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Fuori dall'inferno

Enrico Piovesana

PeaceReporter, 21 gennaio 2004

Stanno per essere rilasciati dal carcere di Shebargan centinaia di prigionieri di guerra talebani. Sono tra i superstiti del più orrendo crimine di guerra commesso durante la campagna militare Usa in Afghanistan.

I parenti dei detenuti stanno arrivando a Shebargan a centinaia. Sono partiti lunedì dai loro villaggi nell'Afghanistan meridionale subito dopo il discorso con cui il presidente Hamid Karzai ha annunciato per i prossimi giorni la scarcerazione di 3-400 prigionieri di guerra talebani di nazionalità afgana. Non si tratta di detenuti qualsiasi, perché Shebargan non è un carcere qualunque.

Questo carcere nel deserto di Dasht-i Layli, nell’estremo nord dell’Afghanistan, a poche decine di chilometri dai confini con Uzbekistan e Turkmenistan, è stato teatro alla fine del 2001 della più orrenda pagina della guerra degli Stati Uniti contro il regime dei talebani. I circa 950 detenuti di Shebargan, metà afgani e metà pachistani, sono i sopravvissuti di una strage di almeno 2.500 prigionieri perpetrata dalle feroci milizie uzbeche del generale Abdul Rashid Dostum, oggi membro del governo Karzai e ai tempi alleato degli Stati Uniti. Un crimine di guerra sul quale gli americani fecero qualcosa di più che chiudere un occhio, prendendovi parte con le proprie forze militari e soprattutto con i consiglieri dell’Fbi e della Cia che affiancavano i comandanti del Jumbesh-i Milli, la formazione politico-militare uzbeca di Dostum.

Era passato un mese e mezzo dalle stragi dell’11 settembre 2001 e la guerra Usa in Afghanistan era già praticamente vinta. Kabul era caduta da un paio di settimane, ma nel nord i talebani resistevano ancora. La battaglia di Kunduz, a inizio dicembre, fu la Waterloo dei regime del mullah Omar. Dopo giorni e giorni di violentissimi bombardamenti Usa e combattimenti con gli uzbechi dell’Alleanza del Nord, circa seimila combattenti talebani, afgani, pachistani, ‘arabi’ e ceceni, si arresero.

Alcune centinaia vennero portati nella fortezza del generale Dostum, Qala-i Janghi, una ventina di chilometri fuori da Mazar-i Sharif. Già questi fecero una brutta fine nella famosa ‘rivolta spontanea’: i guardiani uzbechi e i soldati dei corpi speciali Usa li massacrarono; poi intervenne l’aviazione (le ‘mitragliere volanti’ Ac-130 e gli elicotteri Black Hawk) a finire il lavoro.

Ma una sorte ancor peggiore toccò al grosso dei combattenti arresi. Vennero stipati e sigillati, trecento alla volta, in container d’acciaio, sui quali iniziarono un viaggio di tre giorni verso il carcere di Shebargan. In almeno 2.500 non ci arrivarono mai. Morirono soffocati o di sete durante il trasporto, e molti altri vennero fucilati in massa. Montagne di cadaveri che vennero poi buttati in fosse comuni nel deserto appena fuori Shebargan. Fosse scoperte solo molti mesi dopo perché sopra sono state create discariche di rifiuti per mascherare il fetore dei copri in decomposizione. Ma anche perché quelli che sapevano non hanno parlato in seguito alle minacce subite ad opera degli uomini di Dostum, rimasto successivamente signore di queste regioni.

I prigionieri che arrivarono a destinazione nel carcere di Shebargan, quasi tremila, forse hanno rimpianto di non aver fatto la stessa fine dei loro compagni. Le condizioni di detenzione erano, soprattutto all’inizio, tremende, disumane. In celle costruite per cinque persone ne venivano stipate quaranta. Non si potevano mai sedere: sempre in piedi con le mani legate dietro la schiena. Le razioni di acqua e cibo, che la Croce Rossa fornì solo per alcuni mesi, non bastavano. La denutrizione e la sete uccisero decine di prigionieri. Molti di quelli successivamente rilasciati non riuscivano nemmeno più a deglutire da quanto erano disabituati ad ingoiare cibo. Le malattie dilagavano e uccidevano: scabbia, malaria, febbre, patologie respiratorie. E poi le violenze fisiche: quelle non mancavano per nessuno.

Non è un caso che ad accogliere gli scarcerati di Shebargan non ci siano solo le loro famiglie, ma anche gli infermieri di Emergency (che nel carcere ha aperto un ambulatorio nel 2002), pronti a prestare le prime cure a detenuti malati ed anziani.