Viaggio nell'inferno del penitenziario: in 70 in una stanza.
NASSIRIYA - Le gabbie sono le stesse che, molto probabilmente, disgustarono il maresciallo Massimiliano Bruno. Quattro metri per cinque, le sbarre fitte fitte che vanno dal soffitto al pavimento di cemento. Detenuti seduti per terra, senza letti, senza gabinetti. Il carabiniere avrebbe avuto ragione a descrivere queste celle come un posto per scarafaggi, non per uomini. E’ difficile immaginare come questi prigionieri possano dormire, calcolando a occhio che qualcuno non ha neppure lo spazio per allungare le gambe. Oltretutto, l’estate di Nassiriya è già cominciata. Il termometro arriva a 55 gradi e lì dentro, fra le sbarre, si boccheggia. Tre ventilatori appesi non bastano a far circolare l’aria pesante di un’umanità sudata e sporca.
Ci sono all’incirca 70 uomini in un unico stanzone e altri 20 nella «cella
vip», privilegiata perché ha un buco nel pavimento che fa da gabinetto.
In omaggio al pudore due muretti impediscono la vista sui lati, ma davanti solo
un cieco non vedrebbe. Un vecchio si spinge tra i compagni aggrappati alle sbarre
e per farsi notare allunga una mano. Sul palmo mostra un occhio di vetro. Il
suo. Sulla gamba una vecchia cicatrice gli ha rubato mezza coscia. A gesti cerca
di spiegare. Fa capire che lui non dovrebbe stare in prigione, che è
malato. Un altro riesce, di nascosto dai secondini, a dire a un interprete che
è dentro da 7 mesi e che non ha mai visto un avvocato. Forse mentono,
probabilmente la loro è una versione di comodo uguale a quella che si
sente in tutte le carceri del mondo, ma non è possibile verificarlo:
i secondini spingono via i giornalisti.
Sono poliziotti iracheni. E le celle sono quelle della Stazione di polizia di
Nassiriya. Polizia irachena, ma, fino al 30 giugno, con la supervisione italiana.
Per mostrarle pochi minuti alla stampa c’è voluto l’intervento
del comandante dei carabinieri Luciano Zubani e della governatrice civile Barbara
Contini. Ieri, nella visita velocissima e concessa con molte ore di ritardo,
le gabbie si presentavano nella loro forma migliore. I pavimenti delle zone
comuni erano stati appena lavati, le pale ai soffitti giravano oscillanti. Dato
lo stato pietoso della prigione, i poliziotti iracheni potevano fare poco altro
per dare ai reporter un’impressione positiva. Le strutture sono quello
che sono. Orribili. L’affollamento eccessivo. Appena scorti gli stranieri,
i prigionieri si sono affannati a scrivere e poi a far scivolare al di là
delle sbarre decine di bigliettini. Richieste di aiuto, proclami di innocenza.
Molti avevano semplicemente sete e con le mani hanno fatto il gesto di versare
acqua in un immaginario bicchiere.
Quando il maresciallo Bruno lavorava a Nassiriya era anche peggio. Allora il
comandante dei carabinieri Georg Di Pauli non concesse la visita all’inviato
del Corriere , ma un militare volle ugualmente mostrare per pochi istanti quel
girone d’inferno. Corridoi pieni di sporcizia, prigionieri piagati. Erano
almeno il doppio di quanto non siano oggi.
I militari italiani, secondo il mandato ricevuto dal Parlamento, devono creare
un ambiente di sicurezza per l’afflusso degli aiuti umanitari, assistere
e addestrare la polizia irachena al rispetto della legge locale e dei diritti
umani. In questa cornice ampia c’è spazio per l’interpretazione
dei militari. Interpretazione ampia, di maggior intervento a inizio missione,
interpretazione al risparmio adesso che le pattuglie sono prese di mira da lanciarazzi
a ritmo quotidiano e che il passaggio dei poteri del 30 giugno si avvicina.
Queste celle sono tremende - è il ragionamento di militari e carabinieri
- ma qui la miseria è ovunque e per qualcuno avere da mangiare è
già un passo avanti rispetto a come vive a casa. Non si può cambiare
tutto con la bacchetta magica.
Davanti alla governatrice Contini il responsabile iracheno della prigione, capitano Malik, racconta diligente di come le cose siano migliorate con gli «amici italiani». «L’anno scorso siamo arrivati ad avere anche 300 detenuti, ma non avevamo dottore, né gas per cucinare, né acqua a sufficienza». Oggi il governo provvisorio paga tre pasti al giorno per i detenuti, medici e avvocati. C’è dell’altro. Il capo di Stato maggiore dei carabinieri, Giorgio Giaimo, spiega che il controllo italiano può solo cercare di spingere la polizia al rispetto delle loro stesse procedure. «Verifichiamo che gli arrestati siano stati sentiti da un giudice, siano stati interrogati in presenza di un avvocato e, ovviamente, non siano stati percossi. Dai controlli a campione fatti sono fiducioso che queste regole siano sempre più rispettate».
Nel recente passato non è stato così. Il 7 febbraio due detenuti
vennero uccisi dai secondini. Probabilmente una vendetta tra militanti di partiti
diversi. L’unico a pagare fino ad oggi è stato il capo della polizia,
il colonnello Hasan, che ha perso il posto. Gli assassini sono probabilmente
ancora in servizio. Forse proprio qui, con le chiavi in mano.
In questi mesi le segnalazioni fatte dai militari dell’Arma degli abusi
compiuti dalle guardie sono state continue e numerose, ma il nostro comando
non ha il potere di rimuovere il personale iracheno denunciato. «Stiamo
per espellere una quarantina di agenti che i carabinieri hanno scoperto essere
corrotti e violenti» spiega la governatrice italiana Contini. L’ok
però deve venire da Bagdad, dal governo del proconsole Usa Paul Bremer,
ma si fa aspettare da mesi.
Gli italiani in sostanza hanno la responsabilità, ma non l’autorità
e tutto, in ultima analisi, dipende dagli americani.
«Le cose per i detenuti miglioreranno con l’apertura della nuova
prigione» insiste la Contini. Il nuovo penitenziario per 200 detenuti
è stato ricavato da un’ex caserma di Saddam. Il capo delle guardie
non è uno splendido biglietto da visita. Mohamed Feisal ha il grado di
capitano e la faccia tosta di ammettere che «quando c’era ancora
Saddam ho torturato anch’io dei prigionieri». La ristrutturazione
è costata al governo Bremer la bellezza di 400 mila dollari. Difficile
capire dove siano finiti. Ci sono un generatore di corrente, i serbatoi dell’acqua
e un campo di calcio. Ma non solo i mobili devono ancora arrivare. I pavimenti
sono in cemento, impossibili da pulire. I lavandini sono due per cento persone,
i gabinetti sei e già maleodoranti. Anche qui ce n’è abbastanza
per scandalizzarsi e chiamare casa raccontando le brutture dell’Iraq.