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Un thè caldo nel carcere dei taleban

Valentino Parlato

il manifesto, 9 maggio 2004

Visita alla famigerata prigione di Shebarghan dalla quale devono essere evacuati 450 prigionieri in trasferimento a Kabul. Racconto di un luogo sinistro, di uno sciopero della fame e di un viaggio con i ferri attraverso l'Afghanistan. Emergency. La spesa per il noleggio dei pullman e per l'acquisto del cibo e delle bevande indispensabili alla sopravvivenza di tutti, nel corso del lungo viaggio di trasferimento dei prigionieri incatenati, dal carcere lontano a quello della capitale sono stati pagati dall'organizzazione umanitaria.

La notizia che venerdì scorso 450 persone fatte prigioniere siano state trasferite dal carcere di Shebargan a quello di Kabul, qui sarebbe una notizia di prima pagina, se qui ci fossero i giornali. Forse sbaglio - ma penso di no - se ritengo che una notizia di questo genere sia invece di scarso interesse per gli italiani, anche per quelli che leggono il manifesto. Ma vediamo un po' cosa c'è sotto: c'è l'Afghanistan oggi, c'è il regime carcerario; ci sono i taleban, la storia della loro prigionia; e c'è anche qualche considerazione su questo cambio di alloggio e sul fatto che gli interventi umanitari - quando sono veramente umanitari - finiscono per avere un risultato politico. Questi carcerati (molti di loro sono stati interrogati ieri da me e da Enrico Piovesana di PeaceReporter: Noi due siamo stati i primi giornalisti a entrare «dentro» il carcere di Shebargan) dicono di essere stati con i taleban ma di non avere mai sparato un colpo di fucile (uno di loro però mi ha detto: «I am a warrior»). Dicono di essere caduti nelle mani del locale signore della guerra Abdel Rashid Dastum nel novembre del 2001. Sono stati fatti prigionieri in un numero imprecisato, da 5mila a 13mila; però in carcere ne sono arrivati solo 3.600. Molti furono semplicemente ammazzati; altri rimasero vittime del locale metodo per impedire ai prigionieri di fuggire: quello di chiuderli in containers e magari, come è accaduto, dimenticarli. All'arrivo, ci dice un prigioniero, viaggiando in uno di questi containers, di 270 rinchiusi, ne siamo usciti vivi solo in 26; poi quando i rinchiusi gridavano di star soffocando, i vincitori sparavano sventagliate di mitra sulle pareti dei containers per far entrare aria. Ma entrava aria mista a pallottole. Nel carcere di Shebargan è rimasto uno di questi containers; c'è il divieto di fotografare ma noi lo abbiamo fotografato.

Alla domanda se nel carcere abbiano subito torture in pubblico, negano debolmente, ma a quattrocchi ti raccontano che soprattutto durante gli interrogatori fioccavano non solo botte ma anche frustrate con cavi elettrici. Sulle torture in verità c'è poco da dubitare visto i comportamenti pubblici precedenti. Questi stessi taleban, oggi sofferenti, non esitavano a tagliare, in segno di punizione, braccia o gambe alle persone a loro sgradite; per poi appendere questi monconi di braccia o di gambe a degli alberi in modo che il popolo imparasse a comportarsi bene e ad obbedire al loro Allah. Nessun dubbio quindi sulle torture: qui la violenza è di casa. Per i taleban la prigione di Shebargan è stata durissima e piena di memorie dolorose: all'inizio erano 3.600 in un carcere fatto per 500 persone. Il sovraffollamento era mortale: anche in 70 in una cella di 10 metri quadri quindi molte malattie, molta tubercolosi.

Gli stessi prigionieri, quando siamo riusciti a entrare nel carcere, hanno tenuto a dirci che senza l'aiuto di Emergency molti di loro sarebbero già belli e morti. Oltre all'assistenza sanitaria - è stato aperto un ambulatorio all'interno del carcere - Emergency ha dato cibo e tappeti per non dormire sulla nuda terra e si è incaricata anche di costruire e poi di garantire la manutenzione dei servizi igienici.

A proposito dell'ingresso nostro nel carcere debbo ricordare un significativo episodio. Ci si era appiccicato un terzetto americano dell'Associated Press e anche loro chiedevano di entrare, non solo nel luogo del cosiddetto spazio d'aria, ma anche dentro le celle. Quando lo hanno saputo, i carcerati hanno organizzato un bailamme. Una cosa erano i giornalisti presentati da mister Jiino (Strada) e dalla signora Kate (Rowlands); tutt'altra cosa per gli americani. Così anche noialtri abbiamo rischiato di non entrare, ma infine ci hanno fatto passare.

Ma perché siamo andati a Shebargan? Perché i reclusi avevano deciso e praticato lo sciopero della fame per protesta, pubblicizzando o cercando di pubblicizzare con grandi manifesti affissi nello spazio del cortile del carcere. Mi ha colpito, per l'inglese approssimativo, un grande manifesto con la scritta «Appetite Strike». Poi mi hanno spiegato che i prigionieri che sapevano bene l'inglese e lo «sapevano» più degli altri - una settantina in tutto - erano stati subito selezionati e spediti a Guantanamo. Altri manifesti (alcuni anche di apprezzamento per Emergency) dicevano: «Perché volete ucciderci con la tubercolosi?» e un altro ancora più drammatico «O fuori dal carcere o morti». E c'era anche una minaccia di suicidi a catena. Il punto è che tutti costoro che dovrebbero essere considerati prigionieri di guerra, o anche criminali di guerra (in tal caso processati) stanno in carcere senza sapere se e quando usciranno.

Il carcere non è più affollato come una volta, ha una struttura antica e divisa in tre lunghi corridoi; le celle sono disposte su ciascuno dei due lati dei corridoi. Celle con porte di legno, non sbarre e alcune anche sopraelevate. Si potrebbe dire che queste celle, a differenza di quelle con le sbarre, consentano una certa privacy al carcerato, ma consentono anche una privacy ben più pericolosa al carceriere. I carcerati sono divisi in tre settori, così distribuiti: un corridoio per i pakistani che sono la maggioranza, uno per gli afghani e un altro per i comander (i comandanti) che sono circa 80: i graduati dell'esercito dei taleban.

Entriamo nel braccio dei pakistani, accompagnati da un distinto giovane che parlotta l'inglese e ci fa da traduttore. Per scelta - credo io - non si lamentano, ma quel che rifiutano assolutamente è questa prigionia a tempo indeterminato. Così il passaggio dal carcere di Shebargan a quello di Kabul appare loro come un passo avanti. Ci invitano in una cella sopraelevata e ci offrono del tè. Hanno un grande contenitore di tè caldo, ma per girare lo zucchero nel bicchiere mi hanno gentilmente offerto una biro. Visti da vicino -come quasi per tutti accade - questi taleban fanno anche simpatia e poi ci sono sempre le singolarità: uno ci dice che viveva a Karachi, dove gestiva un negozio di cosmetici: uno dei taleban che vende rossetti è difficile da immaginare. Poi, prosegue il racconto, è venuto a trovarmi un mullah che mi ha convinto a seguirlo in Afghanistan, per aiutare i nostri fratelli musulmani. In una cella vediamo Kate Rowlands, protagonista di questa impresa che circondata da un bel po' di carcerati, scrive e prende banconote. Non capisco, ma la spiegazione è sintomatica del rapporto di fiducia tra Emergency e questi sventurati. Loro sanno bene che all'uscita dal carcere saranno perquisiti e alleggeriti del loro denaro: quindi affidano tutto a Kate che mette nomi e soldi in buste diverse che poi troverà il modo di andare a riportarli nel carcere di Kabul.

Alla fine i carcerati vengono incolonnati verso l'uscita e regolarmente legati con una catena ai polsi e un'altra ai piedi che stringe le caviglie di due persone diverse. Per terra ci sono vari mucchietti di chiavi che poi all'arrivo a Kabul non si troveranno. In queste condizioni sono caricati su nove introvabili pullman (uno porta la scritta Roussillon Voyages). Va detto, per capire un poco come vanno le cose qui, che la spesa per il noleggio dei pullman che dovrebbe essere a carico dello stato, è sostenuta da Emergency, un soggetto privato che però ha fornito anche i sacchetti di cibo e le bevande per il viaggio. Alla fine il convoglio dei pullman di carcerati, con la scorta militare armata anche di lanciarazzi, la flottiglia di garanzia di Emergency, parte da Shebargan alle cinque del pomeriggio.

Tra controlli militari, soste per pipì anche degli incatenati, guasti di auto, difficoltà di percorso, il viaggio si conclude verso le cinque del pomeriggio del giorno dopo. Il percorso è molto lungo e aspro: bisogna arrivare al passo di Salang, con la strada sbilenca e coperta di neve. Al passo di Salang c'è un lungo tunnel preceduto da un viadotto coperto, contro le frane, ma ora la copertura del viadotto è stata totalmente distrutta dalle bombe e dalle cannonate. Viaggiando, si incontra ogni tanto qualche carro armato arrugginito. Anche qui sovrasta la catena dell'HinduKurh. HinduKurh significa «ammazza indiani»; un modo per ricordare un antico massacro di indiani che volevano entrare nel paese: qui di massacri ce ne sono stati: indiani, inglesi, russi e non è finita.

All'arrivo a Kabul, davanti al grande carcere di Pol-i-Chiark, i poveretti abbastanza distrutti dal viaggio e dallo sciopero della fame cominciano a scendere a due a due e non si trovano più le chiavi dei lucchetti (quasi tutti Made in China). Così provano a romperli a martellate, inutile: si rinvia lo scatenamento al ritrovamento delle chiavi. L'accoglienza delle guardie del posto è buona, quasi cordiale.

A me questo carcere con le sbarre di ferro sembra più triste di quello di Shebargan, dove il lungo corridoio faceva pensare anche a un suq. Invece il pakistano, che era stato nostra guida a Shebargan, ci dice che qui va molto meglio, che la protesta è servita e che l'azione umanitaria di Emergency anche. Stare in un carcere del governo centrale (il ministro responsabile del sistema carcerario riceve prontamente la delegazione di Emergency) è sicuramente meglio che in quello del signore della guerra, generale Dastum, del quale i superstiti taleban hanno tremenda memoria. Ma la storia di questi prigionieri non è affatto finita. Vogliono uscire dal carcere e vivere - la nostra guida del carcere si vuole anche sposare - ma il debole governo di Karzai (che pure ha fatto un gesto di buona volontà) non se la sente di liberare questi ex combattenti in un Afghanistan diviso e niente affatto pacificato. L'Afghanistan non è affatto pacificato, il Pakistan non è affatto tranquillo ed è tutto aperto il nuovo grande gioco del quale ha scritto Ahmed Rashid nel suo libro sui taleban. La partita non è finita; due giorni fa, nel sud, dalla parte di Lashkar, sono sbarcati oltre 2.500 marines americani con l'obiettivo di stabilirvi una loro base.