsi
una doccia, la prima dalla sua cattura. Iqbal ricorda il momento in cui i
suoi ceppi furono rimossi: «Alzo lo sguardo e vedo tutta quest'altra
gente che non era ancora stata processata, in vestiti arancioni e ceppi, e
penso che sto avendo un'allucinazione». Nei primi giorni trascorsi al
Campo Raggi X, le condizioni di prigionia erano estreme. Ai detenuti era proibito
parlare con la persona che era nella cella a fianco e, ricorda Rasul, gli
venivano somministrate minuscole porzioni di cibo: «Ti davano questo
enorme piatto con un piccolissimo mucchietto di riso e pochi fagioli».
Dopo circa una settimana ai prigionieri fu permesso di parlare con i detenuti
delle celle adiacenti, e poche settimane più tardi gli furono consegnate
delle copie del Corano, un tappeto di preghiera, lenzuola e asciugamani. Tuttavia
ciascuno di loro fu testimone di attacchi brutali o ne subì in prima
persona, in modo particolare da parte della squadra anti sommossa di Guantanamo,
la Extreme Reaction Force. Il suo acronimo aveva portato alla nascita di un
nuovo verbo, una creazione originale dei detenuti di Guantanamo: erf-ing,
«erf-are». «Essere erf-ati, dice Rasul, significa essere
sbattuti a terra da un soldato che brandisce uno scudo anti sommossa, essere
inchiodati al terreno e assaliti». Iqbal e Rasul si trovavano alle estremità
opposte dello stesso blocco di celle e gli era proibito parlarsi. Non c'era
quasi niente da fare. «Il tempo passa», dice Rasul. «Fissi
nel vuoto e le ore trascorrono ticchettando. Osservavi la gente e ti rendevi
conto che avevano dato i numeri. Non c'era più niente nei loro occhi.
Non parlavano». Mentre le settimane di prigionia diventavano mesi, qualche
volta vedevano degli psichiatri. La risposta era sempre la stessa: un'offerta
di Prozac. Durante la mia visita a Guantanamo, lo staff medico del campo mi
disse che almeno un quinto dei detenuti prendeva degli antidepressivi.
Divieti
Era impossibile conoscere a fondo le regole e sapere come evitare le punizioni.
Solo una regola era importante, dice Rasul: «Devi obbedire a qualsiasi
cosa il personale del governo statunitense ti dica di fare». A metà
del 2002 i prigionieri vennero spostati dalle gabbie aperte con muri di rete
del Campo Raggi X ai blocchi di celle metalliche prefabbricate di Camp Delta.
Là, la punizione standard era essere trasferiti in isolamento, nell'ala
di deprivazione sensoriale. Una volta, dice Ahmed, ci fu mandato per aver
scritto «Buona giornata» su una tazza di polistirene. Questo venne
considerato «un danno premeditato alle proprietà del governo
americano». In un'altra occasione fu punito per aver cantato. Le celle
erano all'incirca delle dimensioni di un materasso matrimoniale, fatte di
rete e metallo, esposte all'implacabile afa tropicale, senza aria condizionata.
Al loro interno c'era un buco nel pavimento da utilizzare come gabinetto,
un rubinetto che lasciava uscire acqua gialla e che era piazzato così
in basso che bisognava inginocchiarsi per usarlo, e uno stretto riparo di
metallo. A parte gli interrogatori, l'unica pausa in questa monotonia erano
le docce e i 20 minuti di esercizi fisici, due o tre volte la settimana. «Quando
ci trovavamo nello stesso blocco di celle con persone che parlavano inglese,
ritornavamo sulle stesse conversazioni, più e più volte»,
dice Ahmed. «Presto avevi esaurito tutte le possibilità, e ti
ritrovavi a ripetere la stessa storia quattro o cinque volte». Perfino
questo, comunque, era meglio del blocco di punizione in isolamento, o del
destino che Iqbal dovette sopportare per cinque mesi nel 2002: essere messo
in un'ala in cui tutti gli altri prigionieri parlavano solo cinese. Nel secondo
semestre del 2002, gli interrogatori furono sospesi. Ma dall'inizio del 2003
gli incontri con l'Mi5, l'Fbi, la Cia e i servizi segreti militari statunitensi
divennero sempre più frequenti. Rasul dice: «Iniziarono a chiamarci
e richiamarci, ci mostravano delle foto e ci dicevano: questo tizio dice che
hai fatto questo, questo dice che hai fatto quest'altro. Quello che volevano
dire era che altri detenuti stavano imbastendo delle storie che pensavano
potessero aiutarli a uscire dal campo».
Il video
Gli addetti agli interrogatori utilizzavano anche lo schema del buon poliziotto
e del cattivo poliziotto. «Faceva paura, anche se sapevo che cosa stavano
facendo». Meno divertenti erano le condizioni in cui gli interrogatori
venivano condotti. Durante le loro «interviste», i detenuti indossavano
il completo tre pezzi ed erano ammanettati al pavimento. L'estate scorsa la
situazione dei tre di Tipton prese improvvisamente una brutta piega. Gli americani
avevano un video di un incontro avvenuto nell'agosto 2000 tra Osama Bin Laden
e Mohamed Atta, il capo dei dirottatori dell'11 settembre. Dietro Bin Laden
c'erano tre uomini, e nel maggio 2003 qualcuno sostenne che erano Iqbal, Rasul
e Ahmed. Alla fine, dice Rasul, uno dei capi addetti agli interrogatori arrivò
da Washington e gli mostrò il video. Dichiarò con fermezza che
l'uomo nel video non gli assomigliava, né a lui né ai suoi amici,
e che nessuno di loro aveva mai avuto la barba. Nell'agosto 2000, quando il
video era stato girato, lui stava lavorando per una filiale della catena di
negozi di elettronica Curry's, ed era iscritto all'Università dell'Inghilterra
centrale. Un fatto, suggerì, che si poteva facilmente controllare.
Invece «mi dissero che potevo aver trovato qualcuno che lavorava con
me da Curry's che poteva aver falsificato i dati sul mio impiego. Arrivai
al punto di non poterne semplicemente più. Fate quel che dovete fare,
gli dissi. Me ne ero rimasto seduto là, in isolamento, per tre mesi,
perciò dissi sì, sono io. Andate avanti e processatemi».
Gli altri due fecero una confessione analoga. Lo scorso settembre, fu l'Mi5
che per una volta li aiutò, quando i suoi funzionari arrivarono al
campo con le prove che dimostravano che i tre non potevano trovarsi in Afghanistan
nel momento relativo alle accuse. Rasul dice: «Potevamo provare il nostro
alibi. Ma che cosa succederà agli altri, in particolare quelli che
vengono da Paesi in cui dati simili potrebbero non essere disponibili?».
Per coloro che confessano, e non riescono a sostenere i loro alibi, è
in attesa un processo da parte di una commissione militare statunitense e
una possibile condanna a morte. Quelli che sono stati accusati non si trovano
più a Camp Delta, rivelano i tre uomini. Sono stati spostati in un
nuovo centro di massima sicurezza, al di fuori del recinto principale, Camp
Echo (Campo Eco). Lì, dicono i tre, ci sono anche i britannici Feroz
Abbasi e Moazzem Begg, e l'australiano David Hicks. Un dettaglio della vita
di Hicks all'interno della baia di Guantanamo rivela i mezzi disperati escogitati
dai prigionieri nel tentativo di mantenere la propria sanità mentale.
Tiene occupata la propria mente cacciando e uccidendo topi. Più di
un anno fa, raccontano i tre uomini, Hicks ha rinunciato all'Islam e si è
rasato la barba. Non risponde più al richiamo per la preghiera.