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Nassiriya, nei bigliettini il dramma dei carcerati

Andrea Nicastro

Corriere della Sera, 14 maggio 2004

I messaggi gettati dalle celle: aiutateci, siamo trattati come animali. «Per giorni senza cibo e acqua». «Le prove estorte con la tortura». Le testimonianze scritte degli iracheni rinchiusi nel penitenziario gestito dai loro connazionali.

Sembrano grida d’aiuto da un regime di terrore, urla dall’Iraq di Saddam Hussein, non dal Paese guida della riscossa democratica del Medio Oriente. Invece, sono fogli scritti dai carcerati di Nassiriya l’altro ieri, in fretta, litigandosi la penna. Denunce che lasciano sconcertati. In una si legge: «Per favore, abbiamo bisogno del vostro soccorso. La vostra comprensione è la prova che siete un popolo civilizzato». Giovedì, durante la visita per la stampa, quasi una decina di fogli è scivolata tra le sbarre. I carcerati si protendevano, sgomitavano per parlare agli stranieri, consegnare le lettere nelle loro mani. «Niente foto ai detenuti» è intervenuto il capitano Malik quando ha visto le macchine scattare. «E nessuna comunicazione non autorizzata». Dei fogli usciti dalle celle, quattro si sono salvate dagli artigli del capitano solo perché già nelle tasche dell’inviato del Corriere. Lettere che parlano di una magistratura irachena al servizio dei partiti religiosi, di secondini che chiedono tangenti, di celle di punizione (non mostrate durante la visita), di dottori assenteisti capaci di prescrivere solo pastiglie per la febbre. Accuse di iracheni ad altri iracheni. Ma ce n’è anche per i carabinieri che addestrano gli agenti e supervisionano l’attività della polizia locale. E persino per l’intera nebulosa di difesa dei diritti umani. «Le forze italiane vengono in prigione e fanno foto come turisti, per mostrarci a casa alla stregua di souvenir». «Quando arrivano gli italiani, sembrano muti e sordi. Non chiedono nulla. Qualche interprete è senza dignità e onore: non traduce le nostre parole». «Non ci aspettiamo il rispetto dei diritti umani, ma quelli degli animali sì». «Non abbiamo visite dalla Croce Rossa, dalla Luna Crescente o da altre organizzazioni umanitarie». Un solo detenuto dà nome e patronimico, che però è meglio tutelare. La sua lettera ricorda la piaga delle milizie dei partiti religiosi, già denunciata dal Corriere in gennaio e pressoché ignorata dalle autorità italiane. «Sono sposato, padre di un figlio, in cella da sette mesi. Mi ha arrestato gente in abiti civili e portato a Suq Ash Shuyuk», una cittadina a 20 chilometri da Nassiriya, tra le più aggressive contro le pattuglie italiane. «I miliziani mi hanno torturato per due giorni, lasciato senza cibo né acqua, inventato testimoni e costretto a firmare una confessione. Il giudice mi ha condannato. I secondini ci maltrattano, ci chiudono in celle di punizione. Sappiate che esiste una banda guidata dal giudice Mohamed Thuweini». La stessa penna di Adil è adoperata da un altro detenuto che sostiene di scrivere «la semplice realtà che viviamo, a nome di tutti i carcerati». E, «per favore, fate avere questo scritto alla Cpa», il governo provvisorio retto nella provincia dalla governatrice italiana Barbara Contini. In due facciate scritte fitte, il Portavoce lucido e colto, organizza il discorso per punti. Eccone alcuni: «1) troppi detenuti sono condannati per crimini mai provati; 2) non vediamo mai il sole; 3) i sospetti sono torturati durante gli interrogatori: abbiamo le foto; 4) i giudici non cercano la verità, la maggior parte delle prove è estorta con la tortura; 5) in cella non c’è abbastanza acqua, né per bere, né per lavarci; 6) il cibo è cattivo e con il caldo delle celle molti si ammalano; 7) ci siamo già ribellati a questa situazione, ma è finita con due di noi ammazzati e molti feriti». Almeno quest’ultimo episodio era già noto e, probabilmente, si riferisce agli incidenti sedati dagli italiani in febbraio. Un altro lungo messaggio, scritto da una penna che pare pia e politicamente preparata, comincia con i saluti a «chi cammina sulla retta via». «Se siete onesti ammetterete che fino ad oggi non si è visto alcun miglioramento nella prigione o nella provincia in genere. Qui da noi manca l’aria e il cibo non è quello che i contratti dicono dovrebbe essere. La maggior parte dei giudici sono gli stessi dell’ex regime e le loro mani sono lorde di sangue iracheno. Ma la cosa più importante è che...». Il detenuto non finisce la frase. Probabilmente ha visto arrivare il capo delle guardie carcerarie e ha preferito consegnare almeno la prima parte della sua lettera. Sperando che serva a qualcosa.

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A Nassiriya vidi la prigione infernale

il manifesto, 13 maggio 2004

«La prigione gestita dagli iracheni era terribile e i prigionieri erano ammassati uno sull'altro. Un uomo arrestato da noi è stato poi picchiato dai militari iracheni». A parlare è un carabiniere italiano appena tornato da Nassiriya. «Paolo», chiamiamolo così, in Iraq svolgeva attività «investigative» sull'attentato di novembre e su altre azioni terroristiche. È un uomo convinto del proprio lavoro, ma racconta la sua esperienza con qualche difficoltà, spiegando quanto poco l'abbia convinto un intervento che sapeva ben poco «di pace».

Che cosa succede a una persona arrestata dagli italiani?
Prima di tutto la interroghiamo. Quindi, in base al tipo di violazione di cui è imputata ci sono iter diversi. Se la persona è accusata di attività terroristiche è affidata ai militari inglesi. Gli accusati di reati comuni, invece, vengono portati al carcere di Nassiriya, gestito dagli iracheni.

E voi invece dove li interrogate?
In una costruzione separata che, però, fa parte della base. Dentro c'è un tavolo, alcune panche e poco altro.

Ha mai assistito agli interrogatori?
Sì, qualche volta

Per quanto tempo li tenete? Alcuni giornali dicono che li fermate anche per 14 ore o di più...
È possibile che il fermo duri 14 ore, forse anche qualcosa di più. Alla fine dell'interrogatorio li consegniamo al carcere iracheno di Nassiriya o a quello di Bassora gestito dagli inglesi.

È mai entrato in queste prigioni?
Solo in quella di Nassiriya. A Bassora no.

In che condizioni era il carcere?
I prigionieri vengono ammassati in stanze di pochi metri quadrati. Dormono per terra praticamente uno sull'altro. Quando li ho visti io i prigionieri erano in pessime condizioni ma vestiti. Alcuni di loro cercavano di parlarci. Ci toccavano. Ma capire cosa dicessero era impossibile.

Le è mai capitato di assistere a torture o pestaggi nel carcere?
Non direttamente. Solo in un caso abbiamo scoperto che un nostro prigioniero era stato torturato. Era il febbraio scorso. Per la nostra attività investigativa ci capita di dover risentire qualcuno fermato in precedenza. E in quella occasione gli iracheni ci hanno riconsegnato un uomo in condizioni che non lasciavano dubbi. Non aveva fratture, ma era pieno di lividi. Credo che lo abbiano riempito di schiaffi, pugni e bastonate.

Vi ha raccontato di essere stato torturato?
Non a me, ha parlato con il medico e l'interprete.

Ma voi sapevate?
Sì, ricordo di averne parlato anche con i miei colleghi.

Cosa avete fatto?
Il nostro medico ha refertato le sue condizioni al suo arrivo e al momento di restituirlo agli iracheni.

Ma l'avete restituito agli iracheni nonostante tutto?
Sì, ma con la garanzia che sarebbe stato affidato a un reparto diverso.

Se uno di voi assiste o sa di torture cosa deve fare? Bruno ha raccontato di aver parlato con i superiori.
Non so. È un contesto particolare. Credo che anche io avrei riferito a un superiore. Dipende se è un caso isolato oppure la norma.

Se venisse fuori che anche gli italiani hanno torturato cosa penserebbe?
Poco fa mi ha telefonato un collega che era stato in Somalia ai tempi delle torture e cercava di fare un parallelo con quello che è avvenuto in questi giorni in Iraq. Lui diceva che in questi contesti, quando becchi sul fatto una persona che ha appena tirato una granata tra la folla se gli tiri due o tre calci è normale. È difficile giudicare.

E dell'intervista della moglie di Bruno cosa pensa?
Per me non è stata una iniziativa personale. Credo che qualcuno l'abbia spinta a dire quelle cose. Ma con questo non voglio dire che non siano vere.