Clandestini, ora Tunisi adotta la linea dura
E gli scafisti passano dalle navi ai gommoni
Fabrizio Gatti
Corriere della sera, 26 agosto 2003
Cap Bon (Tunisia) - Avrebbero sbattuto in carcere anche la giovane Fatima.
Avrebbero trattato da criminale questa futura mamma con il pancione rotondo
di quasi otto mesi. Solo la forza del mare e la morte, cinquanta metri sotto
le onde del Mediterraneo, le hanno risparmiato il disonore di far nascere
il suo bambino sul materasso sporco di una cella arroventata. Perché
qui, in Tunisia, hanno preso sul serio le pressioni del governo italiano e
dell'Unione europea. Linea dura non solo contro chi guadagna con l'immigrazione.
Ma tolleranza zero anche contro gli immigrati. Non importa se sono appena
sopravvissuti a un naufragio, se sono stati rapinati di tutti i loro risparmi,
se chiedono aiuto. Così i 35 compagni di viaggio di Fatima, gli unici
graziati dall'ultima grande tragedia di fine giugno a Sidi Daoud, sono passati
direttamente dai battelli di salvataggio alla prigione. Gli altri 33 sono
rimasti liberi. Ma non hanno più avuto il modo di raccontarlo. E chissà
che, a insistere, non si arrivi davvero all'uso dei cannoni. Del resto, anni
fa, le navi militari con la bandiera rossa e la mezza luna bianca hanno già
sparato sui pescatori italiani.
Fatima è stata restituita alla sua famiglia in Marocco. E così
anche il suo bimbo è ritornato a casa senza mai avere visto il mondo.
I militari della Guardia nazionale, i carabinieri della Tunisia, non dimenticheranno
quel corpo salito a galla dopo ore. "Erano partiti su un grosso scafo
di legno - racconta chi era in servizio quella notte -. Ma erano in troppi.
Chi ha organizzato il viaggio li ha sfruttati fino all'ultimo centimetro libero.
E quando sono usciti al largo, la barca si è riempita d'acqua. Fino
ad affondare. Però gli altri li abbiamo salvati, trentacinque. Li abbiamo
tutti arrestati". Arrestati? "Si, arrestati - ripete il militare
del distretto di Nabeul -. I marocchini e qualche nero dell'Africa sono stati
poi espulsi e rimpatriati. I tunisini no, sono rimasti in carcere". Erano
gli organizzatori del viaggio? "No - risponde - i boss non li abbiamo
mai presi, gente di Sfax. No, erano tunisini e basta. Da noi è clandestino
chi arriva illegalmente. Ma anche chi parte illegalmente è un clandestino.
È giusto che vada in carcere".
Il sottufficiale sorride, nella sua camicia color cachi nuova di fabbrica.
Anche il rinnovo delle divise segue l'accordo con il governo italiano. Come
l'arrivo lungo le coste della Tunisia di tre nuove motovedette. O come le
nuove condanne per chi viene sorpreso ad attraversare il mare, magari dopo
aver già attraversato il deserto del Sahara. "Da quindici giorni
a un mese di carcere per l'immigrato clandestino - spiegano alla Guardia nazionale
-. Fino a sei anni per chi organizza il viaggio. Ma si può aumentare,
se succede qualcosa di più grave. Alcuni di quelli arrestati a Sidi
Daoud sono ancora dentro. Perché? E perché un tunisino dovrebbe
andarsene dalla Tunisia? Le cose si fanno regolarmente. O non si fanno".
Sette tunisini sono sbarcati ieri a Pantelleria, dopo i trentasei eritrei
arrivati, sempre ieri, a Lampedusa su un rottame galleggiante partito forse
dalla Libia. Bourben Naceur, 40 anni, vorrebbe tanto essere uno di loro. E
forse presto lo sarà. Ha già un piccolo record personale di
espulsioni dall'Europa: due dalla Francia, una dalla Grecia, "e pensare
- dice - che in Italia avevo il permesso di soggiorno. Abitavo a Milano, a
Porta Genova. Facevo il piastrellista. Ma il mio sogno era e rimane Parigi.
Ah, che città. Non c'era ancora l'Unione europea. Così quando
è finito il lavoro a Milano, sono andato a Parigi e mi hanno espulso.
In Tunisia, non a Milano".
Bourben Naceur sta respirando l'aria fresca della notte con quattro amici
sul marciapiede del porto di Kelibia, la città africana più
vicina all'Italia. Sessanta chilometri di mare da Pantelleria. Per questo
è diventata la città dei traghettatori. I contatti buoni per
partire si trovano sempre alla Baracca, il bar dei pescatori. Ma non è
più come prima. "Perché partire dalla Tunisia? Guarda che
è solo perché ci mancano i soldi per farlo, altrimenti vedi
noi cinque? Quattro di noi - si risponde da solo Bourben - partirebbero stanotte
stessa. Basta provare a vivere in Tunisia. Qui, se solo si dice che non c'è
lavoro, ti accontentano. Chiamano il maresciallo della polizia e ti consegnano.
Ti mantengono loro, sì, per qualche anno ai lavori forzati in un carcere.
E le carceri qui sono tutte nel Sud. Nel deserto".
Ma adesso è ancora più difficile partire. I costi sono saliti.
Da 700 a 1.000 euro, si dice.
"Dopo gli accordi con l'Italia, la polizia ha avuto l'ordine di essere
più severa - continua Bourben Naceur -. Allora da qui non partono più
le grosse barche. Kelibia e le sue spiagge sono troppo esposte. Si va su piccole
barche, dalle insenature. Magari due o tre amici si mettono insieme, comprano
una barca usata, un vecchio motore e vendono il quarto o quinto posto per
pagarsi le spese. Come da anni succede tra la Spagna e il Marocco. Qui da
Kelibia è facile. Pantelleria è vicina. Ma è a Est, troppo
piccola da cercare senza bussola. Meglio puntare a Nord. La Sicilia è
grande. Due o tre giorni ci sbatti contro. Certo che se manchi la Sicilia,
prima che arrivi a Genova sei morto. Un amico l'ho perso così. Però
mi chiedo: se alla televisione italiana gli industriali dicono che non trovano
lavoratori, perché il governo italiano non alza le quote d'ingresso
per gli stranieri? Adesso l'unico modo per venire a lavorare in Italia è
rischiare la morte su una barca".
Gli abitanti di Kelibia sono abituati ai naufragi. A volte i pescatori raccolgono
teschi, femori, quello che il Mediterraneo nasconde dopo i mille e più
immigrati morti in pochi mesi. C'è perfino un cognome in città
che ancora ricorda una tragedia del passato. Nel Settecento o forse prima,
si racconta, una nave inglese affondò qui davanti. Solo un marinaio
si salvò, arrivando a nuoto sulle spiagge bianchissime sotto la gigantesca
fortezza bizantina. Non tornò più indietro. E oggi i suoi discendenti
portano quel nome di famiglia: El Ingliis, l'inglese.
Fatima non ce l'ha fatta a nuotare fino a riva. Anche lei sarebbe finita sulla
spiaggia bianca come la neve. Sidi Daoud è una baia famosa per la pesca
del tonno. Da Kelibia bisogna doppiare Cap Bon e proseguire lungo la strada
per Tunisi.
La notte dell'ultima grande tragedia, domenica 29 giugno, le navi della Guardia
costiera italiana e tunisina sono tutte impegnate. Cercano ancora i 200 cadaveri
di un barcone partito dalla Libia e affondato pochi giorni prima davanti alla
Tunisia, ma molto più a Sud. I passatori ne approfittano. Portano i
furgoni carichi di immigrati a Nord. Sessantotto, tra uomini e donne. Tunisini
della campagna. Ma anche marocchini e ragazzi neri del Sahel. Li scaricano
nella piana di Sidi Daoud, tra i canneti e i campi di peperoni rosso fuoco
che nascondono il mare. Anche il vecchio peschereccio l'hanno fatto arrivare
da Sud.
La barca di legno si avvicina con il motore al minimo. Nel buio è solo
un ronzio, davanti all'isola di Zembra. I primi 300 metri verso l'Italia,
per Fatima e gli altri, sono una camminata nell'acqua bassa. La nave, invisibile,
li attende scricchiolando sulle onde. Le loro cose sono ancora lì,
sulla riva, tra i mucchi di alghe marce. Una scarpa da donna. Un maglione
verde. Due vertebre di un corpo restituito a pezzi. Una ciabatta di gomma.