La lunghissima storia di Shebarghan e del tragico deserto circostante.
Shebargan, nel nord dell'Afghanistan, a un centinaio di chilometri da Mazar-i-Sharif, con il suo famigerato carcere e il deserto di Dasht-i-Layli che la circonda evocano una delle pagine più nere della storia recente del paese. La sabbia del deserto ha inghiottito le vittime delle varie ondate di repressione, vissute dal martoriato paese e perpetrate dagli invasori sovietici prima, poi dai taleban che qui hanno sepolto circa 3.000 afghani di etnia hazara, e infine dalle milizie di Rashid Dostum assistite da agenti statunitensi e britannici. Quest'ultima tragedia si è consumata dopo la battaglia di Kunduz (inizio dicembre 2001), l'ultima sacca di resistenza taleban ai bombardamenti americani. Dopo scontri cruenti, 5.000 combattenti - taleban, pakistani, ceceni e «arabi» - ormai ridotti alla fame, si erano arresi all'Alleanza del nord ed erano stati consegnati al generale uzbeko Rashid Dostum. 800 erano stati portati a Qala-i Janghi, a una ventina di chilometri da Mazar-i Sharif, nella fortezza di Dostum, tra i più sanguinari signori della guerra. I prigionieri furono rinchiusi nel magazzino e massacrati.
Quando, nel giugno del 2002, avevamo visitato la fortezza, sul tetto del magazzino c'erano ancora gli enormi squarci provocati dalle bombe sganciate dagli Ac-130 e Black hawk americani per sedare, si disse, la rivolta dei detenuti. Di 800, solo 86 sopravvissero, tutti gli altri morirono così come 86 guardie. I sopravvissuti furono portati al famigerato carcere di Shebargan. Dove erano stati inviati anche tutti gli altri combattenti,arresisi a Kunduz, ammassati nei container.
Di circa 5.000 partiti da Kunduz a Shebargan ne sarebbero arrivati solo poco più di 3.000, gli altri - morti per soffocamento o per le ferite riportate quando alcuni agenti avevano sparato sui container «per farli respirare», altri ancora finiti con un colpo alla nuca - sono stati sepolti nelle fosse scavate nel deserto di Dasht-i Layli, di cui abbiamo trovato i segni evidenti e testimonianze durante la nostra visita a Shebargan nel giugno 2002 (il manifesto, 18 giugno 2002).
Altre testimonianze sulle fosse comuni e sulle torture sono state raccolte in un rapporto di John Hefferman dell'organizzazione americana Physicians for human rights (il manifesto, 29 maggio 2002), ignorato dall'amministrazione americana. Sparizioni e torture, quelli che la legislazione internazionale definisce «crimini di guerra», rimasti impuniti, sono state ben documentate anche da Jamie Doran nel suo «Massacro a Mazar», presentato al parlamento europeo e a quello italiano e trasmesso anche da Rai tre, nella rubrica «C'era una volta», e descritte in un articolo su Le monde diplomatique/il manifesto (settembre 2002). Le torture praticate nel carcere di Shebargan da agenti della Cia che dovevano scegliere gli elementi sospettati di avere rapporti con l'organizzazione di Osama bin Laden, al Qaeda, da inviare nella base militare Usa di Guantanamo a Cuba - colpi all'osso del collo e lesioni nervose irreversibili provocate dal fatto di essere stati per troppo tempo con le mani legate dietro la schiena - ora potrebbero riacquistare visibilità alla luce di quanto si sta scoprendo in Iraq.
Non solo, i primi detenuti rilasciati dal carcere sovraffollato di Shebargan, alla fine di maggio (2002), ci avevano raccontato di essere stati costretti a vivere in condizioni disumane: in una cella costruita per cinque persone erano ammassati fino a 40 prigionieri, «non riuscivamo nemmeno a sederci». E in condizioni igienico-sanitarie tremende, dopo essere stati rilasciati alcuni non riuscivano più nemmeno a deglutire e per giorni sono stati costretti a nutrirsi solo con acqua zuccherata. La riduzione del numero di detenuti aveva ridotto ma non eliminato i problemi.