PRIMA DEL DILUVIO
gli avvenimenti che dal 1998 al marzo 1999
hanno precedutola guerra in Jugoslavia
Le due interpretazioni più diffuse, soprattutto a sinistra, del conflitto in atto in Kosovo sono da un parte quella dello scontro etnico tra i due maggiori gruppi nazionali dell'area, albanesi e serbi, e dall'altra quella di una situazione artificialmente creata dalle grandi potenze. Un breve sguardo agli eventi che hanno segnato l'evolversi di tale conflitto negli ultimi dodici mesi, nonché alle sua radici più recenti, fornisce tuttavia un quadro che è in aperta contraddizione con queste due tesi.
IL CONFLITTO IN KOSOVO
Le prime avvisaglie di una radicalizzazione della situazione in Kosovo si sono avute nell'autunno del 1997. In particolare, nel mese di ottobre di quell'anno, gli studenti organizzavano delle massicce manifestazioni con le quali richiedevano uno sblocco della situazione intollerabile in cui i giovani kosovari si trovavano a vivere ormai da anni: strutture educative e sanitarie fatiscenti, disoccupazione altissima, repressioni poliziesche violente e incessanti. L'insoddisfazione degli studenti era ulteriormente accentuata dalle politiche attendiste, e spesso autoritarie, seguite dalla dirigenza della "società parallela" creata in Kosovo dopo la cancellazione di ogni autonomia politica da parte delle autorità di Belgrado, avvenuta nel biennio 1989-1990. Inoltre, nei due anni precedenti, in seguito agli accordi di Dayton del 1995, si erano fatte sempre più improbabili le ipotesi di un sostegno occidentale alle richieste di indipendenza degli albanesi del Kosovo, richieste che, sia sotto Tito sia sotto Milosevic, hanno sempre incontrato un netto rifiuto da parte dell'Occidente.
Le manifestazioni degli studenti hanno portato alla luce le ampie divergenze esistenti all'interno del movimento albanese: il "presidente-ombra" Rugova ha immediatamente fatto proprie le richieste ufficiali di statunitensi ed europei, i cui rappresentanti si sono in quell'occasione precipitati in un folto gruppo per intimare l'annullamento delle mobilitazioni, delle quali si temeva potessero radicalizzare una situazione che si voleva proseguisse intatta. La primavera precedente, infatti, gli Stati Uniti, con un apposito tour del loro rappresentante Kornblum, avevano convinto Rugova a rimandare le elezioni per il parlamento parallelo del Kosovo, già in ritardo di un anno, nella prospettiva di una partecipazione degli albanesi alle elezioni parlamentari previste in Serbia per l'inverno di quell'anno, un progetto che proprio nei mesi estivi del '97 aveva provocato un'evidente spaccatura all'interno delle forze politiche albanesi, sicuramente non estranea alle mobilitazioni studentesche. Gli studenti non hanno accettato le richieste di Rugova e dell'Occidente e hanno continuato per vari giorni le proprie mobilitazioni, manifestando un'aperta simpatia per le posizioni più attiviste di esponenti come Adem Demaci. Nel novembre dello stesso anno, e nei due mesi successivi, si è avuto un altro sviluppo che costituiva un segno della radicalizzazione della situazione: nella regione centrale della Drenica, gruppi dell'Esercito di liberazione del Kosovo erano riusciti a respingere, armi alla mano, alcuni degli abituali raid delle forze speciali serbe nell'area, conquistando un controllo di fatto di un'area limitata, ma significativa. L'UCK era stato fino a quel momento un'organizzazione di carattere prettamente terrorista, fondata nel 1992 da gruppi di origine marxista-leninista in dissidio con la politica di resistenza passiva di Rugova e diventata operativa nel 1996. In quegli stessi giorni dell'inverno 1997-1998 l'UCK ottiene un importante successo politico con la comparsa in pubblico, per la prima volta, di suoi esponenti che pronunciano a viso scoperto un acceso discorso durante il funerale di un albanese ucciso dalle forze di polizia serbe. Poco più di un mese dopo, si verifica in sordina un altro importante evento: l'espulsione di fatto dalla Lega Democratica del Kosovo, il partito di Rugova che controlla praticamente tutte le istituzioni della società parallela, di alcuni alti funzionari in dissidio con il leader del partito, mentre anche il premier in esilio del governo kosovaro, Bujar Bukoshi, prende sempre più le distanze da Rugova che quindi, pur conservando un ampio controllo politico, viene a trovarsi in una situazione sempre più vacillante.
Parallelamente, a Belgrado, il regime di Milosevic si trova nuovamente in una difficile situazione politica, dopo avere superato la crisi provocata dalle grandi manifestazioni del 1996-1997. Alla disastrosa crisi economica, per la quale non si vedono vie d'uscita a breve termine, si aggiunge una diminuzione del consenso politico che si esplicita nella sconfitta del candidato del partito socialista di Milosevic alle elezioni presidenziali. Dopo una ripetizione del voto con il nuovo candidato socialista, Milutinovic, riesce a vincere di strettissima misura. Contemporaneamente si ha un rafforzamento dell'ultranazionalista Partito Radicale di Seselj, che viene in breve tempo cooptato nel governo. I socialisti si trovano così sempre più costretti a spartire la "torta" del potere con due alleati, spesso con interessi conflittuali, come i Radicali e la JUL (Sinistra Jugoslava Unita), guidata dalla moglie di Milosevic.
Nel febbraio del 1998 gli organi di stampa della regione balcanica cominciano a parlare sempre più insistentemente dell'imminente scoppio di un conflitto armato in Kosovo. A livello politico, il presidente della vicina Macedonia, Gligorov, un ex-comunista che ha buoni rapporti con il governo di Belgrado, ma anche con gli USA, giunge a ipotizzare a metà febbraio la creazione nel suo paese di un corridoio "umanitario" per deportare fino a 400.000 profughi dal Kosovo in Albania.
In tale contesto, e nonostante siano in atto continue repressioni delle forze serbe, con operazioni anche di vasta portata, le grandi potenze compiono alcuni passi importanti verso un'ulteriore distensione delle relazioni con Belgrado: gli USA cancellano parte delle sanzioni economiche ancora in atto contro Belgrado e l'UE concede alla Jugoslavia lo stato di nazione favorita nei rapporti economici con i paesi europei, mentre si accenna alla possibile integrazione di Belgrado nell'OSCE. Inoltre, l'inviato statunitense nei Balcani Gelbard, definisce apertamente come "terrorista" l'UCK.
Di lì a poco, tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo, le forze speciali serbe, con il pretesto della risposta ad azioni dell'UCK, mettono in atto una serie di durissime azioni nel Kosovo centrale con atti intenzionali di violenza contro la popolazione civile, come avviene per esempio ai primi di marzo, quando nella regione della Drenica vengono uccise circa 80 persone, tra cui molti anziani, donne e bambini. Si tratta di un fatto che suscita un'enorme indignazione tra gli albanesi del Kosovo e che nelle settimane successive porterà molti di loro ad aderire in massa all'UCK, per convinzione o per il puro bisogno di difendersi dalle operazioni delle forze serbe, che si intensificano progressivamente fino a diventare vere e proprie operazioni di guerra con l'evidente scopo di "ripulire" il Kosovo centrale dalla presenza dei guerriglieri e impedire il diffondersi della rivolta in tutta la provincia.
L'eclatanza degli eccidi non poteva essere ignorata dalle capitali occidentali, che fanno rientrare in gioco il Gruppo di contatto, una struttura creata a suo tempo per affrontare il conflitto bosniaco e che rimarrà nei mesi successivi il principale canale di azione politica delle grandi potenze in Kosovo. Il Gruppo di contatto, composto da USA, Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia e Russia, condanna le repressioni serbe (con importanti distinzioni al suo interno, come quelle del ministro degli esteri italiano Dini, che si preoccupa in particolare di denunciare il comportamento degli albanesi), ma non adotta alcuna misura concreta, rimandando più volte i propri già timidi ultimatum e adottando infine solo una serie di sanzioni di scarsa rilevanza politica, come il congelamento dei beni jugoslavi all'estero o il divieto di atterraggio degli aerei jugoslavi nelle capitali occidentali, sanzioni che verranno tra l'altro annullate da lì a due mesi.
Contemporaneamente, i paesi del Gruppo di contatto esercitano forti pressioni affinché gli albanesi creino un gruppo di negoziatori e avviino trattative con Milosevic, ma questa richiesta provoca una frattura ancora più profonda tra le forze albanesi, visto che Rugova, il quale continua a essere indicato esplicitamente dai paesi occidentali come il loro unico referente, intende avere il pieno controllo di ogni mediazione politica. In particolare, Rugova, appoggiato in ciò esplicitamente dall'Occidente, e in particolare dagli USA, vuole formare tale gruppo di negoziatori dopo lo svolgimento delle elezioni per la presidenza e il parlamento "paralleli" degli albanesi del Kosovo, previste per il 22 marzo dopo essere state rimandate d'autorià e su richiesta occidentale per due anni. Le forze che gli si oppongono, non solo l'UCK o il Partito Parlamentare di Demaci, ma ormai anche alcuni leader fuoriusciti dalla LDK, sono nettamente contrarie a che si tengano elezioni mentre in tutto il Kosovo è in atto, di fatto, uno stato di guerra che impedisce ogni dibattito democratico e decidono di boicottarle. Nonostante questo, la dirigenza kosovara procede al voto e la LDK ottiene il controllo assoluto del parlamento, oltre che la riconferma di Rugova a presidente. Il team di negoziatori che viene successivamente formato comprende solo uomini strettamente a lui legati, oltre a un paio di esponenti moderati (Surroi e Bakalli) che non fanno riferimento ad alcuna forza politica.
Sul campo, nel frattempo, l'UCK riesce a difendersi spesso con successo dagli attacchi serbi e in alcuni casi addirittura a migliorare le proprie posizioni. Le grandi potenze, che in questi mesi, così come avevano fatto in passato, hanno continuato a ribadire a chiare lettere la propria opposizione a ogni ipotesi d'indipendenza del Kosovo, premono sempre più affinché vengano aperte trattative guidate dal gruppo di negoziatori nominato da Rugova, ma gli albanesi insistono nell'affermare che per l'apertura di qualsiasi trattativa è necessaria innanzitutto una cessazione delle operazioni militari sul campo. Dopo breve tempo, tuttavia, Rugova decide di aderire alle richieste occidentali, scavalcando ogni dibattito democratico e senza che nessuna delle condizioni degli albanesi venga soddisfatta e si reca a Belgrado in visita da Milosevic, accompagnato solo da alcuni suoi stretti collaboratori, proprio mentre le forze serbe svolgono una cruenta offensiva lungo i confini con l'Albania. Milosevic incassa con questo incontro la cancellazione delle sanzioni precedentemente imposte alla Jugoslavia e i complimenti personali del mediatore statunitense Holbrooke e di Madeleine Albright. L'incontro tuttavia non produce alcun risultato concreto, vista la scarsissima rappresentatività di Rugova, che, tra l'altro, fino a pochi giorni prima continuava a sostenere che l'UCK non esisteva o era solo un'invenzione dei servizi segreti serbi. L'unica conseguenza di questo incontro è stata quella dell'inasprirsi degli scontri sul terreno.
A giugno le forze serbe si trovano ad avere perso il controllo di buona parte del territorio del Kosovo ed è proprio in questo momento che entra per la prima volta in campo la NATO, con la minaccia di effettuare raid aerei, progetto ben presto rientrato a favore di un ben più ambiguo piano di schieramento di forze del Patto Atlantico in Macedonia e in Albania, ai confini con il Kosovo, il cui effetto sarebbe stato soprattutto quello di arrestare i flussi di armi destinate all'UCK. Ma anche questo progetto viene accantonato, viste le difficoltà logistiche in Albania e quelle politiche in Macedonia, paese con un'ampia minoranza albanese e dove sono imminenti decisive elezioni politiche.
Così, mentre l'UCK amplia sempre più il proprio controllo del terreno, giungendo non lontano da Pristina e conquistando un importante centro minerario, le grandi potenze riprendono le proprie attività diplomatiche, che vedono questa volta il mediatore statunitense Holbrooke incontrare alcuni esponenti dell'UCK, nel tentativo di convincerli ad accettare la leadership di Rugova e del suo parlamento per aprire trattative con Belgrado. Le componenti più influenti dell'UCK non accettano tale ipotesi e vengono a trovarsi in una posizione sempre più isolata: l'UCK é oggetto non solo dell'ostilità dei paesi occidentali e della LDK di Rugova, comunque allo sbando, ma anche del premier in esilio Bukoshi, che gestisce tutte le raccolte di fondi all'estero, un canale di finanziamento vitale per la guerriglia, e che da qualche tempo, dopo una breve ed evidentemente non radicale frattura, si è riallineato con Rugova. Non è un caso che, dopo l'affronto del "rifiuto" opposto a Holbrooke, l'UCK diventi oggetto di una campagna propagandistica, di chiara matrice statunitense, che ne afferma i legami con gruppi fondamentalisti islamici.
Fallito il tentativo statunitense, così come ogni tentativo di Rugova di fare riconoscere all'UCK e ai partiti di opposizione il proprio parlamento come organo rappresentativo del Kosovo, mentre coloro che si oppongono a Rugova chiedono la creazione di un Consiglio di Unità Nazionale dove vengano rappresentate equamente tutte le forze, UCK compresa, le capitali occidentali cessano di fatto ogni attività diplomatica, mentre le forze speciali serbe danno il via a un'altra offensiva massiccia e distruttiva, che in agosto comincerà a dare i primi risultati con la conquista da parte delle forze di Belgrado di importanti centri, come per esempio Malisevo e Junik. La tattica usata nel corso dell'estate è quella della "terra bruciata", messa in atto con il bombardamento a distanza dei villaggi e la successiva penetrazione delle forze speciali al loro interno per completare l'opera di distruzione. Si viene così a creare un enorme flusso di rifugiati (allla fine dell'estate saranno almeno 300.000) perlopiù all'interno dello stesso Kosovo, ma che mette in difficoltà anche i paesi vicini come l'Albania e il Montenegro.
A livello politico, l'unico fatto rilevante è il definitivo rifiuto di Rugova di dare vita a strutture rappresentative dell'intero spettro politico albanese e la conseguente nomina di Adem Demaci, che abbandona la propria carica di presidente del Partito Parlamentare, a rappresentante politico dell'UCK. A settembre le fratture all'interno del movimento albanese si fanno più evidenti e assumono in alcuni casi un carattere violento: viene ferito in Albania, in circostanze misteriose, il portavoce dell'UCK, Jakup Krasniqi e poco più tardi, il 21 settembre, a una sola settimana dal tentato "golpe" di Berisha, viene ucciso a Tirana Ahmed Krasniqi, capo delle FARK (Forze Armate della Repubblica del Kosova). Queste ultime sono state create dal governo in esilio di Bukoshi, da tempo ritornato sulle medesime posizioni di Rugova, allo scopo di assumere dall'esterno la direzione militare dell'UCK, alla quale rimprovera una mancanza di strategia e di competenze militari, oltre a una struttura troppo "orizzontale" e insufficientemente gerarchica. A tale scopo, vengono reclutati nelle FARK comandanti con un curriculum ben diverso da quello dei comandanti sul terreno: si tratta in massima parte di ex ufficiali dell'Esercito jugoslavo, alcuni dei quali con un passato molto dubbio, come lo stesso Ahmed Krasniqi, che nel 1991 ha partecipato all'assedio di Osijek, in Croazia, dalla parte dei serbi.
Lo scontro ha anche una sua dimensione politica, che coinvolge in parte l'Albania: tra la fine di settembre e i primi di ottobre vi è uno scambio di reciproche accuse tra il Quartier generale dell'UCK, che tra le altre cose condanna il tentato golpe di Berisha a Tirana, e lo stesso Berisha, che accusa senza mezzi termini l'UCK di non avere accettato nell'estate il consiglio degli statunitensi di accettare la leadership di Rugova e di aprire trattative con Belgrado. Berisha inoltre si scaglia contro i capi dell'UCK definendoli degli "avventurieri marxisti" e ricordando loro che è necessario seguire i consigli della comunità internazionale per giungere a "una nuova Dayton, nella quale i principi secondo cui i confini non devono essere cambiati con la violenza e il principio dell'autodeterminazione vengano armonizzati".
In realtà a lungo termine diventerà evidente che proprio questi ultimi fattori, l'accettazione del dettato occidentale e della leadership di Rugova, da una parte, e la disponibilità a rinunciare all'indipendenza in cambio della protezione di USA ed Europa, sono al centro degli obiettivi delle FARK e dei loro ispiratori, Bukoshi, Berisha e Rugova. L'operazione FARK riuscirà soltanto a metà: la sigla che la contraddistingue scompare nel giro di poche settimane, ma molti di questi comandanti riusciranno a conquistare posizioni importanti all'interno dell'UCK che, mai molto coesa al suo interno, assumerà così un'identità ancora meno facilmente individuabile.
A settembre le forze serbe hanno ripreso ormai il controllo di gran parte del Kosovo, mentre le strutture dell'UCK sono in rotta e circa il 20% degli abitanti della regione vive in condizioni di profugo. E' a questo punto che tornano in campo le cancellerie occidentali e la NATO afferma che sono in corso di preparazione piani per eventuali bombardamenti della Serbia (piani che tuttavia nel giugno precedente erano stati dichiarati dalla stessa NATO come già pronti), mentre riprendono le pressioni per l'apertura di trattative tra albanesi e serbi, pressioni nel cui ambito viene presentata una prima bozza di accordo del mediatore statunitense Hill, che prevede per il Kosovo solo l'autonomia e, parallelamente, ha come proprio punto centrale la garanzia dell'integrità territoriale della Jugoslavia. Con la formulazione di un ultimatum per l'apertura di trattative, pena bombardamenti NATO contro obiettivi serbi, si ha un'escalation artificiale della tensione, che dura fino all'arrivo all'ultimo minuto a Belgrado del mediatore Holbrooke, che era stato emarginato dai processi diplomatici dopo l'insuccesso dell'estate precedente.
Holbrooke giunge il 13 ottobre a un accordo "di pace" con la controparte serba, in virtù del quale vengono sospese le minacce di bombardamento. Il particolare più eloquente di questo accordo è che esso viene stipulato unicamente tra Holbrooke e Milosevic, senza che la parte albanese venga in alcun modo coinvolta. L'accordo, mai reso pubblico in versione integrale o ufficiale, prevede la cessazione delle ostilità, la riduzione delle forze serbe presenti in Kosovo (ma la cifra stabilita in un primo momento viene aumentata di lì a pochi giorni), l'apertura di trattative e l'arrivo in Kosovo di una missione di osservatori, che viene successivamente affidata all'OSCE, un'organizzazione che non vanta alcuna esperienza di questo tipo, ma che risulta molto conveniente dal punto di vista diplomatico, poiché al suo interno vi sono tutti i paesi europei, Russia inclusa, più gli Stati Uniti.
Per alcune settimane vi è un'effettiva diminuzione delle ostilità, dovuta anche alla sconfitta subita dall'UCK sul terreno, ma quello che sembra fallito in partenza è il processo delle trattative, in conseguenza anche della sempre più evidente competizione tra gli Stati Uniti e l'UE riguardo a chi dovrà avere l'egemonia di un processo di pace. Mentre i verificatori OSCE tardano a insediarsi in Kosovo (ai primi di dicembre dei 2000 previsti ne erano arrivati solo 700) il mediatore statunitense Hill, in collaborazione con i vari rappresentanti di UE e OSCE, stende ai primi di novembre una nuova bozza di accordo che, rispetto alla prima, prevede maggiori garanzie per gli albanesi e la creazione di una forza di polizia del Kosovo, ma esclude ancora esplicitamente ogni prospettiva di indipendenza e ogni meccanismo di autodeterminazione, anche in tempi futuri, per i kosovari. La proposta viene rifiutata da entrambe le parti, anche se quella albanese afferma che si tratta di una base per possibili future versioni più accettabili, a patto che venga presa in esame l'effettuazione di un referendum per l'indipendenza dopo un periodo temporaneo di tre o cinque anni.
Nello stesso periodo, in Serbia vengono avviate tutta una serie di clamorose epurazioni a livello politico: vengono rimossi dal loro incarico il capo dei servizi segreti, il numero due del Partito Socialista e, infine, il Capo di Stato maggiore dell'Esercito Perisic, noto per avere ai tempi raso al suolo la città di Mostar, in Bosnia, ma con buoni agganci con l'Occidente e in particolare con la NATO. Contemporaneamente, vengono aperte trattative con l'ex oppositore Vuk Draskovic, che nei primi giorni del '99 entrerà infine nel governo di Belgrado, mentre, con un astuto giocare, vengono fatti rientrare vari scioperi e manifestazioni con la scusa dell'"emergenza nazionale". Sempre a novembre, viene decisa la creazione di una forza NATO in Macedonia per la protezione dei verificatori OSCE in Kosovo, forza che verrà successivamente ampliata fino a trasformarsi a febbraio nel nucleo di un possibile intervento diretto della NATO in Kosovo. A livello internazionale, si tratta di una missione di estrema importanza, perché è la prima del Patto Atlantico interamente europea.
Ai primi di dicembre, dopo alcune settimane di stallo, viene presentata una nuova bozza di accordo di Hill, che questa volta accoglie apertamente numerose richieste della parte serba (come il controllo da parte del sistema giudiziario serbo dei tribunali del Kosovo, il diritto di veto delle minoranze nazionali su ogni questione di importanza vitale, mentre nemmeno l'integrità del Kosovo viene più salvaguardata, essendo esplicitamente citata la possibilità di una sua spartizione). La parte albanese lo rifiuta immediatamente in blocco e, dopo breve, anche quella serba: con gli albanesi divisi politicamente, e le potenze occidentali divise anch'esse su chi dovrà avere il controllo di un eventuale accordo, Belgrado coglie l'occasione per lanciare una serie di offensive, la più importante e massiccia delle quali sarà quella di Podujevo alla vigilia di Natale, preparata con cura nei giorni precedenti mediante un massiccio ridispiegamento di forze pesanti serbe in Kosovo. Uno degli obiettivi delle forze serbe è quello di logorare la guerriglia dell'UCK e di costringerla a consumare scorte di munizioni e altri materiali militari, tagliando contemporaneamente le sue vie di rifornimento, il tutto in vista della prevista ripresa delle ostilità a tucco campo in primavera.
Nelle settimane successive al Natale le offensive di questo tipo si moltiplicano, mentre i rappresentanti occidentali se la prendono soprattutto con gli albanesi, con particolare veemenza in particolare gli europei. Questi sviluppi culminano il 15 gennaio con la strage compiuta dalle forze serbe nel villaggio di Racak. Quest'ultimo si trova al centro di una zona controllata dalle forze UCK più ostili a Rugova, nella quale nei giorni precedenti al massacro le forze speciali serbe avevano condotto una vasta offensiva con carri armati e artiglieria pesante che provoca un'ondata di profughi. Si tratta di un'operazione che viene semplicemente registrata dai verificatori OSCE, senza alcuna denuncia esplicita di quanto in corso. Il 15 gennaio le forze serbe entrano a Racak e compiono un massacro uccidendo 45 albanesi, tra i quali un bambino e alcuni anziani, senza subire alcuna perdita. Il fatto viene scoperto solo il giorno successivo e, al di là dell'ampio risalto datogli dai media, non provoca nell'immediato reazioni concrete in ambito occidentale: la Casa Bianca adotta una linea di basso profilo e convoca solo una riunione di viceresponsabili dei vari settori competenti per la politica estera, mentre gli europei, in sede NATO, premono affinché si prenda tempo prima di assumere una posizione.
A tale proposito non si può notare la sospetta coincidenza delle "rivelazioni" lanciate da alcuni giornali francesi, che in realtà non rivelano nulla sulla dinamica dei fatti e provengono inoltre da fonti anonime che hanno visitato il villaggio varie ore dopo che le forze serbe vi avevano cominciato le loro azioni e su invito di queste ultime, girandovi un filmato che non è mai stato mostrato a nessuno. Il successivo, discorde avviarsi di una nuova ondata di iniziative diplomatiche, avviene in un momento in cui gli albanesi stavano per avviare un difficile processo di trattative politiche, su iniziativa in particolare degli ambienti più vicini a Demaci, per raggiungere una posizione unitaria, ma equa.
Su iniziativa soprattutto europea, viene annunciata in tutta fretta una conferenza di pace con scadenze precise e con la minaccia, senza tuttavia alcun ultimatum preciso, di passare a bombardamenti o a operazioni di blocco dei rifornimenti di armi all'UCK nel caso in cui la trattativa avesse dovuto fallire o le parti avessero dovuto rifiutare di parteciparvi. I tempi fissati sono troppo stretti perchè possa svolgersi la prevista serie di incontri tra le varie parti albanesi alla ricerca di una posizione comune: le ali albanesi moderate accettanno immediatamente la proposta della conferenza, che si svolgerà a Rambouillet, così come la parte serba, dopo uno scontato voto in parlamento.
La decisione dell'UCK di partecipare ha invece un corso più travagliato: il rappresentante politico dell'organizzazione, Adem Demaci, si pronuncia contro la partecipazione alla conferenza perché la bozza di accordo presentata alle parti prevede solo un'autonomia con la conservazione dell'integrità territoriale della Jugoslavia e nessuna prospettiva per un'autodeterminazione dei kosovari, nemmeno dopo un periodo transitorio. Demaci tuttavia lascia l'ultima parola al Quartier Generale dell'UCK, che dopo alcuni giorni decide di partecipare alla conferenza. Il resto è cosa di questi giorni: le trattative convulse all'ultimo minuto, la prima proroga e, visto il mancato accordo delle due parti, un'ulteriore rinvio al 15 marzo per una nuova conferenza a Parigi, mentre Belgrado continua a rifiutare il piano di dispiegamento di forze NATO in Kosovo e all'interno dell'UCK persistono forti divisioni in merito all'accordo, in particolare riguardo alla cancellazione di ogni prospettiva di indipedenza e al disarmo dell'UCK stesso.
IL MASSACRO DI RACAK
Il massacro compiuto nel villaggio di Racak (Recak in albanese) il 15 gennaio del 1999 è stato uno degli atti più barbari della guerra in Kosovo. Le modalità della sua esecuzione sono state successivamente oggetto di una campagna di disinformazione di vasta portata, che ha coinvolto le autorità serbe, giornalisti occidentali anonimi, osservatori OSCE e perfino la stessa Unione Europea. Si tratta di un evento che riassume in sé molte delle caratteristiche di questa guerra e che è avvenuto in un momento cruciale dell'evolversi della situazione sul terreno.
I fatti
Nelle prime ore del pomeriggio di venerdì 15 gennaio 1999, il Media Center di Pristina, un'agenzia di informazioni controllata dalle autorità serbe, cita fonti del Ministero degli Interni serbo secondo cui nel corso di un'operazione "di arresto" condotta nel villaggio di Racak sono stati uccisi 15 terroristi albanesi e sequestrati ingenti quantitativi di armi. Nei giorni precedenti, le autorità serbe e jugoslave avevano sferrato nuovi attacchi e dispiegato sul terreno nuove unità in tutto il Kosovo, ma in particolare lungo il confine con l'Albania e nell'area orientale, lungo un asse nord-sud che corre parallelamente alla linea ferroviaria e stradale Belgrado-Skopje e che per i serbi segna grosso modo il confine tra quello che chiamano il Kosovo propriamente detto e la Metohija (Dukadjin). Una linea che non a caso, secondo il progetto di alcuni accademici serbi vicini al governo, potrebbe costituire il confine per un'eventuale futura spartizione del Kosovo con l'attribuzione alla Serbia della parte piùricca e strategicamente importante a est. Il villaggio di Racak, nei pressi della città di Stimlje, si trova proprio sulla parte sud di questo confine segnato da rilievi, non lontano dalla Macedonia. Intorno all'8-9 gennaio in questa zona, sulla strada tra Pristina e Suva Reka, che attraversa prima Stimlje e poi un passo che solca i rilievi sui quali si trova Racak, vi erano stati ingenti movimenti di forze armate serbe, con attacchi contro alcuni villaggi. Il massacro di Racak non è stato quindi un evento isolato e improvviso.
La scoperta della vera portata del massacro avverrà solo il giorno seguente, il 16 gennaio: svariati cadaveri vengono trovati in diversi punti del villaggio (posto sul pendio di un monte), uno di essi mutilato, ma il gruppo più consistente verrà trovato in un canalone sito 500 metri sopra il villaggio stesso: 27 uomini, alcuni dei quali anziani, giacevano massacrati lungo in una macabra fila lunga svariati metri. I corpi sono stati ritrovati da verificatori della missione OSCE, chiamati dal comandante del non nutrito gruppo UCK che aveva cercato senza successo di contrastare l'offensiva serba. In realtà, verificatori OSCE e giornalisti avevano già osservato a distanza l'offensiva del giorno prima, su diretto invito delle autorità serbe. Su questo particolare ritorneremo più avanti nella parte riguardante la successiva operazione di disinformazione.
Gli abitanti del villaggio raccontano che forze della polizia sono penetrate nel villaggio all'alba, hanno costretto donne e bambini a rinchiudersi nelle cantine e hanno portato via un gruppo di uomini affermando che li avrebbero trasferiti nella vicina città di Urosevac. La versione che darà il ministero degli interni serbo, il 16 gennaio, a massacro scoperto, è la seguente: la polizia serba si è recata a Racak per arrestare i responsabili dell'omicidio di un poliziotto, avvenuto qualche giorno prima, ed è stata oggetto di un "feroce attacco" da parte dei "terroristi" dell'UCK (tanto feroce che sono morti 45 "terroristi", mentre le forze serbe lamentano solo un ferito lieve). Si tratta di una spiegazione che viene addottata in quel periodo regolarmente dalle autorità serbe per i massacri compiuti, come avverrà per esempio successivamente a Rogovo, dove in una "operazione di arresto" dei presunti uccisori di un poliziotto serbo, verranno uccisi 24 albanesi, mentre i serbi lamenteranno solo una vittima.
Due giorni dopo il massacro di Racak, Belgrado esporrà la sua interpretazione "teorica" dei fatti: gli albanesi sarebbero rimasti uccisi durante gli scontri tra la polizia stessa e forze dell'UCK e nella notte, uomini dell'UCK avrebbero tolto le divise ai 45 uomini, uno per uno, rivestendoli con abiti civili per dare l'impressione di un massacro compiuto contro tranquilli abitanti del villaggio. Belgrado, tuttavia, non spiegherà mai perché, in tal caso, i propri uomini, dopo avere ottenuto una tale vittoria schiacciante contro l'UCK, se ne siano andati tranquillamente a casa, senza mantenere il controllo del villaggio. Il fatto più importante da notare, tuttavia, è che le autorità serbe non hanno mai negato la sostanza dei fatti di quanto è avvenuto a Racak, cioè il massacro di 45 albanesi.
Il dramma di Racak, tuttavia, non finisce così. Subito dopo la scoperta del massacro, il 17 gennaio, le forze serbe hanno ripreso gli attacchi contro Racak (dove era stata organizzata la camera ardente per le vittime) con mezzi corazzati e cannoni, costringendo i pochissimi albanesi rimasti e i verificatori OSCE a un fuggi-fuggi generale. Il 19 gennaio, il quotidiano serbo "Dnevni Telegraf" riferisce che "sulla cresta dei colli al di sopra di Racak sembra siano in corso "operazioni simultanee in tre o quattro villaggi della regione. Non lo sappiamo ancora con precisione, ma sembra che stia accadendo. Sembra trattarsi di un piano per passare sistematicamente da un villaggio all'altro". Nella stessa giornata, e per il secondo giorno di seguito, i poliziotti serbi hanno eseguito nuovi assalti contro Racak per portare via i corpi dei 45 albanesi uccisi, conseguendo alla fine il loro obiettivo. Sempre il "Dnevni Telegraf" pubblica una notizia dell'agenzia Beta che ha del clamoroso e che dà un'idea del comportamento della missione dei verificatori OSCE: il portavoce dell'OSCE Sandy Blyth ha infatti dichiarato che i verificatori hanno presenziato al momento in cui i poliziotti hanno prelevato i corpi, ma ha aggiunto di non sapere ancora se essi avevano anche accompagnato la polizia lungo l'intero tragitto fino a Pristina. Alla domanda se si cercherà di fare in modo che i corpi vengano restituiti ai parenti, Blyth ha detto di non saperlo e che tutto dipende dagli accordi tra i parenti delle vittime e le autorità jugoslave.
I funerali avverranno poi molti giorni dopo, successivamente a crudeli ed estenuanti trattative tra i famigliari e le autorità serbe. Infine, a più di due mesi di distanza, il massacro di Racak avrà un altro, cinico, risvolto. Con notevole ritardo, e dopo che le autorità serbe avevano proceduto per loro conto a un'autopsia dei cadaveri in collaborazione con medici bielorussi, è giunta in Kosovo un équipe di medici finlandesi, scelti di comune accordo tra l'UE e il governo di Belgrado, con la mediazione del sottosegretario agli esteri italiano Ranieri. Passeranno lunghissime settimane prima che tale équipe svolga il suo lavoro e metta a punto le proprie conclusioni. Ma quando queste ultime sono pronte (siamo a metà marzo e sono in corso i negoziati di Parigi per un accordo di pace, dopo che quelli di Rambouillet erano falliti) la Germania, che ha la presidenza di turno dell'UE, decide di secretarle. La spiegazione dei responsabili europei, citata dal "Washington Post" del 17 marzo, è la seguente: "a causa della estrema delicatezza del caso, l'UE chiede ai patologi di non rendere pubblici i particolari più incendiari, per non polarizzare le due parti delle trattative in corso e non impedire così un'accettazione [dell'accordo] da parte dei serbi". La responsabile dell'équipe, Helena Ranta, rilascerà solo uno scarno riassunto delle autopsie, esprimendo unicamente la propria convinzione che le vittime sono civili.
La disinformazione sul massacro di Racak
Lunedì 18 gennaio, due giorni dopo che il massacro è stato scoperto, a Bruxelles si concludeva con un nulla di fatto la riunione della NATO che, causa le evidenti divisioni interne, decideva di prendere tempo prima di adottare una propria linea. In particolare il corrispondente a Bruxelles del quotidiano "Nova Makedonija" riferisce della decisione da parte della NATO di attendere l'esito della missione dei suoi due inviati a Belgrado, nonché i risultati di un'indagine del Tribunale dell'Aja. Il quotidiano scrive inoltre che "la NATO vuole essere sicura di cosa sia veramente accaduto a Racak prima di attribuire la colpa solo a una parte del conflitto, come ha fatto l'OSCE, e prima di impegnarsi nuovamente con un'azione militare" ("Nova Makedonija", 19 gennaio).
A ventiquattro ore di distanza da questa riunione, puntualmente, vengono annunciate imminenti rivelazioni che getterebbero una nuova luce sul massacro di Racak. Queste rivelazioni si basano su fonti anonime citate dalla France Presse, secondo cui intorno alle 17 del 15 gennaio, osservatori OSCE, a distanza più o meno di un'ora dal termine dell'assalto delle forze al villaggio, sono entrati nel villaggio e non hanno visto né osservato nulla. In realtà il fatto era noto, anche se é stato comunicato dall'OSCE in ritardo: gli osservatori, entrati nel villaggio a operazioni concluse, hanno parlato con un paio di abitanti, hanno visto un morto e alcuni feriti, ma se ne sono andati via quasi subito perche' stava calando l'oscurità (ai verificatori OSCE è vietato muoversi al buio perche' il rischio di "incidenti" aumenta troppo).
I corpi delle persone uccise sono stati trovati successivamente, come abbiamo visto, in un canalone, nascosto da cespugli e situato a cinquecento metri di distanza, al di sopra del villaggio, su un terreno montagnoso. Secondo le testimonianze date dallo stesso "Le Monde" alcuni giorni prima (19 gennaio), un abitante del villaggio ha raccontato (e gli stessi particolari sono stati confermati in maniera identica da numerosissimi altri testimoni) che la mattina di venerdì le forze speciali serbe, dopo un giorno di cannoneggiamenti a distanza nell'area, sono "entrate nel villaggio. Sono andate di casa in casa. Hanno chiuso le donne nelle cantine. Dal granaio dove mi ero nascosto, li ho visti costringere gli uomini a seguirli, con un'arma sulle tempie. Non sono uscito che quando é calata la notte, quando i poliziotti se ne erano andati". Gli abitanti del villaggio, terrorizzati da 24 ore di bombardamenti prima e poi dall'irrompere delle forze speciali della polizia, andatesene via solo poco piu' di un'ora prima del calare dell'oscurità, o sono rimasti nascosti o, in piccolo numero, sono usciti quando sono arrivati i verificatori OSCE. Le forze serbe sono sempre rimaste nei pressi di Racak e nel giro di pochi minuti avrebbero potuto tornare. Inoltre, gli abitanti hanno visto i loro parenti essere portati via dalla polizia ufficialmente per essere interrogati nella vicina città di Urosevac. Non vi era motivo, dopo che la polizia aveva comunque già ucciso e ferito alcune persone nel villaggio e rimaneva comunque nei pressi, pronta a intervenire, perché degli abitanti tagliati da 48 ore fuori dal mondo si mettessero a ricercare al buio sui pendii circostanti i corpi di persone che tutti avevano visto portare via come arrestate.
Ma mentre fino a qui abbiamo solo speculazioni che accusano gli abitanti di un villaggio coinvolto in un'offensiva durata due giorni di non essersi messi a sangue freddo a fare gli Sherlock Holmes al buio e con i cannoni serbi a poca distanza, mentre non sapevano nulla del destino dei loro parenti, la stampa francese riporta dei "fatti" che, analizzati per intero, squalificano immediatamente l'intera operazione propagandistica. Ecco questi presunti fatti, come li raccontano "Le Monde" del 21 gennaio e "Le Figaro" del 20 e del 21 gennaio, i giornali che hanno lanciato i "retroscena" della strage.
Due giornalisti della televisione dell'Associated Press (APTV) sarebbero entrati nel villaggio a fianco delle forze serbe, accompagnati da due cameramen serbi che avrebbero filmato un villaggio vuoto e una "normale" operazione di guerra. Una delle fonti francesi ("Le Monde", 21 gennaio), più in particolare scrive: i due giornalisti "alle 10 del mattino entrano nella località nella scia di un veicolo blindato della polizia. Il villaggio era quasi deserto. Procedono nelle vie del villaggio sotto il fuoco dei tiratori dell'UCK, nascosti nei boschi che dominano il villaggio", ma poco piu' sotto specifica: "la mattina dell'attacco, una fonte della polizia telefona all'APTV: 'Venite a Racak, sta succedendo qualche cosa'. Dalle 10 [del mattino] l'equipe é sul posto; effettua prima dei filmati da un rilievo al di sopra del villaggio [un particolare, molto importante, in aperta contraddizione con quanto appena scritto sopra, secondo cui alle 10 i giornalisti entrano nella localita', non a caso un termine ambiguo, e ne percorrono le vie!] e successivamente nelle strade nella scia di un veicolo blindato". Infine, "alle 15.30 la polizia abbandona il posto sotto i tiri sporadici di un pugno di combattenti dell'UCK. [...] Un'ora dopo la loro partenza, cala l'oscurità". Questo racconto, che come abbiamo visto contiene una palese contraddizione, non rivela assolutamente nulla di rilevante. Infatti, lo stesso "Figaro" (20 gennaio) scrive che l'operazione era cominciata all'alba (la tattica normalmente adottata in questi casi ed anche la piu' logica), un particolare confermato dal rapporto dell'OSCE, secondo il quale gli abitanti del villaggio hanno dichiarato che l'operazione é cominciata alle ore 7.00 ("New York Times", 22 gennaio) con i poliziotti che hanno terrorizzato la popolazione, facendola chiudere nelle cantine e portando via i maschi adulti. I due giornalisti sono stati chiamati per telefono dalla polizia serba alle 8.30 e sono giunti nei pressi del villaggio alle 10, cioé quando tutto quello che e' stato raccontato dagli abitanti locali si era potuto compiere comodamente. Le "rivelazioni", pertanto, non hanno alcuna rilevanza fattuale. Inoltre, alle 10 i cameramen serbi messi a disposizione dei due giornalisti hanno fatto filmati solo da lontano, mentre sono entrati nel villaggio solo a un'ora e per una durata che non a caso non precisano. E non é tutto: come conferma lo stesso "Le Monde", tra il ritiro della polizia e il calo dell'oscurità é passata appena un'ora, vale a dire un periodo comunque assolutamente insufficiente per effettuare una ricerca dei corpi sul territorio montagnoso intorno al villaggio, sempre tenendo presente che nessuno pensava ci fossero dei corpi da cercare.
Sempre "Le Monde" specula in maniera odiosa sulle tragedie degli abitanti di Racak, affermando che il villaggio non é che una piazza d'armi dell'UCK: "La quasi totalità degli abitanti che sono fuggiti da Racak durante la terribile offensiva serba dell'estate del 1998 con qualche eccezione, non sono tornati". Non solo si dice la "quasi totalità", un termine vago che vuol dire che comunque degli abitanti c'erano ancora, ma non si capisce come tutto questo quadri con il numero di 2.000 profughi che tutte le fonti, UNHCR compresa, riferiscono essersi rifugiati sulle colline al di sopra di Racak e che un altro quotidiano francese, "Liberation", ha visitato alcuni giorni dopo, rilevando che donne e bambini passano le loro notti all'aperto con 10 gradi sotto zero ("Liberation", 23 gennaio). Inoltre, la vasta offensiva con mezzi pesanti operata dall'esercito jugoslavo e dalla polizia serba, ha colpito anche i villaggi contigui a Racak e molte persone nella tremenda confusione degli attacchi condotti da piu' lati sono fuggite da un villaggio all'altro.
Ma non é tutto: a questo punto chi legge forse pensa che almeno siano disponibili dei filmati girati da due giornalisti con nome e cognome. Non é assolutamente così. I nomi di questi due giornalisti non sono stati resi noti, il filmato non é stato reso pubblico, l'AP ha aperto un'inchiesta e finora non si é pronunciata ("Figaro", 21 gennaio). Non si può non rilevare che l'operazione é stata organizzata dalla polizia serba, che ha chiamato i giornalisti all'ultimo momento, secondo i tempi che evidentemente le convenivano. I giornalisti che si sono prestati a questa operazione, hanno accettato di muoversi nel villaggio "nella scia" dei blindati serbi senza quindi potersi muovere liberamente. Non sono entrati nelle case e se hanno visto qualcosa, hanno visto unicamente quello che la polizia serba voleva far loro vedere e nel momento in cui lo voleva. Ancora una volta, però, non é tutto: le immagini sono state girate il 15 gennaio, il 16 i media di tutto il mondo sono puntati su Racak, ma i giornalisti non rivelano nulla. Le loro rivelazioni avvengono solo tra il 18 e il 19 gennaio, quando, come abbiamo visto, la NATO (e, come sanno tutti, in particolare i suoi membri europei e la Francia in primo luogo) ha bisogno di prendere tempo e che insorgano dei dubbi in merito. Queste persone anonime, perché tali rimangono fino a oggi, non mostrano il filmato in pubblico, non lo vendono ad alto prezzo affinché venga reso pubblico con un'operazione che li renderebbe famosi in tutto il mondo, ma lo fanno visionare solo ad alcuni giornalisti francesi selezionati. Questo e non altro sono le "rivelazioni", lanciate in contemporanea alle disgustose insinuazioni sulle "mancate" indagini da parte delle vittime dell'attacco serbo, di cui abbiamo visto sopra la sostanza.
I giornalisti francesi, sulla base di quanto sopra, procedono a tutta una serie di domande che avallano implicitamente l'ipotesi (che comunque non regge, come avevamo già visto in "Notizie Est" #148) di una messinscena da parte dell'UCK. Oltre a quanto abbiamo rilevato sopra, ci poniamo anche noi alcune domande: perché le forze serbe hanno diffuso in tutto il mondo il giorno di venerdì la notizia dell'uccisione di almeno una quindicina di guerriglieri albanesi a Racak, ma nelle testimonianze dei giornalisti della APTV non ve ne é traccia, nonostante stessero lavorando in collaborazione proprio con la polizia serba, cioé la fonte di tale notizia? Perche' questa operazione, ufficialmente mirata ad arrestare i colpevoli dell'omicidio di un poliziotto, lascia sul campo ben 45 albanesi uccisi (cosa che nessuno nega) e solo un soldato serbo ferito? Perche' nonostante questo successo le forze serbe hanno abbandonato il villaggio, senza arrestare nessuno e senza mantenere la posizione conquistata per poi tentare ancora di effettuare gli arresti, visto che per questo si era mossa con artiglieria pesante e ingenti forze per ben due giorni consecutivi? Perche' l'OSCE (che in quel settore é a comando italiano) non ha denunciato energicamente e subito la massiccia offensiva portata contro vari villaggi con intensi bombardamenti, in atto già almeno 24 ore prima del massacro e che ha provocato migliaia di profughi, dopo che da giorni erano in corso grandi manovre serbe con altri attacchi, limitandosi invece a segnalare solamente spostamenti di mezzi e generici scontri?
Esattamente una settimana prima, un'imboscata dell'UCK contro una colonna di corazzati serbi che si stavano ridispiegando sul terreno a qualche chilometro di distanza da Racak, in palese violazione degli accordi e in preparazione della violenta offensiva, aveva provocato tre morti. Ebbene, in quell'occasione i verificatori OSCE si erano recati seduta stante sul posto, avevano immediatamente fatto rapporto alle loro cancellerie e nel giro di alcune ore tutte le capitali mondiali avevano attaccato duramente l'UCK per la sua "provocazione" (AFP e Reuters, 8 gennaio). Nel caso di Racak, invece, tutti questi meccanismi si sono mossi con 48 ore di ritardo e questo nonostante la polizia serba avesse essa stessa avvisato i verificatori, costringendoli comunque a fare da testimoni. E infine, non meno importante, se anche le ipotesi di una "messinscena" da parte dell'UCK fossero vere, ci dovremmo trovare di fronte a una situazione in cui assolutamente tutti mentono: mente l'UCK, mentono gli abitanti del villaggio, mente l'OSCE, mentono i giornalisti (compresi quelli della APTV, come abbiamo visto), ma, soprattutto, mentono le autorità di Belgrado e i loro giornali. Infatti, le dichiarazioni ufficiali riportate in merito alla dinamica dell'evento da parte del ministero degli interni serbo e quelle, da considerarsi assolutamente ufficiali, del presidente della repubblica serbo Milutinovic, sono in aperta contraddizione con questa ipotesi: per Belgrado, infatti, le proprie forze sono state oggetto di una "feroce imboscata terroristica" (come abbiamo già fatto notare, talmente feroce che 45 guerriglieri muoiono, mentre i serbi lamentano solo un ferito), di cui nelle "rivelazioni" di questi giorni non c'e' assolutamente traccia (il villaggio e' vuoto e pacifico e non reca alcun segno di combattimenti o razzie, i guerriglieri si limitano a sparare dai boschi sulle cime sovrastanti - "Le Monde", 21 gennaio; "Le Figaro", 21 gennaio), cosi' come non ve ne é traccia in alcun altro resoconto.
"Le Figaro" (21 gennaio) scrive che é "particolarmente inquietante che la polizia serba non abbia mai cercato di nascondere la propria operazione. "Le Monde" (21 gennaio), commentando il coinvolgimento sul posto dei due giornalisti della APTV e dei verificatori dell'OSCE rileva il fatto evidente che "la pubblicità fatta dalla polizia serba in merito a questa operazione é intensa".
Detto tutto questo, non si può non ricordare che il massacro c'é stato e che ciò non viene negato da nessuno, nemmeno da Belgrado. Anche l'intero contesto viene confermato in maniera identica da tutte le parti, senza eccezioni: attacchi su vasta scala, contro interi villaggi, condotti con mezzi corazzati e artiglieria pesante, in corso per due giorni interi; più di 5.000 profughi in tutta l'area che stanno vivendo in condizioni inumane; le forze pesanti serbe che rimangono nell'area e proseguono gli attacchi nei giorni successivi al massacro. é questo il quadro, che per mesi è stato il quadro normale di una guerra condotta ininterrottamente da un regime violento e autoritario contro un'intera popolazione insorta dopo lunghi anni di continue repressioni e di resistenza pacifica. Le disquisizioni (come abbiamo visto, prive di fondamento) sulle presunte messe in scena dovrebbero quindi tutt'al più interessare qualche burocrate dell'OSCE e delle cancellerie occidentali per i propri giochi diplomatici.
[Per una estesa documentazione sul massacro di Racak, con i testi integrali degli articoli di "Le Figaro", "Le Monde" e altro ancora, si può consultare lo speciale sul massacro di Racak pubblicato da "Notizie Est" in 6 numeri tra il 21 e il 28 gennaio, archiviato in: http://www.ecn.org/est/balcani/kosovo/kosovindex.htm]