Lasciatevia andare...                                                  19


i  n  f  r   a  n  t  u  m i
IMPROVVISAZIONI SU STARFCKERS

ho partorito mia figlia mentre ero ubriaca
mi sono sempre sentita invischiata con le mani o con i
piedi in qualcosa di più grande di me, che non potevo
controllare o fuggire - mi sono imbarcata in un viaggio
all’estero come sedermi al bar a bere.
ho sentito vibrare tutto dentro di me - pulsazioni del
cazzo ossessive e tonde - porticine che si chiudono
respiri

senza allontanarmi mai ho respirato l’aria di quello che
poteva essere altrove - di martedì - strappato alla valigia
trafitta da quella picca medievale scovata nella cantina
piena di ragni e pidocchi in cui nella seconda guerra
mondiale ci rifugiavamo dalla luce del giorno troppo spessa

bambini studiati a ripetizione si incagliano sotto le unghie
dell’organista lesbica che mi trapana la giugulare con la
lingua mentre cerca di toccarmi l’anima che non le darò
mai che non troverà passandomi attraverso che incaglierò
sul fondo fino a che non mi strappo il collo all’indietro e mi
batti sul petto e la schiena per farmi respirare aria asmatica
febbricitante sento che si spenge ce se ne va sotto la
camicia a quadretti celesti stirata male vedo i resti del
pranzo di ieri avvinghiati dentro un castello infeltrito di buio
stratosferico una guardiola silenziosa di notte non mi fa
sentire al sicuro quando mi tocchi senza cercarmi

mi scordo le cose si riavvolgono i ricordi sbagliati di
quel che non è successo quei treni persi per un piede
pesante di chilometri assonnati le canzoncine che mi
ricordo di non so chi la faccia improvvisa dietro una porta
di un angolo tra i miei passi lenti frammentati incerti pestati
incespicosi falsi in queste strade bianche di gesso impauriti

riempio i flutti di sputi mentre si sbriciolano le lacrime
io monto un urlo e lo distruggo a morsi respirando a
strappi senza ascoltare lo strusciare indisponente gracchia a
28 giri e non c’è più la puntina seppellita dell’eco di questa
buca scavata dal mio respiro a fatica stendo il ronzio
trasportato inscatolato e svanisco

sacrificata continuamente e premuta da schiaffi sul viso e
colpi di tosse lontani - sentivo ronzare le orecchie spesso e
niente di cosi insulso come quella carne sopra a strusciare e
slabbrare come brace sudicia

costruivo le giornate a sentimenti sovrapposti magra e
bianca e nuda contratta secchiata d’acqua a nessuna
temperatura sulla pelle morfinica che parrebbe tagliente
le ossa del bacino ne stirano la superficie e mi piaccio

ho l’impulso qualunque di pietrarmi in cucina a far da
mangiare sorridendo a uno zero che mi paga l’affitto e io
mi tocco i capelli pieni di bestie di cemento e fragole ma

mi accingo a tornare a casa a toccarmi di nuovo
piena di farisei tra ascella e maglietta

in un rituale stridente ti lego a un palo e io pure con i
vestiti e le forbici impazzite che spargono brandelli ovunque
soffocati cianotici qui senza parole adesso vibro ancora e
ancora di un blu elettrico secco e mattutino alzo il volume
e crepo la bocca piena di ancora rosso e friato di grandi
calamari stronzi pigiati fra pareti di caucciù cantano roba
dei paesi loro senza capirci un cazzo

sto in piedi pensierosa cerco di schianto un’idea apposta
dietro la prossima onda che sbatte indistinta sfrigolando la
polvere con le dita sopra piatti dipinti d’argento che si
sbreccano tra le onde corte di una radio lasciata a macerare
sul fondo e l’omino dentro la mia testa sente un suono dietro
la schiena e sente di svenire con gli occhi che stirano nervi
per il contrario mi arriccio le maniche e vibro tutta a
squarciagola mentre sono pezzi della mia pelle che volano
intorno a quel tuo sussultare di formica stupida persa nei fili
di una radiolina cruda messa sul cranio che stronca primitivi
battere ineguali e strafelice mi sbatto per terra fruttuosa e
desta nel guazzabuglio introverso che resta a girare sempre
qui sempre qui come melodia spersa

dimmi l’orecchio sinistro spostato gelato che inizia
nell’acqua cucita negli occhi aperti sempre dicevi che
sono storta e cruda giuda per strada lecco le vetrate su cui
poggi il riflesso e canto spenta friabili insistenti tranci di
note

schiaffi su tutto il corpo mentre rido e dita negli occhi
per andare altrove stretta intorno a un angolo che mi
imprigiona nella stessa città magnetica stupida che mi
schiaccia tra due fette di ferro a panino frullato in due

secondi fuori da questa finestra schiusa alla calura
indistruttibile del sole dimenticato acceso troppo a lungo
un teatro vuoto e una luce per terra mi fan sentire di tavola
di legno cocciuta sparisco nella piega